martedì 2 aprile 2019

Ars Moriendi goes Netflix: "After Life"

Ieri ho capito che i miei ormoni stanno avendo la meglio sul mio cervello, tutto grazie alla visione di "After Life", brillantissima serie con Ricky Gervais.

Innanzitutto fruibilissima a tutti, la trovate su Netflix, sono 6 puntate di quasi 27 minuti l'una e scivolano che è un piacere.
Ci addentriamo nella vita di Tony, vedovo inconsolabile di Lisa, morta di cancro, che lo culla con la sua voce tramite video vari che il poveretto guarda ininterrottamente sul suo portatile.
Intorno a Tony fluttuano Matt, il cognato, che tenta di consolarlo e allontanarlo dai propositi suicidi (che vengono puntualmente sventati dalla cagnetta Brandy) obbligandolo a lavorare per la gazzetta locale che produce articoli al limite del surreale su neonati somiglianti a Hitler o vecchietti che ricevono ben 5 biglietti di auguri simili, il collega Lenny antistress naturale di Tony, Sandy la nuova recluta della Tambury Gazzette che subito si affeziona al suo capo e Kath, collega petulante con una grande quanto inspiegabile passione per Kevin Hart.

Spesso il nostro eroe fugge dal lavoro per far visita al padre malato di alzheimer ospite di una casa di riposo (nei panni del padre di Tony uno splendido Walder Frey redivivo da Game of Thrones) dove incontra l'infermiera Emma (Ashley Jensen la mia "Agatha Raisin" o se preferite Christina di "Ugly Betty"). Altra tappa obbligata è il cimitero dove riposa Lisa: proprio su una panchina incontra Anne, vedova di Stan, di cui diventa subito amico. Sfortunatamente, per cercare sollievo, Tony si reca da uno psichiatra (Thoros di Myr appena tornato dalle terre oltre la Barriera) che umilia la categoria intera spifferando i segreti degli altri pazienti o litigando su Twitter mentre Tony gli apre il cuore.

Sulla strada del lavoro incontra spesso il nipotino George che gioca nel cortile della propria scuola, altre volte incappa nello spacciatore Julian, nella "professionista del sesso" Roxy o nel postino Pat.

Il viaggio di Tony nel dolore per la perdita di Lisa passa attraverso i video pieni di gioia e vita della coppia o quelli di raccomandazioni postmortem che la stessa Lisa lascia al compagno: sono tutti inni alla vita, al futuro e alla gioia ma annaspano nel vischiosissimo pantano dei sentimenti di Tony.
A volte è Anne che lo sprona ad andare avanti mentre gli occhi le si fanno lucidi ricordando il marito, altre volte è la perseveranza dell'affetto di Matt e la paura di perdere George che gli aprono gli occhi su quanto il cinismo stia avvelenando la sua vita, quella che resta dopo la perdita.

Riagguantato il diritto di essere felice, Tony chiede ad Emma di uscire per un caffè. 

Ci sono momenti di "After Life" che ti prendono il cuore, te lo stritolano e te lo buttano nel cestino come tutti i video di Lisa, soprattutto quando suggerisce a Tony di godersi la luce del sole finché può e lo dice mentre abbassa la testa rendendosi conto che per lei la luce sta per spegnersi, ci sono certi personaggi secondari come Julian il tossico che porta dentro un peso più grosso di noi, la rassegnazione, o come Anne che riesce a sempre ad avere la frase giusta per mandare avanti il dolore e spingerlo oltre, che rendono "After Life" un piccolo gioiello.

Ma più di tutti c'è Tony, c'è quel "preferirei essere con lei da nessuna parte che da qualche parte senza di lei", c'è quel senso di profonda tristezza che non può lasciarti indifferente, c'è un supereroe che combatte la sua guerra a suon di "Fanculo" e sfacciate verità.

Guardatevi "After Life" e godetevi la colonna sonora.

Ars Moriendi lo valuta 4 teschi su 5!

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martedì 12 marzo 2019

Alzando la cresta: Keith Flint

Ho sempre pensato che nei pittoreschi villaggi della campagna inglese vivessero personaggi come Miss Marple o tedesche bionde uscite dai romanzi di Rosamunde Pilcher.
Immaginavo la tranquillità interrotta solo da qualche Aston Martin impazzita guidata da milionari stanchi che si buttavano alle spalle la vecchia vita di città per cominciare a coltivare zucche vicino a qualche anziana megera, che di sicuro amava avvelenare i vicini invitandoli per il tea delle cinque.
Idilliache immagini di gare di giardinaggio, il vicario del posto che fa visita ai membri della comunità, cani da caccia insonnoliti e pub pieni di vecchi signori che commentano Liverpool - Manchester mentre bevono birra e s'immergono nei ricordi.
Ecco, questa è per me la campagna inglese.
L'ultima persona che pensi di trovarci è il cantante dei Prodigy, Keith Flint.

Invece eccolo lì, Keith, con i suoi otto cani a passeggio per le campagne dell'Essex, eccolo che fa jogging e saluta il vicino settantenne, il signor Rye, che sa bene che quando vede Keith correre è perché sta per iniziare un tour e il cantante vuole essere al massimo della sua forma fisica.
Poi c'è la signora Addison che sa che Keith è un grande amante degli animali, oltre ai cani, Jane, sa che casa Flint ospita una voliera con un sacco di uccellini e canarini.
Keith - dicono sempre i suoi amati vicini - salutava sempre, anche solo un rapido cenno con la mano, ma lo faceva, lui salutava tutti e tutti gli volevano bene.

Sembra una bella favola ma, nonostante i cani, gli uccellini e l'amore dei vicini, Keith si è messo una corda attorno al collo e si è impiccato.

Fermiamoci un attimo. Torniamo negli anni 90 in punta di piedi, cerchiamo di guardare il video di "Firestarter" senza cagarci addosso come i bambini vent'anni fa.
Ok, Keith Flint si muove come me dopo aver mangiato un panino col salame di una settimana fa che aveva un colorino giallo poco invitante, pure le espressioni facciali sembrano le mie di quando nel 1996 provavo a truccarmi con abbondante rossetto fucsia Deborah per poi specchiarmi e trovare riflesso Carlo Pistarino. Tutto nella norma, niente di terrificante a parte gli anni che sono passati, che ci hanno impoverito, che ci hanno fatto credere che annegare i propri problemi fosse possibile e fosse possibile farlo tenendogli la testa sotto un mare di birra aspettando che sparissero e smettessero di agitarci.


D'accordo, sono stati anni difficili per tutti, magari lo sono stati per noi giovani disadattati che fumavano mille sigarette fuori da qualche locale dove qualcuno ti aveva appena spezzato il cuore, ma come possono essere stati anni difficili per chi ha otto cani, una villa in campagna, un personal trainer e vicini affettuosi?
Per avere la spiegazione di tutto questo serve un altro come noi, uno che ha preceduto noi e Keith Flint: John Lydon, in arte "Johnny Rotten" voce e anima marcia dei Sex Pistols.

Johnny se ne fotte del personal trainer e di tutte le volte che il signor Rye salutava Keith, figuratevi quello che pensa della signora Jane e i canarini canterini del cazzo. 
Keith aveva il cuore spezzato.
Giuro.

Ho appena letto che Johnny Rotten ha dichiarato che dietro il suicidio di Keith Flint c'è un cuore spezzato.

La decisione della moglie Mayumi di divorziare era nell'aria da molto tempo, già da un anno era tutto finito. La casa di campagna andava venduta, i ricordi sciolti nell'acido delle proprie lacrime. Keith non si era ripreso dalla separazione con Mayumi, dolce May, che lo aveva tenuto alla larga dalle droghe (ma non da un personal trainer, maledizione quanto odio vedere le celebrità devastate che corrono dietro ad un palestrato) che lo aveva salvato, dolce May che adesso lo condannava alla disperazione.

E così Johnny Rotten si fa cicerone in questa storia di solitudine esclamando "Nessuno lo amava ed è stato lasciato solo, era a pezzi. Perché così tante persone sono state lasciate sole in questo settore?".
Già, perché?

Vedi Johnny, i suoi vicini adoravano Flint perché era uno di loro, senza fronzoli, senza pretese, non aveva neanche gli orecchini al naso, era solo un Gascoigne meno chiassoso, un po' bolso magari, ma non era l'anticristo che pensavano.

Era solo un uomo con il cuore rotto. 
Ed è raro che qualcuno se ne accorga, anche se riempi arene o stadi interi.

Allora meglio correre, allevare cani, salutare la gente per strada sperando di sembrare normale quando invece dentro hai un tunnel vuoto e silenzioso che si allarga ogni giorno di più, fino a mangiarti i pezzi di cuore che sono rimasti.

Le lezioni di oggi sono molteplici: mai giudicare un libro dalla copertina, mai giudicare un uomo dalla propria cresta, mai lasciare solo un uomo normale.




martedì 5 marzo 2019

Di tutti, proprio Dylan.

Tutto quello che vorrei scrivere è un laconico quanto arrogante "voi non potete capire".
In un certo senso è proprio così, voi non sapete che ruolo ha avuto Luke Perry nella mia disastratissima vita bucata.

Iniziamo dalla fine: 04 marzo 2019.
Oltre alla leggera nausea che mi accompagna quotidianamente quando mi reco al lavoro, oggi sento anche odore di guai. Sono troppo ottimista, i miei capelli troppo lunghi e morbidi, il sole già alto e spavaldo alle 06:50, qui c'è qualche casino all'orizzonte.
Tutto fila liscio fin quando non becco la mia collega nei corridoi del centro medico.
Mi guarda.
La guardo.
Sorridiamo.
Lei dice: "sai che è morto..."
A me si blocca il cuore
Lei riparte: "... il cantante dei Prodigy?"
Vaffanculo Daniela, vaffanculo. Dire queste cose mentre c'è Luke Perry vicino al baratro... Non si fa.
Somatizzo per un attimo, metabolizzo la notizia, con la mente fumo mille sigarette come facevo mentre nei peggiori posti che io abbia mai frequentato partiva "Breathe" o "Firestarter".
Tutto va bene. 

Capodanno 2000equalcosa, tombolata di fine anno.
Tutti pronti per la tombolata con premi orrendi. Io vinco a ripetizione lo stesso libro di Bill Gates su Bill Gates, vorrei barattare la mia vita in cambio di qualsiasi cosa piuttosto che avere quel maledetto volume tra i miei premi. All'improvviso un'anima pia e meravigliosa mi dona una T-shirt che illumina la mia vita e l'anno che sta per nascere: la maglietta ha sopra la faccia di Luke Perry, viene diretta dal fan club di Los Angeles e dall'anno 1992. Piango. Non me ne separerò mai. Sopravviverà a due traslochi, alle tarme e alle unghie del gatto. Sopravviverà anche a Luke stesso, ma io non potrò saperlo.


Data indefinita, forse 2001, io di ritorno dall'università.
Sono stanca e affamata, sono abbastanza traumatizzata dal fatto che io abbia iniziato un corso sulla conservazione dei beni culturali in quel di Ravenna, che in quanto a vitalità non batte per poco Silent Hill. Sto per raggiungere la cucina, con la punta del piede sinistro mi sono levata la scarpa destra, ho buttato da qualche parte il cappotto e ancor prima di aprire la porta della cucina accendo la tv. Mi appare Luke in una puntata di Beverly Hills 90210, non una di quelle vecchie, no, qui Dylan è all'università: viviamo insieme la sventura di essere matricole, in più lui deve pure sopportare Steve, il che mi sembra eroico in confronto all'ora di treno che mi devo sciroppare ogni mattina. Ed è arrapante come al solito. Dylan non Steve, OVVIAMENTE.
Ecco, non so se fosse la visione celestiale, la fame o la mestizia del pensiero di dover tornare a Ravenna per i prossimi millemila anni, fatto sta che crollo per terra all'istante come una pera cotta, svenuta. In 36 anni di vita ho sempre attribuito questo mio unico svenimento a Luke, a nient'altro. E voglio che rimanga così. Forse fu quello svenimento a farmi capire che Ravenna non faceva per me.

Una mattina qualsiasi, 1993, scuola.
Mi manca solo la testa di quel maledetto secchione con la voce nasale di Brandon e il culone di Andrea Zuckerman per finire l'album di figurine di "Beverly Hills 90210". Di Dylan le ho tutte, mi sono tenuta anche le doppie. Quelle non le darò MAI via, magari alla prima Brandon Lover che capita. Le conservo, le mie teste di Dylan, le guardo. Non mi lasciano nemmeno durante l'adolescenza. Dylan è il primo vero uomo che vedo, che mi piace, di cui mi innamoro. Non è di cartone come André di Lady Oscar, no Dylan è vero e il suo personaggio ha solo poche cadute di stile: farsi Kelly e smettere di bere. Non ho mai trovato il mio Dylan, ma l'ho sempre cercato. In compenso ho collezionato una serie notevole di Brandon e qualche Steve.

Una sera qualsiasi, 1993, casa mia.
Mia sorella si sta preparando per uscire, io sono sul lettone dei miei, sfoglio distratta una copia di "Glamour" ovviamente non mia. Che giornale di merda, solo vestiti, donne, nemmeno una foto di Dylan. Che voglio dire, Dylan è di sicuro il più figo di tutto il 1992 e del 1993, dovrebbe stare su tutti i giornali. Ma su quel cazzo di "Glamour" no. Mentre mia sorella se ne va io sono sovraeccitata: quella sera io e mio padre registriamo una puntata di "Beverly Hills 90210". Non che a lui freghi qualcosa, lui vuole solo capire come usare quell'aggeggio maledetto, io invece voglio fare quello che le ragazzine di 10 anni fanno più spesso: guardare mille volte le cose che amano fino a conoscerle a memoria. E quella è la puntata in cui Kelly e Brenda hanno lo stesso, splendido, vestito. La prima volta di Brenda e Dylan. Quella è LA puntata. E la ricordo a memoria.

Vita di merda, ci stai provando, te ne do atto.
Stai provando a togliermi la mia gioventù e il mio futuro frustandomi nel presente.
Hai portato via Luke, il mio tormentato Dylan, quello che non riusciva ad essere ridicolo recitando la parte di un ragazzo cool, il mio ornitologo gay in "Will e Grace", il mio Fred Andrews in "Riverdale"che mi ha fatto tanta compagnia durante la mia convalescenza post protesi. "Riverdale"... dove ti sparano proprio nell'ultima puntata della prima serie e io a momenti piango come una fontana.
Non ci sei riuscita, vita di merda, e adesso mi hai colpito dove fa più male, nei miei ricordi, nel primo amore ancor prima che sapessi quanto facesse schifo l'amore. Hai colpito nella devozione, nell'affetto esclusivo e impalpabile per qualcuno che non si conosce ma che si ama, hai colpito nel sogno e nell'ideale.

Ma non te la darò vinta nemmeno stavolta. Anche se fa più male.
La lezione di oggi è: ama quello che eri, ama quello che amavi e che non ti ha mai deluso o fatto male. Almeno per un giorno, quando sei triste. Non abbandonare i tuoi sogni, di carne e ossa o di puro spirito.
E ora scusate, ma glielo devo.

"Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono,
fate tacere il cane con un osso succulento,
chiudete i pianoforti e fra un rullio smorzato
portate fuori il feretro, si accostino i dolenti.
Incrocino gli aereoplani lassù
e scrivano sul cielo il messaggio lui è morto,
allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni,
i vigili si mettano i guanti di tela nera.
Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed il mio Ovest,
la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,
il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto;
pensavo che l’amore fosse eterno: avevo torto.
Non servono più le stelle: spegnetele anche tutte;
imballate la luna, smontate pure il sole;
svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco;
perché ormai nulla può giovare."

Addio Luke.

martedì 19 febbraio 2019

In morte del Re Karl

E così è arrivato a romperci le palle anche il 2019.
Eh sì, la mia lunga tradizione di anni imperfetti, sgradevoli e lunghi come i piedi di Paris Hilton continua inesorabile.
Mentre, quindi, nel grafico Foxiano "LAVORO/AMORE/FORTUNA" scendo in picchiata tipo carriera dei Gazosa, si respira un'aria primaverile deliziosa, piena di profumo di fiori e speranze da buttare nel cesso.
Sappiamo benissimo che l'aria bagnata di primavera ci può stordire gli ormoni, farci sentire innamorati e leggeri, artistoidi e ispirati. Ecco il perché di Sanremo e altre menate varie.
E dove sentirsi inebriati di arte e ormoni se non a Parigi?
Forse fu questo pensiero a muovere un quattordicenne di nome Karl Otto Lagerfeld da Amburgo a Parigi benedetto solo di grande spirito e un paio di buone parole d'incoraggiamento da parte dei genitori.

La carriera di Lagerfeld è stata strepitosa, a tratti rivoluzionaria e salvifica.
Dobbiamo a lui se la modernità è entrata a casa Chloé, a lui si deve la resurrezione di Chanel.

Oh Karl, lo abbiamo capito tutti che te ne stavi per andare, le ultime sfilate erano un inno al disperato attaccamento alla vita, sfilavano i colori e la gioia intervallati da lunghezze inconcepibili e abiti di mia Zia Franca, fiori e tristezza, un lungo addio che mi commuove mentre scrivo.

Penso a tutte le tue meravigliose sarte che ti piangeranno discrete e belle come solo le francesi sanno essere. Penso alla tua gatta Choupette che, mannaggia al cazzo, erediterà i tuoi averi. Penso ad un film dove sei interpretato da Rami Malek.

Oh Dio Karl, quanto ci mancheranno i tuoi guanti, i tuoi occhiali schermati e quei tuoi capelli bianchi, quei pantaloni stretti da morire, quelle mille catene, quelle lacrime che non ti abbiamo visto ma che abbiamo sentito nella tua voce.

Anche se sono cicciona come Adele, che hai bacchettato per il suo essere "giusto un po' grassa", non posso non pensarti con affetto. Di sicuro tu e gli altri, (per fare due nomi: Giambattista, Mario, Giorgio (anche se ultimamente si è rincoglionito) e Vivienne) mi avete colorato questi anni, in particolare questi ultimi scampoli di fallimento che ho vissuto e che sono culminati ieri in una surreale "riunione" con alcune teste pensanti che mi hanno detto che dovrei tenere un atteggiamento più "URBANO", manco fossi una scimmia urlante che getta escrementi in faccia ai clienti o un collezione di Diesel.

Ah, che giornate poco di classe, senza stile e grigie ci aspettano.
Ma per poco.
Tornerà la primavera anche da Chanel.
E sì, tornerà pure nella mia vita. Anche se adesso mi sento spurita e piccola come Édith Piaf.

La lezione di oggi è: vivi con stili, vivi per realizzare quello in cui credi semplicemente vivi. Nel modo più parigino possibile.