martedì 23 aprile 2013

Doo be doo be doo: ovvero come resistere agli urti della vita essendo Frank Sinatra.

Partendo dal fatto che non ho gli occhi blu, quindi già parto svantaggiata, avrei sempre voluto essere Frank Sinatra.
Sempre. Sin da quella volta, a 7 anni, chiusa dentro l'ascensore con mia madre, al buio, intrappolata, in cui mi misi a cantare "Strengers in the naaaaaaait memparinenscionsee". Sapendo solo quel pezzo lo cantai all'infinito, lacerando il cuore della mia povera mamma e dei poveri operai che si prodigavano nell'impresa di estrarci da quel maledetto aggeggio di latta che ancora oggi, intatto, continua a fare su e giù nel mio palazzo. Giurai di non prenderlo mai più se ne fossi uscita.
 
Sorvolando sul fatto che nemmeno costretta da Satana in persona farei mai 5 piani di scale e che quindi l'aggeggio di latta mi salva dall'enfisema tra le due e le quattro volte al giorno, io, quella sera buia illuminata dalle torce, pensavo di essere Frank a Las Vegas.
E d'altronde come non pensarlo? L'Italia degli anni '80, Bettino Craxi e Ezio Greggio, gli "yuppies" e il muro di Berlino, gli anni '90 alle porte, l'adolescenza che sarebbe esplosa.
E basta riguardare l'aggeggio di latta ora, 23 anni dopo. Solo la pulsantiera è stata cambiata. Del resto tutto, graffiti, vetri incisi, "Maresca stronzo" scritto sul muro tra un piano e l'altro.
Le grandi promesse di prosperità e amore sono lì, intrappolate tra "Maresca stronzo" e la pulsantiera nuova. E chiaramente non possiedo nemmeno l'alluce del figlio di Frank Sinatra.
 
 
 
Lui era scintillante, attento ai problemi razziali, colluso con poteri oscuri, ammaliante, seducente, intelligente e soprattutto il miglior amico che si potesse avere.
4 mogli, 3 figli, 2 Oscar e milioni di dischi venduti.
E io che pensavo di emularlo cantando "Strangers in the night" in ascensore. La mia attuale vita non mi permetterebbe nemmeno di avere tempo per essere "attenta ai problemi razziali". E soprattutto non ho il cuore di Frank. Non flirto con Ava Gardner o Mia Farrow, non ammalio nemmeno il pakistano che mi vende a prezzo pieno i braccialetti di stoffa anni '90. E l'unico potere oscuro con cui sono collusa attualmente è la macchinetta mangiasoldi che eroga caffè al primo piano del padiglione B dell'ospedale in cui lavoro.
In questo momento mi duole anche pensare che come amica non sfioro nemmeno la giacca di Frank. Al massimo potrei essere Dean Martin, anche come quantità di alcool ingerite.
Ma due Oscar me li merito. L'Oscar per la straordinaria forza di volontà nel non buttarsi sotto ad un camion di provole guidato da un pugliese avvinazzato e l'Oscar per la stupida persistenza a farmi mettere i piedi in testa da chiunque pensi di poterlo fare senza pagarne alcuna conseguenza.
 
Ma è l'onestà che ci rimette in piedi. E io voglio essere onesta: le ultime parole di Frank furono "I'm losing", "Sto perdendo" e guardacaso sono anche le mie.
Sta di fatto però che ora, in questo preciso momento, l'unica scelta obbligata è di lasciare quelle parole dentro l'ascensore che mi/ci intrappola e pensare alla frase sulla semplice, piccola, lapide di Frank :
"The best is yet to come"