mercoledì 19 settembre 2012

Bevo e scrivo. Scrivo e bevo.

"Dovresti scrivere un libro" è la frase che mi sento dire più spesso negli ultimi mesi. E' il nuovo slogan del 2012, che ha rimpiazzato l'obsoleto "Dovresti fare teatro" che andava avanti dal 2000.
 
Signore e signori, lasciate che vi spieghi come funziona la mia cosiddetta "diarrea creativa".
 
Il motore propulsivo del mio scrivere è la noia. O il bisogno di comunicare l'incomunicabile. A seconda delle giornate, delle sensazioni, dell'irrimediabile scazzo con me stessa prevale una o l'altra.
Forse, e questa è seriamente l'ultima spinta al mio scrivere compulsivo, è anche la mia tragica incapacità a farmi capire parlando, semplicemente coniugando suoni ed emozioni a farmi scrivere. Roba che dovrei girare con dei post it per fare determinati discorsi.
Sono una scrittrice. Mi sento di poterlo tranquillamente affermare. Anche perchè sono nata lo stesso giorno di un altro grande scrittore con cui condivido un'altra passione, oltre all'imbrattare carte.

Francis Scott Fitzgerald nacque il 24 settembre del 1896. Ed era un alcolizzato. E ha scritto il "Grande Gatsby". Io sono nata il 24 settembre 1982. Sono una sbronzona. E scrivo questo blog.
Io e Francis per ora abbiamo un sacco di cose in comune. Compreso il rapporto disastroso con le donne (per lui) e con gli uomini (per me) e la nevrosi costante. Inoltre entrambi siamo ottimi ballerini. Fino a poco tempo fa portavamo tutti e due una spavalda riga in mezzo.
Francis aveva una moglie schizofrenica di nome Zelda (curiosità, vi ricordate il giochino della Nintendo "La leggenda di Zelda"? Beh, il nome della principessa  Zelda viene proprio da lei), erano la coppia più "In" dei ruggenti anni '20, furoreggiavano e facevano sconquassi ovunque andassero. Poi la noia, gli scandali, Zelda che si dava da fare con un sacco di gente e Francis che menava tassisti per hobby. Si arrivò alla fine rapidamente: Zelda ricoverata per squilibri mentali e Francis che si attacca alla boccia. Le nevrosi lo ammazzarono il 21 dicembre del 1940. Zelda morì 8 anni dopo nell'incendio della casa di cura dov'era ricoverata.
L'amica di Francis, Dorothy Parker, si accommiatò da lui con un tenero e sincero "Povero, vecchio bastardo". La dice lunga sul personaggio.



Per quanto mi riguarda non sono ancora arrivata a scrivere capolavori come il caro Francis, ma sulla strada dell'alcolismo siamo pari. Io però spero di arrivare almeno a Natale. E spero che la mia Zelda non prenda fuoco. D'altronde, usando le sue parole, "A volte è più difficile privarsi di un dolore che di un piacere".
La lezione di oggi non c'è. Poveri, vecchi bastardi.

venerdì 14 settembre 2012

Tu riga dritto.

Vi avverto. Questa mattina il mio corpo è per l'80% composto di Jagermeister. 
Tuttavia oggi vi voglio parlare dell'amore. E della morte, ovviamente.
Sul primo argomento sono una chiavica, lo ammetto. Ma siccome sul secondo sono praticamente una maestra, ho scelto di parlarvi di una coppia inossidabile che parlasse d'amore al posto mio.
 
 
 
Un giorno come tanti sono sdraiata sul divano di casa che guardo una puntata de "La signora del west", un patetico telefilm western anni '90 su una donna medico. Appassionante come le finali di tresette del Centro Anziani sotto casa mia (che oh, quando Bertoni c'ha l'asso di denara vedi come cambia il clima). Beh, insomma, son lì a seguire l'ennesimo pneumotorace fatto in casa quando si palesa uno strano personaggio sullo sfondo. Un cowboy misterioso, sui 60/70 anni, tutto vestito di nero. Lo guardo bene. Salto sulla sedia.
Ma quello è Johnny Cash, Cristo!
Cosa diamine ci facesse Johnny Cash in un telefilm da 4 soldi non so, so solo che subito dopo appare una donnina dimessa, una specie di suorina laica.
E crocefiggimi Gesù se quella non è la moglie di Johnny, June Carter Cash!
 
Johnny Cash e June Carter si sono amati per 35 anni. E anche di più. Lei reduce da 2 matrimoni falliti, lui da uno. Lui fradicio di alcool, lei una fatina dalla voce dolce. Loro che insieme riscoprono il sovracitato Gesù. Lui che riga dritto. Che poi, volgarmente, è la traduzione del mio pezzo preferito, "Walk the line". Sì, perchè Johnny era un grosso paranoico alcolizzato. Uno di quelli che ingaggiava rissa e si chiudeva in se stesso a commiserarsi ogni volta che aveva due minuti liberi. Poi è arrivata June, calma serafica, sorriso tranquillo e due occhi chiari e sinceri. Un amore salvifico, un amore che per 35 anni ha unito due geni musicali fino al maggio del 2003 quando June ci ha lasciati. Lo ha lasciato. A settembre dello stesso anno anche Johnny ha deciso di abbandonare questo mondo lurido.
 
Io, ripeto, non ci capisco nulla d'amore. E a giudicare da ieri sera, dove 7 persone attorno ad un tavolo han parlato in scioltezza di sesso per ore ma arrivati all'argomento "amore" a momenti si scatena una rissa, siamo in molti a non capirci nulla.
Ma di morte me ne intendo, modestamente. Se per 35 anni hai vissuto nel cuore di un altro alla fine non puoi reggere alla sua morte. E così è stato per Johnny e June. Hanno attraversato dipendenze da alcool, matrimoni e divorzi, dolori e gioie. La morte li ha presi insieme.
Li invidio? Sì. Spero in un grande amore come il loro? Non posso permettermelo. Non sono June Carter Cash e sinceramente per addomesticare un Johnny Cash dovrei quantomeno avere di fronte un cuore grande che mi accolga dentro.
 
La lezione di oggi è lunga: l'amore fa schifo. E fin qui tutti d'accordo. Ma se per ogni Johnny, sperduto solo e alcolizzato, c'è una June, allora il mondo è salvo. Si risparmia anche sulle esequie.
 
 
 

giovedì 13 settembre 2012

Un morto in comune

E' vero, è vero, chiedo scusa. Faccio ammenda. Mi metto in ginocchio sui ceci.
Avevo cominciato questo blog con il precisissimo scopo di sollazzare la gente parlando di morte. E ci sono riuscita, credo. Nello specifico, parlando di gente la cui morte può essere definita "divertente".
E rinnovo le scuse perché da ora in avanti, questo blog, sarà più "introspettivo".
Lo so. Lo so. Quando qualcuno scrive la parola "introspettivo" rispetto a qualcosa, la reazione più comune è la voglia immediata di urlare e farsi prendere dall'isterismo sperando in repliche di "Grandi Magazzini" in tv.
Sono comunque sicura che apprezzerete.

La prima introspezione riguarda un morto che abbiamo in comune tutti. E' il cosiddetto "cadavere del nostro nemico".
Ho sempre adorato l'immagine di me seduta sulle rive di un fiume, in piena Val Padana, divorata dalle zanzare, che impassibile aspetto che passi il cadavere del mio nemico. O I cadaveri.
Non diciamoci balle, noi tutti speriamo che prima o poi davanti al nostro naso passi il cadavere del nostro primo amore, quello che ci ha lasciato con uno squarcio nel cuore e uno nel portafoglio, il cadavere della nostra maestra delle elementari con le sue paranoie cattoliche e le preghiere da recitare o quello del bulletto delle medie che alle superiori, se ti va bene, continua a fare l'ignorante altrimenti diventa il sindacalista molesto che ti fa sentire stupido e inadeguato. E continuerà a picchiarti comunque.

Ripensandoci però la maggior parte dei cadaveri che ho visto passare in questi anni sono, diciamo, "risorti". Può capitare che l'amico che avevi messo in guardia da un fantomatico pericolo decida di andarsene per i fatti suoi lasciandoti solo ed impotente. Può capitare che lo stesso amico s'infanghi in quel fantomatico pericolo. E tu, seduto sull'argine, lo vedi passare. Come fosse una regata del "Te l'avevo detto". Aspetti la conferma dei tuoi sospetti. Aspetti che quel cadavere venga verso di te e ammetta di aver sbagliato.  Una specie di rivincita karmica, ma non voglio infognarmi in discorsi karmici, ci sono istituti e religioni che lo fanno egregiamente al posto mio. Penso semplicemente che a volte il nostro miglior amico, fratello, compagno di università etc. possa trasformarsi di diritto nel nostro più tenace nemico, il più difficile da contrastare. Quando l'affetto si trasforma in mal sopportazione il passo verso il fiume è breve.



E allora ecco quel morto che tutti abbiamo in comune, quello che aspettiamo per anni, quello che magari passa quando noi siamo ancora in piedi. Il cadavere che si alza, ti mette una mano sulla spalla e ti chiede scusa. Noi, se non siamo scemi, sorridiamo ed accondiscendiamo. Basta con i musi lunghi o le facce ingrugnite alla Gabriel Garko.
Se la ferita del nostro nemico ancora fa male, allora, bisogna ributtarlo nel fiume. E tenergli la testa sotto. Maledetti nemici zombie.

La lezione di oggi è che aspettare sulle rive di un fiume, pazienti e granitici, il più delle volte ripaga. Ma se sulla riva opposta vedete il vostro nemico che aspetta, attenti a non finire nel fiume.
E ora scusate, mi alzo che a forza di star sull'argine ho il culo tutto bagnato. Vado a fare il cadavare per qualcun'altro.



 

mercoledì 12 settembre 2012

Sei morta un sabato mattina.

Il post, ieri alle 16 e 39, era già pronto ed impacchettato. Fatto. Parlava della morte di Jenny in Forrest Gump. Un bella coincidenza visto che ieri sera, facendo zapping, becco il film su Rete 4. Ma guarda un po'.
Ora, la visione di Forrest Gump da parte della sottoscritta è stata metabolizzata a dovere anni fa. Basta versare lacrime per Buba e i suoi gamberi, stop ai facili  isterismi davanti al povero Forrest che corre per schivare i bulli.
Ma più guardavo il film più pensavo al post che avevo scritto. Galvanizzata da alcuni commenti positivi e commossa dalla piaggeria di taluni, avevo cominciato a scrivere compulsivamente, stile schiacciasassi. Il risultato era divertente. Ma se la persona che scrive non ride da svariati mesi allora quello che ha scritto è falso, forzato. Detto tra noi, ho voglia di essere divertente come di sentire le lamentele di mia nonna sul suo pollicione in cancrena e sua mia cugina Gesica (sarebbe Gessica, ma mia nonna lo pronuncia alla francese. Credo) che è disoccupata, poverina (Già. Io invece mi ammazzo di lavoro). Scherzare sulla realtà, che ci vuole. Schernire la morte: diciamo che per farlo paradossalmente serve una dose di spensieratezza livello "Lino Banfi - allenatore nel pallone". Ora sono a livello "Luigi Tenco".

Così ho cancellato tutto. La morte non è divertente adesso. Oddio, almeno non nel caso di Jenny.
Personalmente considero una crudeltà verso il genere umano la scena del povero Forrest Gump davanti alla tomba della sua amatissima Jenny. Quel "Sei morta un sabato mattina" è come una fucilata che ti fa esplodere il petto in milioni di minuscoli pezzi.
 
 
 
La morte di Jenny è la morte più drammatica che io abbia mai vissuto cinematograficamente parlando. Sono sopravvissuta all'urlo di William Wallace, ho pianto senza fine per la morte del drago di "Dragonheart" (derisa da tutto il cinema, tra l'altro), ho affrontato tutti gli Harry Potter e ho imparato a convivere con la morte di Boromir ne "Il Signore degli anelli" solo dopo anni di terapia nerd.
Ma Jenny. Cristo santo, Jenny.
 
Forrest Gump affronta la vita con Jenny dentro al cuore guardando il cielo fondersi con la terra, dentro ai muscoli mentre corre per sopravvivere,  dentro la mente mentre pensa o parla. La sua vita E' Jenny.
Una mia amica una volta, tra le lacrime, mi disse "Quella puttana di Jenny gli spezza sempre il cuore!". Io, impassibile e granitica, la pensavo diversamente. Forrest Gump non ha avuto il cuore spezzato fino a quel sabato mattina, quando Jenny se ne va per sempre.
Perché, penso, non si può spezzare il cuore di qualcuno che ama in modo così assoluto e innocente.

Impassibile e granitica poi fino al momento in cui Jenny se ne va. Lì la mia esistenza vacilla in uno stato catatonico di stupidità adolescenziale.
E' il concetto di perdita che strazia il cuore. Un conto è se la persona che ami se ne va da te, si trasferisce, corre in Uganda ad aprire birrerie, veleggia verso città strapiene di opportunità lasciandoti solo come un verme. Puoi startene lì alla finestra ad aspettare che torni fino alla fine dei tempi o annegare la tua tristezza in galloni alcool. Un altro conto se la persona che aspetti non tornerà perché, biologicamente parlando, se n'è andata. E' un discorso semplicistico, avvolto in un semplicistico cattivo umore che m' impedisce di scrivere tomi sulla filosofia della morte e della perdita e mi fa affidare questa semplice riflessione a Robert Zemeckis e Tom Hanks.
 
La lezione di oggi non è semplice. Se ami qualcuno e hai la forza di aspettarlo per mesi, anni, ere geologiche allora fallo. Se hai fortuna tornerà da te. Altrimenti ci pensa la morte.
 
 
 

martedì 11 settembre 2012

Difficile da Gestire

Capita nella vita di tutti un momento in cui le certezze si sgretolano. Sì, il mio male di vivere è sempre lì, in caso non si noti. 
Capita anche che mentre si ascolta (Sittin' on) The Dock of the Bay ci si ricordi di Otis e della sua prematura morte. E capita, per finire, che un amico ti contraddica: "No, Otis Redding mica è morto. Ma va là. No, era il famoso jazzista che aspettavano i Commitments". MMM.
E via che la vita ti porta su Wikipedia a controllare.
No no. Otis Redding è morto. Era Wilson Pickett, quello dei Commitments. Ed è morto pure lui.
 
Il povero Otis è morto nelle fredde acque del Lago Monona in Wisconsin, nel 1967. Aveva 26 anni. Cristo, aggiungo.  A forza di ascoltare (Sittin' on ) The Dock of the Bay uno pensa che Otis fosse un romanticone. Otis Redding era uno con i controcazzi, diciamolo, a 26 anni aveva già due figli, una partecipazione al festival pop di Monterey dove gli artisti R&B e Soul erano benvenuti come i Judas Priest ad un ritrovo cattolico in Val Pusteria.
Ma lui ce la fece, in soli 7 anni d'attività incise nelle menti di chi lo ascoltò quel suo urlo, quella sua voce che a me piace ascoltare in "Hard to Handle", difficile da gestire. Mentre i morti di figa miei coetanei ammaliano e abbracciano le proprie donniciuole al suono di "I've been loving you for too long", si guardano negli occhi probabilmente pensando "Tatona sei unica" o qualche altra cagata del genere, io mi ascolto Otis che smania per spassarsela con la solita squinzietta di turno vantandosi di essere un uomo di grande esperienza e che le parole stanno a zero, contano i fatti. Lui è uno difficile da gestire, da trattenere. Lui si butta in tutto quello che fa. Sì, anche in lago con un aereo, ma questo è un altro conto. E aveva 26 anni.
Io, noi, che di anni ne abbiamo 30, chi più chi poco meno, siamo difficili da gestire. Ma nel senso opposto. Abbiamo paura di buttarci, di vivere e paradossalmente anche dell'amore. C'è chi vive in campane di vetro per anni, chi ha il cuore ancora troppo rotto e chi semplicemente non sa chi è.  A 20 anni spacchi il mondo e a 30 vuoi tornare indietro. Finalmente puoi avere quello che vuoi. Ma hai fegato per gestirlo?
E' come sognare un bagno in mare per anni, riuscire ad arrivare alla spiaggia, mettere un piede nell'acqua e rinunciare perché è troppo fredda.
 
Beh, Otis. Spero che quella tu te la sia portata a letto sul serio. Magari l'hai convinta. Tifo retroattivamente per te.
 
La lezione di oggi: Il tempo ci rema contro. Una volta a 26 anni eri un uomo fatto e finito. Ora a 30 siamo ancora soli. Forse siamo troppo difficili da gestire?

 
 
 
 
 
 
 

 

domenica 9 settembre 2012

Batman è vivo. Batman è morto.

Mai come in questi mesi ho sentito crescere così forte dentro di me la necessità di sapere che la vita, alla fine, non fa così schifo. Ci ho creduto seriamente, amici miei. Ma nulla, nemmeno la più profonda esplorazione del mio essere mi aveva dato risposta. Ero lì, a cercare qualcosa che mi facesse girare la testa, letteralmente, che portasse i miei occhi a vedere colori diversi, numeri diversi, vie d'uscita o semplicemente una soluzione. Cercavo la speranza, speravo nella speranza. Perchè quando sei disperato speri. Speri così forte da calpestare gli altri per vedere la luce. E su questa partenza triste e patetica, parte la riflessione quotidiana sulla morte.
 
Batman, il personaggio dei fumetti, il cavaliere oscuro e anche, sì anche lui, Val Bisteccone Kilmer, Batman. Batman non è un personaggio. Batman è una condizione sociale, civile, uno stato mentale a volte anche uno stato fisico. Batman.
 
Da bambina mia nonna mi portò a vedere Batman, quello con Michael Keaton e Kim Basinger. Mi cagai addosso dal terrore. Jack Nicholson che fa Joker non ti fa passare belle nottate quando hai 7 anni. Ma mia nonna pensava fosse un film adatto ai bambini. A 12 anni mi portò a vedere "Pollicina". Il cinema non era il suo forte.
Mi fece un po' schifo, Batman. Michael Keaton, non fraintendiamoci, non era male, ma era Michael Keaton, uno che sarebbe stato più credibile come amorevole padre di famiglia piuttosto che da miliardario che si scopa Kim Basinger.
Poi arrivarono i cartoni di Batman, il film con Val Kilmer (sarebbe stato perfetto nella parte di Batman se Bruce Wayne fosse stato un vaccaro del Texas) e quello con George Clooney (credibile nella parte di Bruce Wayne. Ma Batman? Magari a carnevale con un Martini in mano che balla la conga con la Canalis di turno vestita da Catwoman). Batman era un triste miliardaio accogli-orfani, con nemici usciti da una sfilata di Moschino o dalla Caritas vicina al circo Orfei, aiutanti al limite della ridicolaggine. Batman salvava sempre una città ingrata, dedita al vizio, immersa nella notte.
Dov'era la gente? Dov'era l'amore? Perchè un supereroe AMA. Cosa? Il genere umano, gli amici, la vita e la giustizia.
Poi, miracoli del cinema, arriva una trilogia a salvare il salvatore.
Batman, l'orfano, il milionario, il combattente, l'innamorato, il disperato. Niente più zoccole in latex o nemici con costumini e storie patetiche. Bruce Wayne è sempre scoglionato, triste e miliardario ma adesso ha paura. Ha paura per le persone che ama, ha paura di perderle di nuovo. E la città? E' una città che deve essere salvata, che ha bisogno di sperare. E' una città che esiste anche di giorno.
C'era l'amore. C'era la vita. C'erano gli amici.
Tornando a casa dopo l'ultimo film ho sbrodolato il mio amore per Batman su facebook. E allora, lì, una domanda inaspettata "Quindi muore?!".
Eh. Non si rovinano i finali dei film. E non sono una studentessa di cinema con il Morandini sotto al braccio e la facile retorica sulle produzioni americane per commentare un finale in modo filosofico-intellettuale senza svelarvi l'epilogo.
 
Sono solo una persona che ha bisogno di sperare.
Ma vi dico questo. Non importa che Batman sia vivo o sia morto. Batman siamo noi. Diamoci una speranza. Ma non viviamo attaccati alla speranza, ad un'unica speranza.
E andate a vedere sto cacchio di film.