lunedì 19 novembre 2012

Duro a morire. Rasputin e la nostra vita.

Se scrivo "Duro a morire" la gente pensa a Bruce Willis con la canottiera sporca e i modi da pirla americano qualsiasi. No, il vero duro a morire fu un tale Rasputin.
Eddai, mica devo star qui a spiegare chi fosse Rasputin, dai. Basta una foto per farvi capire il terrore fobico che quest'uomo emanava. Quegl'occhi ipnotici, gelidi, magnetici. Mi ricordano, strano, quelli di mia nonna Satana. Strano, no strano davvero. Se non fosse per la barba giuro che scorgo qualche somiglianza.
 
 
 
Rasputin aveva la pellaccia dura.
Forse l'aveva temprato la sua inospitale terra natìa, la Siberia. O forse fu quel piccolo incidente nel fiume Tjura dove cadde insieme al fratello Misha, che dopo una settimana morì di polminite, forse invece fu il suo importantissimo percorso religioso (un mix di misticismo e orge attraverso cui si raggiungeva la purificazione della catarsi. Cosa non si dice per trombarsi la qualunque. La "catarsi". Sì). Una cosa è certa: Rasputin sembrava immortale.
Ammazzarlo fu un'impresa epica, sdrenante, alla pari del mattutino tentativo di entrare dentro ai miei jeans senza strappare il tessuto. Soprattutto quello muscolare.
 
Rasputin venne accolto a casa del principe Jusupov con la promessa di un buon Madera e di tanto sesso. Come non partecipare alla serata. Voglio dire. E' una settimana che ti avvertono del fatto che c'è gente che complotta per ucciderti, ma vuoi mettere? Madera e sesso. Mica la tombola da Don Tonino che tutte le volte finisce che chiami Ambo insieme alla signora Marchetti e il premio se lo prende lei. Eh.
Il buon principe offre a Rasputin pasticcini al cianuro e, per esser sicuro, Madera al cianuro. Rasputin mangia come Galeazzi ad una cresima a Torvaianica e rimane lì, leggermente stordito. Pallido come un cencio, Jusupov decide con gli altri complottanti di abbattere Rasputin a suon di proiettili. Bam! Un proiettile centra al cuore il laido religioso. Mentre i complottanti decidono di come sbarazzarsi del corpo, Rasputin si alza e se ne va'. Peccato, bella serata. Il vino sapeva un po' di tappo...
 
Jusupov si accorge che il monaco è fuggito, allora tutti si lanciano al suo inseguimento, gli sparano un colpo alla schiena, lo randellano di legnate e infine gli sparano in testa. Fatica ragazzi (e mentre lo scrivo mi viene in mente la voce di Bersani "Fatica ragazzi, siam mica qui a smacchiare i giaguari, mugiko maledetto!"). Stremati i complottanti avvolgono il corpo di Rasputin in un tappeto e lo buttano nel canale Malaja Mojka. Quando qualche giorno dopo troveranno il cadavere e ne faranno l'autopsia, si scoprirà che il monaco nei polmoni aveva acqua. Il bastardo era ancora vivo.
 
Tutto ciò per dirvi che il male che facciamo o che incarniamo, resiste cento o mille volte di più di tutto il bene che ci prodighiamo di fare. Che vi credevate? Che avrei parlato dell'incredibile bagaglio a mano di 33 cm che Rasputin aveva come pene? Per quello dovrei aprire un blog stile Ars Scopandi.
 
No qui si cerca di dare un significato, anche sbagliato per carità, non assolutistico ma personale e critico a morti che altrimenti non insegnerebbero nulla. E la morte insegna la vita. Rasputin beveva come un maiale, scopava come un maiale, si era fatto strada nei gangli della società con mezzucci squallidi e malati. Mi scende quasi una lacrima per l'ammirazione.
 
La lezione di oggi è a scelta: potete pensare che il male sia duro a morire oppure che vivere come un porco abbia i suoi vantaggi.
Io sinceramente sto ancora pensando a quei 33 cm di gioia e spensieratezza.
 

 
 

giovedì 15 novembre 2012

Thelma e Louise, ovvero l'amicizia dura per sempre.

Abbiamo 30 anni. Più o meno. Mi perdonino le lettrici e i lettori di 20 anni e smettano di gongolare quelli di 40.
Abbiamo 30 anni. Abbiamo un lavoro talmente brutto da farci vomitare ogni notte durante i nostri sogni migliori(sì, come no), abbiamo fidanzati o fidanzate esigenti, lagnosi/e, sessualmente frigidi/e (sì, come no), abbiamo una casa con altri coinquilini che ci mortificano, ci minacciano o barano a Monopoli (sì, dolorosamente, sì), abbiamo genitori che ci considerano bambini scemi quando si tratta di lavoro/pulizie di casa/generale conduzione dei rapporti umani o geni indiscussi quando hanno problemi al pc o parlano con la vicina (dialoghi del tipo "Allora suo/a figlio/a si è laureato/a?" "Ma certo! Ora è dottore/essa presso il Ginevra Institute of Economics e prende 16.000 euro all'ora!". Ovviamente sei laureato in Storia Medievale e stai languendo sul divano Ekbr dell'Ikea da almeno 4 mesi).
 
E ci dimentichiamo di un aspetto, a mio avviso, fondamentale. Gli amici. O se preferite "quelle persone tendenzialmente sbronze che mi raccolgono quando sono devastato di alcool/tristezza/sushi".
Da bambina mi chiedevo come mai i miei genitori non avessero amici. Sempre in casa, con me. Anche quando a casa non ci stavo più nemmeno io, tipo a 17 anni dispersa tra l'Estragon e qualche pub a caso. Ora che hanno 60 anni folleggiano e se ne vanno in gita a Medjugorie come se andassero a bere e cantare all'Oktoberfest.
Pure mia sorella rimase senza amici a 30 anni. Sposata, incinta, felice. Le amiche l'avevano abbandonata per non sposarsi, non figliare e continuare a sbronzarsi felici.
 
Ma io no. Non ci penso nemmeno. Sola, in una casa troppo grande, con il cuore spaccato stile "Ti giuro, è un Picasso, ma non capisco da che parte si guardi", me ne sto qui a pensare ai rapporti tra adulti. Siamo capaci di essere amici di qualcuno oltre l'età della spensieratezza o ci facciamo risucchiare dalla vita, dall'obbligo di diventare adulti e dalla stanchezza?
 
Secondo Ridley Scott sì. Ad un livello un po' estremo, ma sì.
E parlo di Thelma e Louise, che lasciano un marito violento e misogino e una vita vuota e priva di emozioni per un week end rilassante che diventerà una fuga verso la libertà. E dopo questa recensione degna di una Anna Praderio ispirata ai massimi livelli, vi spiego cosa c'entrano Thelma e Louise con noi 30enni del 2012.
Le due trucide attraversano l'America spargendo morte e distruzione sempre spalleggiandosi convinte che un marito e una vita da moglie sottomessa e un lavoro da cameriera e un uomo dolce ma remissivo non siano proprio quello che speravano di avere nella vita. E allora via, due amiche più sui 40 che sui 30, scoprono che forse la loro amicizia, il loro rapporto unico,  era quella svolta che le avrebbe salvate da quel grigiore e da quella povera vita omologata e comoda.
E così, braccate dalla polizia manco fossero Bin Laden e il Mullah Omar su un Ciao, decidono di farla finita, di non tornare indietro ma di andare avanti. Giù per il Canyon.
 
 
 
Noi ci diamo per scontati. E diamo per scontate le persone che ci stanno accanto. Che ci offrono panini alle olive e cipolle senza chiederti un euro ben sapendo che sei in bolletta, che ci convincono che siamo brave persone nonostante gli errori, che ancora a 30 anni ci redarguiscono sui tipi da non frequentare, che ci porgono uno spritz o una Moretti da 66 quando siamo tristi e ce li tolgono quando siamo sbronzi in modo molesto.
E quando le strade della vita si dividono e bisogna separarsi da un amico che se ne va' in un altro paese, con cui magari siamo cresciuti e che metti caso si senta obbligato a diventare "grande", la tristezza ci piomba addosso. Oltre che vecchi ci sentiamo vulnerabili, piccoli adolescenti. Oltre al danno, la beffa.
 
La lezione del giorno è: se un vostro caro amico che avete perso nelle maglie del tempo e degli obblighi da adulti vi sta per lasciare, prendetelo e portatelo a fare un bel week end. Possibilmente lontano da Canyon o burroni vari.

lunedì 12 novembre 2012

Empatia portami via: Kurt Cobain e la gente.

Sopportare se stessi a volte è problematico. Se a questo aggiungiamo, a meno che non si viva in un eremo a Marotta Mondolfo, che ogni giorno dobbiamo confrontarci con "gli altri" e i "loro problemi e le loro esigenze", allora perdere la ragione è molto meno improbabile di quanto sembri. Soprattutto se si è empatici come me e il vecchio Kurt.
 
Essere empatici vuol dire riempirsi di emozioni e sensazioni a livelli molto pericolosi.
Vuol dire piangere ad ogni reality lacrimoso sulla solita Famiglia Povera, tendenzialmente con 6 figli, 5 con problemi gravi e con una casa che cade letteralmente a pezzi. A differenza dalle persone normali, noi empatici continuiamo a piangere anche ore dopo la fine del reality, a letto prima di dormire o a cena mentre si mangia l'arrosto, quell'arrosto che ha reso ingiustamente celiaca la quarta figlia della Famiglia Povera. E giù lacrime.
Vuol dire preoccuparsi 5 o 10 volte più del normale per l'esame clinico dell'Amica x o dei problemi di figa dell'Amico y.
Portare i sentimenti degli altri sul nostro groppone come se fossero i nostri. Sì, tendenzialmente un comportamento masochistico ma che interpreta perfettamente il "non fare al tuo vicino quello che ti offenderebbe se fatto da lui" portato a livelli altissimi.
 
Questo non mi rende migliore di che tendenzialmente se ne frega, no. Questo mi rende più vulnerabile semmai. E, nel 90% dei casi, gli empatici son tali per imparare a gestire se stessi e le proprie emozioni, fregasega degli altri, che si arrangino loro e i loro problemi da High School americana.  Poi c'è chi esagera e sbrocca.
 
Se Kurt Cobain avesse visto uno di quei reality sulla classica Famiglia Povera, probabilmente avrebbe cominciato a dondolare impaurito in un angolo per giorni, dilaniato da un lato da un potente "CHISSENEFREGA" e dall'altro dall'incredibile sensibilità che lo pervadeva. Kurt Cobain ci provava ad essere empatico, ma era un po' come quella vignetta dei Peanuts dove Linus dice di non odiare l'umanità ma di non sopportare la gente. Kurt, la gente l'amava troppo  "C'è del buono in ognuno di noi e penso che io amo troppo la gente, così tanto che mi sento troppo fottutamente triste. Il piccolo triste, sensibile...!"scriveva nella sua lettera d'addio. Kurt era dilaniato dal difendere se stesso dall'emozioni altrui e dalle sue che ad un certo punto, forse, non riuscì più a provarne alcuna. E, sempre forse, si sparò.
 
 
 
Chiariamoci. Essere sposato a Courtney Love porterebbe alla saturazione anche Andrea Bocelli.
Chiariamoci. Strafarsi di roba e al tempo stesso sentirsi un sensibilone non ti porta certo a pensare di campare fino a cent'anni.
Chiariamoci. Kurt era fatto così. Era più facile spararsi in bocca che continuare a sentirsi una merda incapace di provare amore come fanno tutti gli altri. Come fanno tutti gli altri.
 
"[...]Solo perché a tutti sembra così facile tirare avanti ed essere empatici. Penso sia solo perché io amo troppo e mi rammarico troppo per la gente."
Certe persone sono più sensibili di altre. Queste persone amano illimitatamente il prossimo fino a che non ne vengono nauseate. E cominciano ad odiare.
 
Io, per inciso, amo essere empatica. Amo amarvi e cullare le vostre ansie.
Ma non sono un cestino dove gettare le vostre frustrazioni. O nemmeno un soldatino ai vostri ordini. O la vostra àncora di slavezza. Sono empatica al punto giusto.
Se per caso mi trovaste per terra a dondolare con gli occhi cerchiati da occhiaie viola, sappiate che può anche avermi chiamato mia madre 5 minuti prima e allora è normale.
No, non è facile essere empatici e tirare avanti in maniera semplice. Verrebbe quasi voglia di rinchiudersi nell'eremo a Marotta Mondolfo, che d'estate poi si sta bene e si va al mare con Fra Pleudonio. Ma a differenza di Kurt, io non ho milioni di fans, una moglie nevrastenica e droga. Per me è più facile essere ignorata.
 
La lezione di oggi è che al mondo esistono persone che hanno un cuore più grande degli altri, fatto di vetro sottilissimo. Di solito queste persone si accoppiano con individui dal cuore delle dimensioni una nocciola. Una nocciola di Kevlar.
 
"I miei testi sono un gran mucchio di contraddizioni. Sono spaccati esattamente a metà tra opinioni estremamente sincere e sentimenti che nutro e confutazioni sarcastiche e spero umoristiche di ideali stereotipati da bohèmien superati da anni. Insomma, è come se per le personalità di chi scrive canzoni non ci fossero due scelte possibili. O quella di visionari tristi e tragici come Morrisey, Michael Stipe o Robert Smith, oppure il ragazzino bianco sgraziato e un po' fuori di testa da "Ehi, facciamo festa e dimentichiamoci di tutto" tipo i Van Halen o tutta quell'altra merda di heavy metal. Quello che voglio dire è che provare passione ed essere sincero mi piace, ma mi piace anche divertirmi e fare il cretino."
Kurt Cobain

venerdì 9 novembre 2012

Pillole di Morte: Jacques Futrelle

Da oggi inauguro la sezione "Pillole di Morte", una morte flash per allietarvi la giornata e permettere a me di stirare e ascoltare le psicosi mistiche di mia madre.
 
Il nostro primo morto flash è Jacques Futrelle, giallista americano che morì a bordo del Titanic in quella fredda serata del 1912.
 
Jacques Futrelle fu autore di numerosi gialli con protagonista Augustus S.F.X Van Dusen detto "La macchina pensante". Personalmente vi consiglio di leggere il suo racconto "La casa fantasma", un po' di suspense vecchia maniera.
La notte del 15 aprile 1912 Futrelle si assicurò che la moglie Lily May si accomodasse su una scialuppa di salvataggio dopodichè si fermò a fumare con un altro grande personaggio del Titanic, John J. Astor IV. Il suo corpo, a differenza di quello di Astor, non fu mai ritrovato.
 
Piccola curiosità: in seguito la moglie disse che se la sera prima del viaggio, che passarono a casa di amici a far baldoria, Jacques si fosse ubriacato allora forse non sarebbero mai partiti. Quello che lo fregò fu la sua morigeratezza nel bere. Cosa che, manco a dirlo, non fregherà mai me: al massimo potrei imbarcarmi su un cargo diretto a Panama pieno di omaccioni nerboruti o, più probabilmente, ritrovarmi al deposito A.T.C di Via Battindarno sul 20 barrato.

Lezione flash di oggi: cosa ve lo dico a fare.. Bevete.

mercoledì 7 novembre 2012

Buonanotte Tesor mio (dormire è un po' come morire)

Mi sono ricordata che da bambina mia madre mi aveva regalato un bellissimo libro di fiabe.
Anche mia nonna me ne regalava sempre e io li amavo, quei disegni, quelle principesse con tutti quei pizzi nei vestiti, i capelli biondi e lucenti o neri come la notte. Assoluto, intenso amore per tutte quelle fiabe.
Ma torniamo a mia madre. Il libro era, se non erro, un libro di fiabe piemontesi e valdostane. I disegni erano i più belli che io avessi mai visto. Colori che non sapevo esistessero. Luoghi immaginari più veri di qualsiasi documentario televisivo avessi mai guardato per più di un minuto.
Ecco, quelle fiabe eran sempre mortali. Una, se ben mi ricordo, parlava di una bellissima fanciulla a cui amputarono entrambe le mani buttandola poi in un pozzo senza che avesse la possibilità di arrampicarsi. Le avevano tolto in un sol colpo la speranza e la vita. Ah sì, e le mani.
Le fiabe di mia madre erano tutte così. Arriva il principe, salva la principessa, poi si sposano, ma litigano e lui la uccide gettandola tra serpenti o giù per una rupe. Tipo il telegiornale delle 20.
 
E poi state lì a chiedervi perché parlo di morte. Mah. Chissà.
 
Svicolando da tutti questi scenari di disperazione ed angoscia, la fiaba che adoravo di più da bambina era quella de La bella addormentata nel bosco. The original one, anche se la videocassetta della Disney fu consumata peggio che un video porno di un erotomane negli anni '80.
Nella versione originale la cara Bella Addormentata pungendosi col fuso si addormenta e insieme a lei, grazie ad un incantesimo di una fata madrina, tutto il regno per 100 anni. 100 fottuti anni. Ovviamente passa il solito principe che con un bacio la sveglia e con lei tutti si alzano a celebrare l'amore.
Ma poi c'è un seguito. E qui mia madre apprezzava. Le si illuminavano gli occhi.
La Bella Addormentata si sposa col suo principe e mette al mondo due figlioletti, un maschio e una femmina. Ma il principe tiene la sua mamma all'oscuro della nuova nuora e dei nipotini per un valido motivo.
Quando si dice che la suocera è un mostro non si sbaglia perché la madre del grazioso principe in realtà era un'orchessa. Appena viene a conoscenza del fatto di avere una famiglia, la suocera impazzisce. Ma non di gioia. In quanto orchessa chiede ai suoi servitori di poter mangiare a cena i due nipotini. In quanto suocera chiede di poter mangiare anche la nuora.
Ovviamente la famigliola scampa ai piani malefici della Sig.ra Orchessa che decide di braccarli per gettarli nella solita rupe piena di animali velenosi. Il principe però si ribella a mammà e le dice di farsi gli affari suoi e di smetterla di mangiare bambini che poi non li digerisce e la notte poi son dolori.
Così, la povera orchessa, rimasta sola, si suicida gettandosi nella solita rupe.
 
 
 
No, la morta del giorno non è l'orchessa ma la nuora, la Bella Addormentata.
Una che dorme per 100 anni, permettetemi, è più morta di un morto vero con i vermi e tutto il resto. Per 100 anni te ne stai lì, immobile, aspettando che un principe ti svegli con un bacio.
Va bene, non è colpa tua, la solita vecchia che augura sciagure e punge con un fuso le giovani ragazzine, chi non l'ha mai incontrata per strada? Ma una volta che il principe ti sveglia con un bacio hai tutto il mondo davanti cara! Hai 100 anni di mode imbarazzanti da recuperare, 100 anni di scherzi telefonici arretrati, 100 anni di limonate selvagge nei sedili zozzi di una Punto, 100 anni di aperitivi e sbronze senza un domani al baretto sotto casa da pagare, 100 anni di esami universitari con la media del 28 che tanto fai antropologia e chi vuoi che ti assuma.
La Disney e i Fratelli Grimm fanno finire qui la fiaba. La principessa farà tutte queste cose, magari insieme al suo bel principe o ad un fuoricorso di economia a cui piacciono il Che e le Birkenstock.
Ma nella versione che mi hanno sempre raccontato, la povera rincoglionita della Bella A. si rinchiude in un matrimonio reale, sforna due bambini e litiga con la suocera. Bella merda.
 
Allora sai che succede? Che la lezione di oggi è che a volte la nostra vita è una fiaba, sta a noi decidere dove mettere la parola fine.

lunedì 5 novembre 2012

Sì, lo voglio. Sposarsi è un po' come morire.

Ve lo dico con l'amore che ha un padre verso un figlio. Un padre marines verso un figlio che ascolta Boy George, del tipo. Piantatela di sposarvi.
Sono veramente esausta di vedere le vostre facciotte felici in tight e i vostri occhi luccicanti in vestiti catarifrangenti di Oliviero moda sposi mentre pensate al vostro viaggio di nozze in America. Sempre e solo in America. Non so quante lune di miele ho sovvenzionato quest'anno, a quanti soggiorni negli States posso aver contribuito. Francamente ho perso il conto. E i soldi.
So cosa state pensando nelle vostre testoline impregnate dalla marcia nuziale, starete malignando, "Sei solo invidiosa!".
Oh, ovviamente.
Ho sempre sognato l'abito bianco, la chiesa sconsacrata in stile gotico inglese, la cerimonia alle 18, l'alcool e le danze con gli amici fino a tarda notte. La prima notte di nozze. La luna di miele.
Anzi, a ben pensarci mi rivedo su una panchina, nel caldo maggio del 2010, con un catalogo di Francorosso, a decidere una meta per la mia luna di miele. Già. La MIA.
E ora mi accorgo che è il 2012. E non sono mai andata in Malesia con gli Orango o in Messico sulle tracce degli Aztechi. Al massimo in Puglia con una famiglia molesta a giocare a "Uno".
Sì, è lunedì e posso fare la tragica.
Mi pesa avere 30 anni e pensare che negli ultimi 8 la persona che mi viveva accanto non abbia mai pensato a me come una moglie, come la metà perfetta con cui trascorrere la vita. Inquietante come "Non aprite quella porta", ma sensato.
E ora? Mi sposerò a 45 anni in palese sovrappeso ovarico e le mie nozze finiranno su "Chi"?
La speranza è l'ultima a morire.
E lo sapeva bene la morta del giorno. Jade Goody.
 
Chi cazzo è Jade Goody?
Durante il mio primo viaggio a Londra, qualche annetto fa, feci incetta di giornaletti gossippari britannici per infarcirmi di quella cultura neanche tanto sotterranea che impermea la loro monotona vita da broker della City. Su tutte le riviste campeggiava la coraggiosa battaglia di Jade Goody, una 28 enne ex celebrità del Grande Fratello, malata terminale di tumore al collo uterino che combatteva la sua inutile battaglia contro il male a suon d'interviste e foto.
Il suo ultimo, grande desiderio fu quello di sposarsi con il suo fidanzato Jack Tweed. Il 22 febbraio 2009 coronò il suo sogno in grande stile, Mohamed Al-Fayed gli donò un sontuoso abito proveniente direttamente dall'alta sartoria di Harrods.
Un mese dopo, il 22 marzo, Jade morì. Contribuì ad innalzare il livello di prevenzione tumorale tra le giovani del Regno Unito e con tutti i soldi ricavati con interviste e altro assicurò un futuro dignitoso ai suoi due figli. E soprattutto morì sposata al suo grande amore. Che giusto un mese dopo la sua morte fu beccato in una bella orgia in un hotel inglese. Sarà stato affranto dal dolore per non accorgersi di essere nel bel mezzo di qualche amplesso.
 
 
 
La vita a quanto pare è brevissima, Jade Goody era nata nel 1981. Giusto un anno prima di me. E non era certo la classica ragazza da matrimonio. Due figli avuti da una relazione precedente, cicciona, sboccata, razzista al punto da causare un incidente diplomatico tra India e Gran Bretagna. Insomma, Giuliano Ferrara in gonnella.
 
E in tutto questo, esattamente un anno e qualche mese dopo la sua morte, io stavo lì, su quella panchina con quel catalogo di Francorosso.
Ed esattamente tre anni dopo la sua morte me ne sto qui, sola, a pensare che un giorno, qualcuno di voi pagherà il MIO viaggio di nozze. Fosse anche a Casalborsetti.
 
La lezione di oggi è che a sposarsi son tutti capaci. Si chiama circonvenzione d'incapace.
Ma non tutti son capaci di stare soli.
 

mercoledì 31 ottobre 2012

Il giorno del morto.

E son qui. Il 31 ottobre.
Non sto qui a disquisire su Halloween. Chi vuole lo festeggi come Samhain, come Ognissanti, come "C'è Juve-Bologna". Fate quello che vi pare.
 
Sta di fatto che questo è il periodo dell'anno che preferisco. Aria mortifera, nebbia, freddo, serate con gli amici, piumoni e plaid, cioccolata calda e il conto alla rovescia per il Natale che si avvicina. Sì, mi piace Natale. Flagellatemi.
 
Venerdì, sfidando la fila di anziani e prefiche che affoleranno i cimiteri del globo terracqueo, mi recherò alla Certosa di Bologna per ricordare quel santo in terra di mio nonno. Lasciando mia nonna in fila a fare a gare di sfighe, sport che tra le anziane spopola ed è alla pari, come popolarità, alle bocce o alla briscolaccia per i vecchi.
Andiamo tutti come zombie verso i cimiteri per poggiar due fiori a qualcuno che durante il resto dell'anno resta sepolto sotto terra e nei nostri ricordi. Una sorta di "Io e te 3 metri sotto terra".
 
Allora, oggi, voglio parlarvi di una ragazza di cui vorrei ricordarmi tutto l'anno.
 
Lei era una ragazza molto fragile e molto dura, tenera come un peluche e chiusa come una cassaforte. Nonostante l'apparenza spregiudicata e goliardica amava molto le rassicurazioni, gli abbracci, i complimenti. Nata sicura e coraggiosa negli anni ha visto il suo fisico e il suo carattere fiaccati dal poco affetto e dalla costante mancanza di fiducia nelle (scarse) capacità intellettive di chi la circondava. Lei cominciò lentamente a sfiorire nel 2006. Aveva perso un amico, un nonno che l'amava silenziosamente e la reputava la più capace tra quei 4 caproni di casa, aveva perso le amiche di cui non sentiva più il caldo abbraccio della comprensione.
Fu difficile per Lei riprendersi e vi assicuro che ogni giorno guardavo quelle guance rigarsi di lacrime inutili, di un inutile dolore, di un utile ma necessario catartico cambiamento.
Passarono 4 anni di lavoro e ricordi, di viaggi e chiacchierate tra me e Lei, il suo sorriso in costante crescita, la pelle più luminosa di qualsiasi modella della Oil of Olaz e quegl'occhi nuovi e chiari. Era rinata.
Nel 2010 Lei capì che ce l'aveva fatta, "il tarlo" era lontano, la vita era lì davanti: amici nuovi, una nuova percezione dell'affetto e dell'amore. La consapevolezza di essere tornata sicura e coraggiosa.
 
Solo nelle favole c'è il lieto fine. E nemmeno in tutte. Andersen fa fare una brutta fine a quasi tutti i suoi personaggi. Tipo quella poveraccia della Sirenetta che muore per troppo amore.
 
Un po' com'è successo a Lei.
Nel 2012 il castello di ghiaccio si scioglie come il suo povero e debole fisico. Perde tutto. Il lavoro, l'amore, la sensazione rassicurante di essere coraggiosa. E così, in un momento imprecisato dell'anno, Lei muore. 
E mi trovo spesso qui a piangerla, a ricordare le rispostacce che dava ai ragazzi che la deludevano, il suo naturale incedere come un Caterpillar silenzioso sulle offese della vita, il sorriso 36 denti che sfoggiava ogni qualvolta vedesse in tv un documentario sui nazisti, il rimpianto di non aver avuto una romantica storia d'amore con un menomato personaggio bazzanese di nome Aereo e il vero doloroso rimpianto di non aver dato abbastanza a chi davvero se lo meritava.
 
 
 
Ma come insegna Halloween o Samhain o la festa del Fuoco fianco a fianco (Fucacost) di Orsara, in Puglia, i morti tornano.
 
E io, Lei, come uno zombie tornerò ad affacciarmi alla vita.
Probabilmente ballando "Thriller" di Michael Jackson.
Buon Halloween. O quello che è.