lunedì 23 novembre 2015

Il freddo rintocco dell'autunno parigino.

Sono mattinate, queste di metà novembre, molto fredde.
Ho freddo.
Mi metto la sciarpa, infilo i guanti di lana che mi ha regalato mia madre, mi calo la cuffia calda sulle orecchie.
Eppure ho freddo. 
Un freddo che non passa, quello che di solito ti s'infila nelle ossa e ti passa solo dopo ore passate sotto il caldo abbraccio di una coperta mentre ozi sereno.
Ho talmente freddo che alito sulle dita mentre aspetto il bus.
Mi si gela il moccio nel naso.
Ho la temperatura corporea di Peter Falk.

Tutto ciò mi porta a credere che in realtà il mio freddo venga da dentro.
Quella scomoda sensazione di vuoto mischiata al dolore del sentirsi troppo vecchi per qualcosa, troppo stupidi per certi compiti, troppo in gamba rispetto ai cretini e troppo fregati dalla vita in generale.
Come guardare una puntata qualsiasi di "Everwood" dove il dottor Brown deve dare o ricevere una brutta notizia. 
O guardare una puntata di "Everwood" in generale.

Non c'è un modo semplice di parlare di un morto. Nemmeno di uno morto e stramorto. 
Non è facile parlare del faraone Tutankhamon, ad esempio, anche se è talmente morto che la sua memoria è già stata distrutta da una serie tv mediocre (per l'amor di Dio non guardate mai "Tut - il destino di un faraone", piuttosto esalate l'ultimo respiro sulle repliche di "Everwood"). Non è facile spiegarvi nemmeno cosa si prova di fronte alla morte: io, ad esempio, non ho retto l'impatto con la crudele sorte di Oberyn Martell e mi sono rifiutata di vedere "Game of Thrones" per quasi 12 ore.
Se non è facile scrivere di un morto o parlare delle nostre emozioni di fronte alla nera signora, figuratevi prendere l'enorme fagotto di sangue, morte e devastazione con cui abbiamo avuto a che fare dopo venerdì 13 novembre. In tutto questo polverone di emozioni mal gestite e soluzioni politiche alla MacGyver, abbiamo provato a capire e parlare, a confrontarci, soprattutto ad essere solidali con i nostri simili. Con esiti, prevedibilmente, disastrosi.
Abbiamo scelto di affidarci alle bandiere.
Poi, subito dopo, a lamentarci con chi non sceglieva la bandiera di quel paese o di quell'altro.
Abbiamo classificato i morti in "morti di Seria A" e "morti di Serie B".
Abbiamo cominciato ad aver talmente tanta paura da voler fare corsi di primo soccorso per imparare la manovra di Heimlich (pare che in un attacco terroristico la manovra di Heimlich, come difesa, sia inutile. A meno che non si elabori un attacco a base di strangolamento tramite Kebab)
Abbiamo cancellato viaggi di piacere. Anche se la meta fosse San Giorgio di Piano, è comunque pericoloso muoversi.
Abbiamo cancellato concerti. Ballare è pericoloso. Cantare pure. Farlo insieme è da pazzi.
Abbiamo litigato, abbiamo chiesto le bombe, abbiamo preteso scuse dalle persone sbagliate.
Abbiamo postato articoli pro, contro, a favore, in ricordo, di denuncia, anacronistici, con le mappe interattive, con i comici tedeschi.
Abbiamo capito che conosciamo persone che sono state a Parigi.
Abbiamo capito che a Giovanardi non piacciono gli Eagles of Death Metal. Possibilissimo che agli Eagles of Death Metal non piaccia Giovanardi.



Di alcuni di quei 129 morti parigini conosciamo il vuoto che hanno lasciato. Percepiamo il freddo di quel vuoto. Le lacrime del vedovo, del fidanzato, della madre le abbiamo sui nostri schermi insieme ai corpi accatastati e alle virgole di sangue che segnano il Bataclan. Di tutti gli altri ci preoccupiamo delle bandiere senza sapere che per molti paesi è solo un brandello di stoffa che sventola sopra macerie e morti che non ricordiamo perché siamo già stanchi di doverci incazzare per i nostri amici francesi che non possiamo poi farlo per tutti tutti. 

E insomma io non trovo nulla di meglio da scrivervi se non questo triste elenco di reazioni.
Perché è questa la mia reazione a caldo, sentire il freddo del vuoto, cerebrale altrui e di un lutto troppo grande e vicino per essere metabolizzato.
Allora, vi chiedo un favore. Vista la nuova ondata di gelo che ci aspetta all'approssimarsi del funerale della nostra connazionale, dove ogni politico parlerà e criticherà l'avversario di strumentalizzare i morti, dove ognuno di voi esprimerà per forza la propria opinione, dove non saremo immuni dal classico "R.I.P" scritto vicino al classico articolo condiviso, ecco cosa dovreste fare in caso io muoia per mano di un manipolo di disperati (che siano quelli dell'ISIS o i fan di "Everwood"):

- Vi prego scegliete una mia foto decente. Nel caso potrete sceglierne una tra quelle del mio viaggio in Provenza del 2010. Mi raccomando. Se mai finissi come tragedia del giorno da Del Debbio mi piacerebbe avere un bel faccino.
- Al mio funerale mettete in loop i seguenti pezzi: "Non, je ne regrette rien" della Piaf, "Feeling oblivion" dei Turin Brakes e "Brown eyed girl" di Van Morrison.
- Non fate intervistare mia madre.
- Nella risposta alla domanda "Com'era Federica?" evitate i seguenti termini: "lagnosa", "dolce", "simpatica". Piuttosto sostituiteli con "ragionevolmente incazzata", "sensibilona", "piacevole". E aggiungete "cacacazzi".
- Non fate intervistare mia nonna. Anzi, nessuna delle due.
- Non lascio nessun testamento d'intenzioni: odio tutti e lo farò per sempre.
- Dovrete tassativamente piangere. E parlare di "un talento che ci è stato portato via troppo presto" o qualcosa di simile.
- Visto che mi avete sfrantumato i maroni per venire ai vostri matrimoni in cappello o abito lungo ora dovrete ricambiare: cappello con veletta nera per le donne e completo nero per gli uomini.
- Ricordatemi sempre, ricordatemi tutti.
- Portatemi i fiori sulla tomba. E non finti, non fate i tirchi santo cielo.
- Divertitevi e bevete anche per me. Fate un funerale gipsy.
- Nessuna preghiera e nessuna opera di bene.

Vorrei silenzio e musica. Lacrime e risate. Il perfetto funerale di un bipolare.
Io, per l'appunto, che continuo a sentire il freddo di 129 vuoti nonostante sia sotto al caldo vento di un condizionatore e di una vita facile in un mondo che non è fatto per me.

La lezione di oggi è che non siete nessuno per dare lezioni agli altri. 
Se ci proverete sentirete molto, molto freddo.










lunedì 9 novembre 2015

La fregatura dell'aspettativa di vita: benvenuti nell'età adulta.

Partiamo dal fatto che io, in questo momento, potrei benissimo essere morta.
Se fossi vissuta (o meglio, sopravvissuta) nella mia amata Inghilterra medievale, a quest'ora, sarei già bella che defunta.
Una splendida aspettativa di vita di 33 anni.
Appena il tempo di compierli, soffiare sulle candeline, fare una visita oculistica e mettersi ad ascoltare cd esistenziali di Morgan e tac, la luce si spegne.

Ma soprattutto, la mia vita da 33enne, per ora, mi sembra inevitabilmente costellata di responsabilità da persona matura.
E, altrettanto prevedibilmente, non sono pronta ad affrontare nessuna di queste stramaledette incombenze.
Figurati, sono ancora qui che m'inquieto per il mio primo amore ascoltando i Marlene Kuntz.

La prima, schiacciante, responsabilità è quella di procacciarmi il cibo. Che visto che parliamo di aspettativa di vita nei secoli, la mia si avvicina a quella dei nostri avi cavernicoli. Soprattutto quando l'arrivo del mio stipendio non coincide con il periodo fortunoso del volantino Carrefour, quello con gli sconti migliori e i prodotti giusti.
La sintesi è che mi sto nutrendo di scatolette di tonno da sei giorni.
Roba che inizio a bramare le bustine del mio gatto.

La seconda problematica dell'essere adulti è la socialità.
Già mi è difficile rapportarmi con gli altri esseri umani, figurarsi a questa maledetta età. Devi sapere cosa si fa durante un rogito, conoscere gli usi e i costumi della tassa sui rifiuti, perfino essere scafata su tutte le voci della tua busta paga. E' tutto un cerimoniale di regole e cenni segreti che permea ogni aspetto della mia vita adulta.

Parole che entrano nella routine:
- contributi
- gomme da neve (sebbene io non guidi)
- compromesso
- ecografia senologica
- muco cervicale
- permesso
- rata

Parole che escono, trascinandosi via un pezzo di storia personale:
- bongo/bonghi
- cumpaz (compagnia, balotta, regaz. Quella roba lì insomma.)
- limonella
- terza birra media doppio malto
- vodka tonic
- 4 del mattino (Non esistono. Né per tornare a casa né per svegliarsi. Al massimo tornerà nella colonna superiore se avrò figli)
- festa di compleanno
- fuga

Adesso al massimo fai una "cena di compleanno", niente festa, tutti seri come ad un funerale. Pure i miei genitori si scordano del mio compleanno.
Anche per loro è meglio ignorare il tempo passa.




Terzo ostacolo pre-morte: sei troppo vecchio per avere altre chances.
Su tutto. Pure di procrastinare il pagamento dell'abbonamento del bus dal tuo edicolante che conosci da qualcosa come 15 anni.
Stop. Ormai sei adulto.
Il che comprende: smettere di dire parolacce altrimenti sembri una ragazzina volgare, smetterla di andare ai cortei per manifestare contro chi è più vecchio di te e sventola bandiere secessioniste e alza braccia al cielo per salutare vecchie cattive abitudini, smetterla di bere che poi ingrassi e i chili non li perdi più, smetterla di avere disordine e caos nella tua vita e nella tua casa, smetterla di pensare che avrai un lavoro migliore.
L'unica cosa che per ora ho smesso è di crescere di statura. Dal 1998 almeno.

Viviamo fino a 100 anni e a 33 siamo già morti, sepolti da scartoffie, responsabilità che molto spesso non chiediamo, ingiustizie che non possiamo combattere e precarietà.
Adesso e sempre, come a 20 anni.


Il periodo dei 33 anni è facilmente riassumibile con un'immagine.
Tu che sei lì, a fare il morto in acqua, mentre ti godi il sole, la brezza.
Galleggi, vieni sballottolato di qua e di là.
Pensi sempre che prima o poi ti metterai a nuotare ma in realtà, da lì a poco, l'acqua ti arriverà alle narici, poi ti entrerà nelle orecchie e ti sfiorerà le labbra.
In quel momento l'acqua comincia ad invaderti, lembo di pelle su lembo di pelle, fino a farti scomparire sotto, nel buio.
Ecco, l'acqua mi è entrata nelle orecchie.

Per favore, o torno nell'Inghilterra medievale armata di assi di pino e chiodi oppure piantatela di parlarmi di rogiti.



martedì 22 settembre 2015

Sulla morte di un curato di città

Ammetto candidamente che invocare il signore, ultimamente, è stato il mio sport prediletto.
Non mi giudicate troppo duramente, vi porto degli esempi:

es. 1: il gatto piscia sul divano. Due volte. Senza alcun apparente motivo se non l'avversione verso la nuova sabbietta. Pare preferisca la vecchia. Quella, per capirci, più costosa e infestante, nel senso che ogni volta che il suddetto felino esce dalla vaschetta dei bisogni, il mio bagno prende le sembianze del lungomare di Viserba. E non solo il bagno. La sala sembra Torre Pedrera.

es. 2: Adoro il mio nuovo lavoro. Adoro le colleghe, i medici, perfino il pakistano del ritiro campioni di laboratorio mi sta simpatico. Ma. Ma. Non posso minimamente lamentarmi ripensando ai vecchi tempi in cui l'oncologia mi rovinava pause pranzo, week end, ferie, Natali di Gesù, ma la perenne sensazione di sentirsi l'ultima arrivata a quasi 33 anni mi opprime. Ogni minimo errore che faccio è fonte di grande angoscia. Sono a rischio ischemia o bestemmia pesante. E mi sfogo.

es. 3: Sto per compiere 33 anni, la fatidica età di Cristo. L'imprecazione sa quasi di omaggio.

Proprio in questi giorni è venuto a mancare il parroco del mio quartiere, Don Tonino. 
Le campane della messa della domenica pomeriggio non hanno suonato. 
E' morto senza coronare il suo grande sogno: festeggiare i 50 anni cella sua chiesa. Che, ironia della sorte, saranno questa settimana.
Questo è quanto.
A parte il forte richiamo al telefilm anni '90 con Gigi e Andrea per cui impazzivo nonostante me la facessi addosso dalla paura, Don Tonino non è riuscito a rappresentare la spiritualità pura e la ricerca della verità nella mia vita nonostante i miei 10 anni passati in parrocchia tra catechismo e post-cresima.

Sì, potete smetterla di ridere.

L'idea dei miei genitori era quella di crescere una forte, atletica, ragazza cristiana.
Riesco benissimo a sollevare un pacco di 5 chili. Non so se rientri nella categoria "forza" o "atleticità", ma una su tre celo!
Tornando alla visione da hitlerjugend dei miei, io riuscì ad impormi rifiutandomi categoricamente di diventare coccinella scout.
Ma si sa, gli amici che avevo erano quelli del quartiere e l'unico posto vicino a casa di tutti era la chiesa. 
Così, di mia sponte, continuai a frequentare quel cubicolo di cemento consacrato fino a quando non capì di avere una strada diversa davanti. 
Per intenderci quella che mi si parava innanzi era una strada lastricata di punk, sigarette, musica, alcool e crolli di autostima. Ma comunque una strada migliore di tante altre, anche di quella sacra.



Il mio ex, ridentissimo, luogo di culto.


Don Tonino era un burbero curato di città. Un duro, scorbutico, chiuso cristiano. 
Non ricordo una carezza, ricordo i rimproveri.
Non mi viene in mente un dibattito.
Non un insegnamento.
Solo un sacco di cricchi in testa, discutibili foto del battesimo e la stanchezza della vecchiaia.
Ecco cosa mi è rimasto di Don Tonino.

E adesso perdono a pochi, pochissimi, di ricordarlo con amore. Lo permetto solo a coloro per cui lui pianse da amico e non da prete. A loro lo permetto. Ma alla moltitudine ipocrita che stanziava in chiesa, nella sua chiesa, no. Vorrei lo si ricordasse con lucidità e coerenza.
Un curato di città. Burbero e severo. Che apriva a pochi il suo cuore. Di certo non a me.

Così, mentre si avvicinano i miei 33 anni, sento la beatitudine scivolarmi dalle mani, mentre ricordo i miei dodici anni in quella chiesa penso a quanto sognassi libera. 
Ora sogno di dormire. Solo di dormire.

(And I’m holding on for dear life, won’t look down won’t open my eyes
Keep my glass full until morning light, ‘cause I’m just holding on for tonight
Help me, I’m holding on for dear life, won’t look down won’t open my eyes
Keep my glass full until morning light, ‘cause I’m just holding on for tonight
On for tonight)


Ora riguardo la mia strada, quella che fui costretta a prendere dopo essermi resa conto che esisteva un mondo fuori dai binari di una scelta obbligata di periferia.
Mi buttai senza saperlo su un binario costellato di scelte difficili e pianti facili.

Ma io sono quei pianti e quelle scelte, Don Tonino non mi ha spiegato niente in più e niente di meno. Ci siamo solo incontrati a metà strada, salutandoci con rispetto con un cenno del mento.

Quindi eccomi qui, tutta nevrosi e piscio di gatto, mi approccio fiduciosa verso il mio compleanno, l'ennesimo, il 33esimo. Cristo Edition. E no, non riscopro la mia spiritualità. Al massimo continuo a sperare in una vita nell'ennesimo modo sbagliato. 
Con il bicchiere pieno e la morte nella penna e nel cuore. 
La possibilità di una resurrezione e di una pacificazione del mio animo sarà possibile forse dopo la castrazione del mio felino.
Per ora stringo i denti, non mi arrabbio, non urlo, mi colmo come un enorme vaso, piena di rabbia e frustrazione. Piena di un vuoto spirituale che non so colmare.

(I’ve got thick skin and an elastic heart,
But your blade it might be too sharp
I’m like a rubberband until you pull too hard,

I may snap and I move fast
But you won’t see me fall apart
Cause I’ve got an elastic heart)


Lezione di oggi: quello che avete dentro o in testa, nel cuore o nelle viscere, che sia Shiva il distruttore o Gesù Cristo, vi metterà alla prova. Io lo chiamo tutti i giorni ma non risponde. Invidio chi ha la linea diretta. Io ormai lascio messaggi in segreteria, ma voi non demordete.

domenica 6 settembre 2015

Ama il prossimo tuo

(Questo post è uno di quei post intimisti, in punta di piedi e fil di voce.
cercherò di fare piano, anche urlando dentro.)

Ho imparato, da cattiva cristiana, che ho sempre travisato il concetto di "Ama il prossimo tuo come te stesso" o, come sarebbe corretto citarlo, "E il secondo [comandamento] è questo: "Amerai il prossimo tuo come te stesso". Non c'è altro comandamento più importante di questo" (Marco 12,29-31).
Pare infatti che questo splendido passaggio della Bibbia sia riservato ai parenti.
Sì, quelli che a Natale vi regalano calzini. Più raramente, soldi.

Mi spiego. E per farlo bisogna scorrere le giornate appena trascorse.

Stando bolsamente seduta sul divano, scorrevo le migliaia e migliaia di commenti ed opinioni riguardo alla pubblicazione della foto del piccolo Aylan e, giorni prima, per il fattaccio triste di Palagonia. Nemmeno a dirlo, una marea di putredine la cui puzza si avvertiva da Kobane.
Pazienza.
Ogni tanto le mie dita tozze scorrevano sulla tastiera battendo forte il mio disappunto per tutto quel gomitolo di odio, frustrazione ed ignoranza che striscia e sibila libero ed indisturbato per tutti i social network. Eccomi lì, con la testa in preda ad un movimento ondulatorio pieno di disappunto, a leggere in silenzio tutto quello strano odio che mi è sempre stato estraneo.
Perché lo confesso, in vita mia ho sempre odiato cose e persone lontane dal mio abbraccio e dal mio cuore.
O perlomeno ci ho provato.
Per farvi capire, il mio più grande odio è sempre stato verso Mel Gibson. Mel Gibson, l'attore. Immaginatemi come un vecchio che agita il pugno al cielo e aggrotta le sopracciglia.
Ecco, quello per me è ODIO. Il MIO odio.
Già detesto leggere e ripetere la parola odio.
Brr.

Torniamo a me e alle mie dita tozze.
Mai, mai, avrei pensato di imbattermi in una scaramuccia con il sangue del mio sangue.
Mai avrei pensato di pestare una coda di paglia e affetto represso.
Mai averi pensato di beccarmi il risentimento del mio sangue.
Eppure. Eppure è successo.

In pochi minuti mi sono trasformata da sorella a ridondante silos di cultura inutile, un'amica dei migranti, questi stranieri, estranei, sconosciuti, ero, per il mio stesso sangue, solo un tabarro vuoto e privo di amore, come avrebbero dimostrato i post seguenti, frecciatine intrise di veleno e rivalsa.

La foto di Aylan lì sulla battigia era ancora fresca e odorante di pellicola che io mi rotolavo nel senso di colpa e nella consapevolezza di aver sollevato un polverone con qualcuno che un tempo amavo come la mia vita, la cui risata mi riempiva di gioia, di cui ammiravo la costanza e lo studio. 
Ma mentre i primi giornali e i primi social s'intromettevano nella morte fotografica del piccolo Aylan, io venivo di nuovo colpita da un dardo: l'accusa di amare il prossimo mio, estraneo, straniero, sconosciuto, più di quanto mai avessi mai amato il mio stesso sangue.

Il mio rammendatissimo cuore punk e frastornato non c'è stato, no, non poteva sopportare l'arroganza dell'ignoranza.
Perché il mio sangue non può giudicarmi, non può capire perché io sia così sensibile davanti ad Aylan, al loro padre in lacrime, alle persone che lasciano tutto e si affidano al vuoto. Non può capire perché l'estraneo, lo straniero, lo sconosciuto mi stiano così vicini al cuore.



E non lo sa perché il mio sangue non conosce la solitudine della mia adolescenza fatta di silenzi, di isolamento, di cose imparate da sola, sbagliate da sola. 
No, il mio sangue conosce solo i suoi torti, la sua solitudine e il suo crescere sola. Pretende il mio amore e la mia attenzione, ma non sa che non può pretenderli.
Odio Mel Gibson perché odiare qualcuno che ho amato è troppo lacerante.
Amo Robert Bruce perché non mi fa soffrire pensare che possa deludermi o lasciarmi, in quanto mi ha già lasciato 700 anni fa. 

L'estraneo, lo straniero, lo sconosciuto, mi auguro solo non passi la mia solitudine e il mio dolore visto che spesso gli sconosciuti che ho incontrato avevano conosciuto la malattia e l'abbandono e mi avevano donato il loro peso con gli occhi di chi ti è debitore.
L'estraneo, lo straniero, lo sconosciuto conosce il mio presente, ma non sa delle terribili ferite della mia solitudine e del poco amore e dello schernimento che troppo spesso mi veniva inflitto da figlia imperfetta, brutta, grassa, non sa della poca fiducia in me stessa e nella mia voce, non sa delle delusioni che ingenuamente ho subito. Mi conosce per la persona che sono diventata, per l'amore che ho verso la vita e il prossimo, chiunque esso sia. Chiunque a parte Mel Gibson. Il mio passato gli è precluso. 
Mi è impossibile provare amore per il mio prossimo, sangue del mio sangue, se il mio prossimo pretende che lo capisca, lo ami, lo assecondi senza mai aver pensato a quanto scomodi fossero i miei panni quando avevo bisogno io di amore, in quel passato da cui il mio sangue non era escluso e che tacitamente, in silenzio, chiamavo in aiuto.

Così, mentre le mie dita tozze scivolano sulla tastiera, penso che a volte le strade si dividano dal principio della nostra vita.
Mentre io penso a quelle anime sole che si perdono nel mare, il mio prossimo mi richiama all'ordine e, ben poco cristianamente, mi si aggrappa ai calzoni e mi rimprovera di non amarlo.

Aylan e Galip sono morti ed erano bambini. Erano fratelli. Si volevano bene, penso. Magari giocavano insieme, litigavano, gioivano, parlavano e crescevano insieme, certamente insieme sono passati dall'altra parte. Non so nemmeno se mi perdonerebbero mai per averli paragonati a me e te. Ma la loro morte ci ha divisi per sempre. La potenza di un'opinione sulla morte di due bambini, di due fratelli.

Noi che abbiamo avuto la fortuna d'esser vive ci siamo perse. Ci siamo invidiate ed odiate.
E adesso, in silenzio, ci lasciamo.
Perché ti ho già amato abbastanza, odiarti mi lacererebbe.






mercoledì 19 agosto 2015

Il Re e la dieta - Barbiturici e pillole di morte

Nel 1956 uno degli uomini più sexy del mondo era senz'altro Elvis Presley.
Mentre guardo i video in bianco e nero vedo quel viso tondo tendente alla pinguedine, quei capelli neri, perfetti, quella smorfia mentre pronuncia "Money Honey", quelle bellissime labbra carnose che si muovono lente. 
Niente è più lo stesso dopo un video di Elvis.
Basta anche solo un passaggio su Spotify per cambiarmi la giornata. 
Se ascolto "Can't Help Falling in Love" scoppio in lacrime, se passa per caso "Hound Dog" la mia anca scricchiola per il mio dimenarmi isterico e spensierato.
Regolerò questo pillole di morte in base a quello che passa Spotify, siete avvertiti. Per ora passa una pubblicità sul meglio del Rock anni 80. E i TOTO urlano nelle mie orecchie. 
Partiamo malino.

(Jailhouse Rock)

In famiglia nessuno ha mai amato Elvis. 
Mio padre, quell'uomo distinto in giacca e cravatta che divide la sua vita tra lavoro e archivio di stato, segretamente vorrebbe essere Slash dei Gun's N' Roses.
Mia madre ha gusti che definirei "bipolari": Cugini di Campagna, Queen, Mango, Rolling Stones, Antonello Venditti.
Mia sorella a quindici anni amava i Duran Duran. Ora ascolta gli Stadio. Sono cose dure da digerire, ma così è, purtroppo.

Da vera pioniera del passato sono stata la prima in famiglia ad ascoltare Elvis. 
E Chuck Berry.
E i Platters.
E Perry Como.
E il Rat Pack.
E Johnny Cash. Checchè ne dica mio padre.

Una sorta di fuga da quella prigione musicale fatta di cassette mal registrate e idoli di cartapesta. 




(Devil in Desguise)

Elvis mi ricorda quel programma di Real Time che si chiama "Vite al Limite" dove obesi americani di 300 chili tentano di dimagrire grazie all'aiuto di un dottore armeno dal cognome impronunciabile che come unico vizio ha quello di avere la mano pesante con la tinta dei capelli. Livello Paolo Limiti.

Come Val Kilmer o Russel Crowe, Elvis aveva la predisposizione all'obesità e ai film spazzatura.
Mangiava qualsiasi tipo di schifezza potesse trovare o concepire, panini farciti con molteplici strati di carne, salse varie, marmellate e, ovviamente, burro d'arachidi, da lui chiamato "l'oro degli stolti". 
Non mi stupisco quindi dei suoi 158 chili, mi stupisco di come possa essere morto a soli 42 anni.
42 anni, dieci anni mi separano da lui. E anche numerosi chili se è per questo, ma mi spaventa che uno come il re abbia potuto ingozzarsi come un maiale dei Nebrodi senza che nessuno provasse a fermarlo. Nemmeno il suo medico e amico (amico di 'sta ceppa a questo punto) George Nichopoulus, per tutti il Dr Nick, che prescrisse al Re barbiturici, lassativi e ormoni come fossero caramelle, riuscì nell'intento. 
Anzi.
Dopo la morte di Elvis il Dr Nick avanzò l'ipotesi che la causa della morte fosse da ricondurre alla costipazione cronica del cantante, un colon gigante e una pessima motilità intestinale avrebbero fatto stramazzare Elvis inchiodandolo al W.C. come un re al proprio trono.




(Can't Help Falling in Love)

La paranoia, la solitudine, il poco amore legarono indissolubilmente Elvis ai cibi fritti, alla pizza, al letto e alla morte.
Sfogava la rabbia su persone, televisori e macchine.
Era lento, bolso,sospettoso.
Ingoiava pillole, panini, rabbia.

Nonostante tutte le teorie per cui Elvis sarebbe, nell'ordine, ancora vivo o un alieno, ricoverato a Cuba o facente parte del programma protezione testimoni dell' FBI, per me Elvis è morto quando ha cantato la sua ultima canzone, all'alba del 16 agosto 1977.

Dopo di lui, il tutto e il nulla. Soprattutto il nulla visto la cover di "Can't Help" degli UB40.

Donne, questo consiglio è per voi: se avrete mai la fortuna di avere un uomo che vi dedichi frasi come "Take my hand, take my whole life too/ For i can't help falling in love with you" allora tenetelo stretto.
E chiudete  a chiave il frigo.





martedì 30 giugno 2015

Come il Titanic ma alla fine era un aereo

(Mannaggia, giuro che ho pianto fino ad ora.
Un Ars Moriendi veramente duro da affrontare.
Ok, fffffff, respiro, parto. In tutti i sensi.)

La difficoltà di questo Ars sta nell'ascolto e nella memoria. Soprattutto nell'ascolto e in ricordi che si sono fatti vita vera, incisi sulla pelle.
James Horner è morto qualche giorno fa, non mi chiedete di essere precisa. James Horner fu il primo compositore di colonne sonore che conobbi, ancora prima di John Williams o Hans Zimmer. La mia prima colonna sonora in cassetta fu di James Horner.
James Horner compose la colonna sonora di Braveheart.

Visto l'intento mortifero di questo blog, cerco di varcare la soglia che separa il mondo dei vivi da quello dei morti e sedermi nella nebbia per scambiare due chiacchiere con James.

Caro James, 
tu manco lo sai cosa significa la colonna sonora di "Braveheart" per me. Cerco di farti un sunto perchè so che terranno un party in tuo onore ovunque tu sia, ma rassegnati, il lento sarà "My heart will go on". Come dicono a Roma, stacce.
Dunque Jim - posso chiamarti Jim?- nel lontano 1995, o più probabilmente 1996, il mio catechista (all'epoca avevo deciso di dare una chance a Gesù e compagni) era un amante del medioevo, più precisamente amava i cavalieri templari. Lo so, troppo mainstream, ma ciò fece sì che si affezionasse alla filmografia di genere e alla musica epica, così un giorno saltò fuori con la cassetta della colonna sonora di "Braveheart". Me ne fece una copia e scrisse a mano titoli e minuti, ricordo ancora la sua scrittura, i caratteri puliti, le parole piccole,una grafia ordinata e blu.
Da quel giorno ascoltai quella cassetta in ogni momento in cui mi fosse permesso di sognare. Uno dei brani sarebbe stato quello su cui mi sarei sposata. Lo credevo fermamente. 
Guarda caso non era quello intitolato "The Secret Wedding" ma "Murron's Burial". La nenia funerea mi sapeva di amore eterno. Solita deformazione semi-professionale.
Sgattaiolavo in camera dei miei genitori, sfilavo dall'armadio il vestito marrone di mia madre, quello dallo stile spiccatamente amish, e sognavo il mio matrimonio, con un cavaliere ribelle, in una brughiera dimenticata da Dio, a combattere il male sotto ogni forma. 
Più avanti negli anni, abbandonato il vestito amish, quella cassetta mi seguiva in ogni viaggio intraprendessi. Negli anni avevo variato la scelta, dai Roxette e Bryan Adams a Lagwagon e Millencolin, dai Dead Kennedys ai mix con Coldplay e Abba. Scelte musicali degne di uno schizofrenico, ma almeno Queen e "Braveheart" non mancavano mai. Che dire Jim, mi rilassava e mi caricava allo stesso tempo.


Quando poi la cassetta non si poteva più adeguare ai nuovi supporti tecnologici, la riposi con cura in casa e mi scaricai subito la colonna sonora per inserirla nel mio ipod. Così feci anche con i cellulari. Non c'è notte insonne o senza tappi in cui non inforchi le cuffie e non ascolti i coristi di Westminster e la London Simphony Orchestra.
Sono passati vent'anni da quando ascoltai per la prima volta quella musica, Jim. 
E che vidi il film, ovviamente. 
E fu da quel momento che cominciai a costruire il mio sapere, a scavare un po' più a fondo di quanto Mel Gibson sapesse fare. Fu da allora che cominciai ad amare la Scozia, la storia medievale. 
Non fu di certo grazie a quel pigro australiano antisemita di Gibson, certo, fu merito mio, delle biblioteche, dei libri, dei viaggi. 
Imparai a giudicare meno dalle apparenze. 
E che tendenzialmente Hollywood non racconta mai tutta la verità. Un dolce inganno di qualche ora ha alimentato le sagre di Pontida per anni. William Wallace ce l'aveva duro come Bossi.

Ma a me di William Wallace me ne fregava, e ancor oggi, me ne frega molto poco.
A me interessava Robert The Bruce. Rientrava nel mio debole per coloro a cui non si nega una seconda chance. Una sorta di crocerossinaggio cinematografico.
Fu mio padre a consigliarmi di non rimanere ancorata al film ma di leggere e studiare, di non fermarmi a pensare che Robert The Bruce fosse figlio di un lebbroso e traditore. E lo ringrazierò per sempre.
Come ringrazierò te Jim per tutte le volte che mi hai accompagnato mentre studiavo Istituzioni Medievali, mentre cercavo di obnubilare la mia mente e i miei sensi durante il russare incessante della mia amica Giubi, per quei viaggi in treno lunghi ore, per la mia meditazione.

Quindi Jim, grazie per aver messo in musica la mia vita senza saperlo. Scorrendo i titoli dei film per cui hai composto colonne sonore e musiche, giuro che rivivo il disagio più totale della mia vita: Robin Williams ne "L'Uomo Bicentenario" mi fece piangere come Brosio a Medjugorje, "Il nemico alle porte" e "Il nome della rosa" per cui ancora ho sentimenti contrastanti, "Il Grinch" che allieta il mio Natale, "La valle incantata" il cartone animato per bambini problematici e catatonici e tanti, tantissimi altri.
Grazie anche per "Titanic": "My heart will go on" in ogni luogo mefitico, in ogni matrimonio o celebrazione, in ogni karaoke sbronzo è sempre l'ultima canzone che vorrei ascoltare o cantare ma allo stesso tempo non riesco a non piangere pensando a Di Caprio che si inabissa in quel mare gelido ma non faccio battute su Kate Winslet.
Dio quanto odio "Titanic". 
Anche se hai vinto due Oscar, ci hai condannato ad una vita di Celine Dion.


(Non riesco nemmeno a guardare il video, niente, mi viene da piangere)

Quindi James, "near, far, wherever you are" per dirla con parole tue, ti auguro uno splendido aldilà, ci mancherai, il mondo ha perso un essere umano straordinario.

Ma il nostro "heart will go on", stanne certo.


P.S. Quel pezzo, "Betrayal and desolation", su Robert The Bruce che tradisce Wallace, è bruttarello forte.



giovedì 11 giugno 2015

Era meglio quando si stava peggio: tra cinema, Zweig e Salvini

Ora vi racconto un segreto.
Andare al cinema mi mette angoscia. 
Se costretta allora scelgo accuratamente il film, studio gli orari, i giorni e le sale adatte. 
Alle 17 di qualsiasi giorno non prestabilito non mi si può proporre "Andiamo al cinema? Lo spettacolo inizia tra venti minuti, ma ce la facciamo!". No. Angoscia. Iperventilazione.
Scarto subito i multisala, a meno che non sia sabato o domenica pomeriggio e il film sia leggermente impegnato così da tenere alla larga giovani casinari o bambini singhiozzanti. Il rovescio della medaglia è trovarsi immersi in ultra settantenni sordi e catarrosi.
Fortunatamente non faccio più parte di una compagnia numerosa. In gioventù fui costretta a sorbirmi ogni sorta di boiata stile "American Pie", mieloserie femminili tipo "Titanic" ( fui l'unica a non piangere in tutto il cinema. Io tifavo spudoratamente per la nave) e la categoria peggiore: gli horror.
L'aneddoto più calzante per descrivervi il mio totale disgusto per il genere e la mia paranoia crescente nei confronti della situazione sociale "andiamo al cinema!", risale al 2004. 
Un sabato sera qualsiasi di 11 anni fa il mio fidanzatino dell'epoca decide, insieme ai suoi due amici più fidati e la sottoscritta, di andare al cinema per spezzare la noia. 
Ultimo spettacolo. 
"L'alba dei morti viventi".
Dopo 101 minuti di film, usciamo dalla sala. I ragazzi sbadigliano. Io verso in condizioni pietose: occhi pallati, colore dell'incarnato paragonabile alle lenzuola stese dalla nonnina della candeggina ACE, tremolio intenso di gambe e braccia che può essere registrato tra 6.0 e 6.9 di magnitudo sulla scala Richter.
Nonostante tutto, nessuno se ne accorge. Salgo in auto con il fidanzatino. Appena entrati in tangenziale lo faccio fermare. Nel bagagliaio di quella maledetta AX bianca del 1991 c'era uno zombie, sicuro.
Dopo scrupolose perquisizioni, l'auto risulta pulita. Da quella sera ebbi difficoltà a prendere sonno. Avevo il terrore cupo e buio di svegliarmi e trovarmi in un mondo che era cambiato nottetempo, senza che nessuno mi avvertisse o mi mettesse in guardia.
Svegliarmi era pure peggio: avevo il terrore che al mio risveglio tutto fosse reale, che l'umanità fosse in balìa degli zombie. 
Salvini e soci ora mi confermano che il contagio è avvenuto sul serio.

Da allora sento l'obbligo di decidere se disertare il cinema o avventurarmici. 
Sono ripartita con i cartoni animati. 
Qualche Tarantinata. 
Film innocui sul Natale.
Penso di aver visto pure "Cars". Con degli adulti.

Qualche tempo fa, dopo vari tentativi e qualche buon successo, ("Il mio amico Eric", "Louise-Michel", "Il discorso del re", che volete, amo le storie sdolcinate) mi ritrovo a dover decidere di andare al cinema con una persona nuova, con un rapporto nuovo, con Lui che nemmeno sapeva che ero cinemafobica. 
Mi affido a Wes Anderson.
(So che state pensando "Ma la morte? dov'è, la morte?".)


Alla fine di "Grand Budapest Hotel" ho il viso solcato di lacrime. 
Il mio compagno mi scruta perplesso.
"Che hai?"
"Ahhh eh? Niente, niente" segue asciugatura meticolosa del naso sgocciolante.
"Ma è finito bene, no?"
"No. Non è finito bene, non lo capisci? Il mondo... Il mondo è crudele, niente si salva, il mondo è diverso, non respiri violenza? Dove sta il rispetto?"
Il mio partner di cinema mi guarda. Guarda lo schermo dove scorrono i titoli di coda. Mi riguarda. Non riesce a proferire verbo. Inarca le sopracciglia e si dispiace insieme a me.


Per un secondo, forse molto più di un secondo, Stefan Zweig si è impossessato di me.
Il film di Anderson è tratto da un libro dello scrittore austriaco Stefan Zweig, mio grande amico e ottimo conversatore nonostante si sia suicidato nel 1942 (Eccola qui la morte, voilà!).

Stefan fu un bravissimo scrittore, indagatore dell'animo umano e viaggiatore incallito. Ogni suo libro è capace di trasportare il lettore in mondi diversi, situazioni diverse, cuori diversi. A volta abbonda di dramma e lacrime, altre alza l'asticella della tensione ad un livello angosciante. Eccellente e briosissimo biografo, racconta le vite degli altri con solenne ed impietosa arguzia. Ovviamente i nazisti non tolleravano che quelle splendide pagine fossero scritte da un ebreo, così i suoi libri bruciarono insieme ad altri nel rogo della follia voluta da Adolf e simpatizzanti. Un brutto momento, un momento di buio e ombra.

Quando capisci come girano gli ingranaggi, nel momento terribile in cui comprendi che certi momenti, situazioni, disastri, tendono a ripetersi nonostante l'accumularsi di conoscenze e di strumenti in nostro possesso, allora lo scuotimento di testa o la disapprovazione Flanderiana non bastano più. E questo Stef l'aveva ben capito quando nella sua amata Austria si profilava lunga l'ombra di quel potere diabolico che nessuno aveva voluto prevedere:

"Io avevo troppo studiato e troppo scritto la storia per non sapere che la grande massa è sempre pronta a rotolare verso la parte ove al momento sta il peso del potere; sapevo che le stesse voci che gridavano oggi "Heil Schuschnigg!" avrebbero gridato domani "Heil Hitler!"."Ma forse tutti quegli amici di Vienna erano in ultima analisi più saggi di me, perché essi soffersero soltanto quando la sventura veramente accadde, mentre io l'avevo già provata nella fantasia e la rivivevo una seconda volta nella realtà. Comunque io non li capivo più e non riuscivo più a farmi capire. Dopo due giorni avevo rinunciato a mettere in guardia – qualcuno. Perché conturbare gente che non voleva essere turbata?

Il viaggio per scappare lontano dalle conseguenze di quella nuova, cupa, storia, lo portò fino a Petropolis, in Brasile, una sorta di Austria in versione carioca (se non mi credete guardate le immagini che mi trova Google qui), dove visse i suoi ultimi anni schiacciato dal peso di non poter più aver fiducia nell'uomo, nell'uomo di quel tempo, perlomeno. 
Così, stringendo forte la mano della moglie  Lotte, si imbottì di barbiturici, lo stesso fece lei, ed insieme se ne andarono.

"Il sole splendeva forte ed intenso. Tornando a casa osservai d'un tratto davanti a me la mia ombra, così come vedevo proiettata l'ombra dell'altra guerra dietro la guerra presente, e quest'ombra non mi ha più abbandonato da allora, ha sovrastato ogni mio pensiero, notte e giorno e forse il suo cupo profilo si è disegnato anche su molte pagine di questo libro. Ma ogni ombra in fondo è anche figlia della luce e solo chi ha potuto sperimentare tenebra e chiarita, guerra e pace, ascesa e decadenza, può dire di avere veramente vissuto."

Ed eccomi lì, davanti a quello schermo.
Lo scoramento della morte, la consapevolezza del passaggio dall'età dorata a quella incerta e grigia dell'essere adulti.
Il mondo sull'orlo costante della rabbia. 
Salvini in TV manco fosse Belen Rodriguez. 
Giovane contro anziano. 
Anziano contro giovane. 
Io contro di te, di voi.
Niente più empatia, solo odio, rabbia, diffidenza.

Non sono guarita, ancora sono cinemafobica, ma sto leggermente migliorando anche se la scelta dei film da vedere è un macello, la mia soglia di tollerabilità si ferma ai cartoni animati. A certi cartoni animati.

Io e Stefan Zweig continuiamo a scuotere la testa insieme tra un libro e l'altro, tra un Salvini e un altro.

La lezione di oggi è che... Beh, siamo sinceri, più che di una lezione avremmo bisogno di un luogo dove rannicchiarci e far passare questi venti maldestri e maligni, senza il bisogno di fare gli eroi o di abbandonare questa crudele situazione rimettendoci al Dio della Morte.
Potrebbe anche essere un cinema, magari sotto le stelle.


mercoledì 3 giugno 2015

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mercoledì 13 maggio 2015

Tutti gli uomini devono morire. Di Valar Morghulis e pensieri simili.

Mentre voi crescevate consumati dall'angoscia della relazione sentimentale tra Ross e Rachel di "Friends", io mi guardavo roba tipo "Jarod il camaleonte" dove un bambino strappato alla propria famiglia e cresciuto in una struttura abominevole dove venivano effettuati esperimenti sulle facoltà cognitive dei ragazzini superdotati, diventava un adulto che ogni giorno poteva cambiare lavoro per aiutare gli altri. Tipo me che guadagno con i voucher e un giorno sono data manager, l'altro centralinista e ogni tanto sguattera.
Mentre voi stavate lì a rincoglionirvi con "Dexter" pensando di essere fighi a vedere tanta violenza e tanta vendetta, io mi guardavo le repliche di "Scrubs". Siete tutti impazziti con "Breaking Bad", io sono rimasta a "Malcolm in the middle".
Ho sempre avuto problemi a stare al passo con le serie tv. Uno scoglio non indifferente è sicuramente non avere l'abbonamento a Sky che trasmette tutte le serie e le anteprime. Altro scoglio è il non essere pratica di scaricamento, torrent o roba simile. Navigo in un mare di repliche, cofanetti e generosi "prestiti" di amici.

Così quando anni fa il mio amico A. mi "prestò" "Game of Thrones" giunsi ad una conclusione: non mi farò trascinare in questo vortice, è escluso, non mi ficco in una serie tv infinita dove tutti i personaggi migliori muoiono, riesco benissimo a farmi del male da sola in mille altri modi.
E siccome riesco a farmi benissimo male da sola, a distanza di 4 anni, ho deciso di entrare nel tunnel "Game of Thrones".

Se siete frequentatori abituali di questo spazio mortifero saprete meglio di mia madre tutti i guai e i dispiaceri, le disavventure e le sconfitte che ho subito dal 2012 ad oggi. Quando l'allegra banda di Lannister e Stark entrò nella mia quotidianità io ero una ragazza allergica ai drammi, ottimista e piena di meravigliose persone al mio fianco. Perché mai avrei dovuto rabbuiare la mia esistenza guardando una simile raffica di tragedie? Ecchissenefrega se muore Sean Bean, prevedibile quanto la pioggia a pasquetta tra l'altro.
No, niente merda, please.
Ma oggi, dopo la tempesta che mi ha sballottato in mare come una nave senza timone, ho ripreso in mano questa serie con la giusta dose di rabbia, di vita, di cazzimma (per il significato di questa splendida espressione lessicale curiosate qui).




"Valar Morghulis" significa "Tutti gli uomini devono morire". La frase viene pronunciata da un sacco di personaggi, in mille modi, con la piena rassegnazione al suo significato.
Per quanto mi riguarda l'ho scritto sulla porta della cantina come monito ai soliti razziatori di cianfrusaglie che mi hanno spaccato per la seconda volta le assi della suddetta.

Scherzi a parte (giuro che se vi becco toccare le assi vi spezzo la caviglia con il martello) "Valar Morghulis" ha sostituito la mia naturale paura del malaugurio: non sono mai stata capace di maledire qualcuno, mai di augurare la morte o la disgrazia. Non ce la farei, anche perché con l'immenso culo che ho mi ritornerebbe tutto indietro, come profetizza serena mia madre mentre mi guarda il voluminoso deretano. Così, "Valar Morghulis" ha sostituito l'acredine con la consapevolezza.
Tutti gli uomini devono morire. Tiè.

Così ora la sera me ne sto sdraiata sul letto avvolta dall'oscurità e recito come un mantra i nomi delle persone che mi hanno più ferita nell'animo negli ultimi tempi, salda al secondo posto la vecchia del sesto piano, sapendo che "Valar Morghulis" indica solo la consapevolezza del loro destino.
Ladri della cantina spaccatori di assi
"Valar Morghulis"
Vecchia acida del sesto piano
"Valar Morghulis"
Ex capa rovina fegato
"Valar Morghulis a Locarno"
Ex amico trafficone e linguacciuto
"Valar Morghulis"

Ho accettato le consapevolezze. Non ho nemmeno pianto alla morte di Sean Bean. Anche se mi manca.
Di certi momenti della propria vita, a volte, rimangono istantanee involontarie: un libro, un film, qualche puntata di un telefilm, un sorriso, una giornata, un paio di jeans. Rivedo momenti felici sotto forma di pantaloni beige, di J.D. e Turk che si abbracciano, di una marea calda di volumetti di Agatha Christie. Altri momenti, quelli difficili soprattutto, li rivivo attraverso le parole della Vargas, un paio di maglioni bucati, un sorriso nuovo.
Certamente del momento che sto vivendo ora mi rimaranno le cicatrici di un eczema, Tove Lo che mi canta "Stay High"e "Valar Morghulis".
Così, mentre lentamente mollo gli ormeggi e riparto, voglio riguardarmi indietro e pensare che alla fine, tutto sommato, così doveva andare, ma che sicuramente qualche cosa ho imparato, per esempio accettare le consapevolezze vuol dire anche essere un po' meno presente, un po più egoista, un po' meno credulona e un po' meno generosa. Basta vivere di promesse o speranze, ho voglia di aggredire la vita, anche se dovessi farmi qualche nemico, anche se dovessi perdere qualche conoscente.
"Valar Morghulis"

La lezione di oggi viene da Ned Stark, non è un a vera e propria lezione, nemmeno un monito, è una consapevolezza che portiamo nei nostri cuori gonfi e stanchi: "Some old wounds never truly heal, and bleed again at the slightest word"

Buon "Valar Morghulis" a tutti.

mercoledì 6 maggio 2015

Pillole di morte: caro amico duca di Buckingham

Puntata serale di pillole di morte dove vi racconto l'infame storia dei miei due infami inglesi preferiti:
Henry Stafford, secondo duca di Buckingham e Edward Stafford, suo figlio e successore.

Immaginatevi su un divano, spaparanzati comodi assieme ad un amico, mentre vi state guardando la terza puntata del vostro serial preferito. Pensate al giuramento che avete fatto: "nessuno dei due guarderà una puntata senza l'altro, niente anticipazioni, uniti nel destino della inconsapevolezza, assolutamente niente SPOILER". 
Eccovi lì, uno di fianco all'altro, la terza puntata sta per finire quando, all'improvviso, un assassino spuntato da un antro buio accoltella a morte la moglie /fratello/miglior amico del protagonista. 
Ecco.
Ci siete? Avete in mente la scena? Ora immaginate che il vostro amico vi guardi mentre siete a bocca aperta per lo stupore e la mancanza di una bestemmia appropriata sulla punta della lingua. 
Ecco.
In quel preciso istante il vostro amico vi appoggerà una mano sulla spalla e vi dirà: "See, se ti ha stupito questo figurati quando scoprirai che l'assassino è il suo gemello malvagio che ha sempre vissuto a Vertemate con Minoprio".
La sensazione è quella della pugnalata alla schiena o, se preferite, quella del cervello ghiacciato mentre ti stai mordendo un ghiacciolo. 

Non disperate, pensate a quel povero storpio del mio amico Riccardo III d'Inghilterra quando seppe che il suo fidato amico Henry si stava preparando ad attaccarlo. Avevano condiviso un sacco di cose insieme: avevano messo i principini nella Torre di Londra dalla quale mai uscirono, insieme li dichiararono illegittimi, immagino si prendessero per mano fischiettando madrigali simili a "I can't smile without you" di Barry Manilow. Poi, appena avuto un momento libero, Henry pensò bene di voltar gabbana e parteggiare per il rivale di Riccardo, Enrico di Richmond (il futuro Enrico VII Tudor), ma gli andò male, il re ottenne la sua testa, anche se non gli servì a molto: Enrico Tudor vinse comunque poco dopo. 
Anche a Riccardo venne il mal di testa da ghiacciolo, ma molto più acuto del vostro.




Ora, so che vi ho lasciato sbigottiti sul divano, ma vi spiego perché vi ho trascinato in mezzo ai duchi di Buckingham.
Il figlio del caro Henry, Edward, non se la cavò meglio del padre. A legger quello che scrive Scarisbrick, un mio caro amico storico, Eddie era uno smargiasso che non stava attento alle parole. Se ne andava bel bello in giro dicendo che avrebbe fatto al re quello che suo padre avrebbe voluto fare a Riccardo III: inginocchiarsi innanzi a lui per poi pugnalarlo. Tronfio e sgraziato, se ne andava qua e là a dire che esisteva una profezia per cui egli un giorno sarebbe stato re. Non fu molto furbo, soprattutto pensando che fu suddito di quel ragazzone per nulla permaloso di Enrico VIII, che per tutta risposta gli staccò la testa da quel collo da fagiano che si ritrovava.

Ora, non dico che dobbiate staccare la testa al vostro amico linguacciuto. 
Vi suggerisco solo di chiedervi se di fianco a voi sieda un amico o un duca di Buckingham.

La lezione di oggi è che su quel divano l'unica persona di cui vi potete fidare siete voi. 
O, nel mio caso, della mia migliore amica che non ha nemmeno idea di cosa sia lo spoileraggio e mi ha permesso la visione al cardiopalma di Broadchurch. 



mercoledì 29 aprile 2015

Cercando Battisti. Trovando la Morte.

Quando arriva la primavera si rispolvera la fastidiosa abitudine di sentirsi di nuovo giovani. 
Di solito si commisera la propria forma fisica in vista dell'estate, ci si mette in testa di fare un viaggio zaino in spalla attraverso i monti Sibillini e, nel migliore dei casi, ci si mette a cantare a squarciagola "Fiori rosa, fiori di pesco" pregustando la sera in cui, in riva al mare, canteremo "Acqua azzurra, acqua chiara", ben sapendo che quella sera non arriverà mai, l'abbiamo magari già vissuta, amata, vomitata, odiata e dimenticata.



Quando arriva la primavera, di solito, Lucio Battisti bussa alla mia porta. E come ogni primavera io ci casco come una pera cotta, eccomi lì, occhi chiusi, pugni stretti a urlare "noooooooooooo il sole quando sorge sorge piano e poiiiiiii, la luce si diffonde tutt'intorno a noiiiii, le ombre ed i fantasmi della notte sono alberi e cespugli ancora in fiore, sono gli occhi di una donna ancora piena d'amoreeeeeeeee"rapita e tremante, come se cantare quella canzone potesse in qualche modo avere su di me un effetto salvifico.

Lucio Battisti bussa e bussa forte, lì alla mia porta, incurante del fatto che non sempre io apra a tutte le povere anime. Si tratta semplicemente di affinità, tra me e Lucio non c'è nessun legame umano, nessun ricordo ci lega particolarmente l'uno all'altro, nessun amore solo consumo consapevole delle sue canzoni, niente affetto. Tipo me e Morrissey. O l'umanità intera e Morrissey.
Ho più affinità con Gianni Morandi quando canto "Non sarà solo una chiiiiimeeeeeeera": mi rivedo lì, piccola bambinetta seduta sul pavimento di casa della nonna ad ascoltare quella cassetta bianca trovata nel Dixan. Quanto amavo i sabati sera dalla nonna, mi sentivo grande ed indipendente avendo solo pochi anni in tasca. Il mondo cominciava e finiva di sabato, per me. La domenica non avrei più potuto ascoltare Gianni Morandi, ero già un'altra bambinetta qualsiasi.
Battisti (e Morrissey) è solo musica. Niente amore, solo sesso.

Battisti mi faceva da sottofondo mentre mi truccavo, a 20 anni, prima di uscire. Mi sentivo una di quelle donne maliziose e mortalmente sexy che facevano impazzire Mogol.
Non avevo amore, lo ascoltavo senza cura, una canzone dopo l'altra, Il tempo di morire, Non è Francesca, Dieci ragazze, Dolce di giorno.
Poi, con gli anni e la consapevolezza di sentirmi esattamente uguale ad ogni altro essere umano, senza trucco e senza tanta voglia di uscire, ho cominciato ad ascoltare per bene quello che diceva Lucio, quello che sapevo, ovvero che quando cade la tristezza  in fondo al cuore, come la neve, non fa rumore.
Mi sospirava in un orecchio: "chiudere gli occhi per fermare qualcosa che è dentro me ma nella mente tua non c'è".  Lucio era un novello Cristiano che cantava le parole che Mogol intrecciava come Cyrano.

Battisti è morto il 9 settembre del 1998, avvolto nel suo oscuro personaggio, si dice per un tumore.
Scrivere di lui non è facile. La sua famiglia è incazzosa come un grizzly e in più lanciano anatemi e querele come Zeus scatafasciava fulmini a destra e manca. Quindi siete costretti a beccarvi la solita nota autobiografica.

Lucio mi fa pensare alle ragazze di Non è la Rai e a quanto abusassero di minigonne, lupetti e colori abbaglianti mentre cantavano Il nastro rosa, Non è Francesca o Io vivrò con lo stesso pathos con il quale io passo l'aspirapolvere.
E basta.
Altre memorie non le ho. Ve l'ho detto che tra di noi non era una cosa seria.
Ma pensando a quali ricordi potessi avere legati a lui, mi è arrivato alle spalle il soffio gelido di colui che chiamerò Il mio Primo Grande Amore.
Stavo pensando alle serate sulla spiaggia a cantare nel vago tentativo di ricordare se si cantasse roba tipo "Acqua azzurra, Acqua chiara" ma mi fermavo ai vari campi parrocchiali (sì, doloroso pure questo come ricordo, ma ci arriveremo piano piano, un'esperienza traumatica alla volta), nei miei pensieri andati vedevo solo spiagge vuote e buie, tanto alcool e poi, lontano, sfuocato, la sagoma del mio Primo Grande Amore, colui che ha reso quelle spiagge fredde e la mia vita dai 17 ai 22 anni un deserto radioattivo d'insicurezza e goffaggine.
Vedo la sua carnagione olivastra, i suoi occhi scuri, quella risata nervosa e quei modi gentili e falsi come i soldi del Monopoli, la chitarra tra le dita e la perfida sicurezza dell'essere sempre nel giusto.
Lo vedo suonare per un'altra. Lo vedo chiamarmi con un altro nome mentre ci stringiamo sulla spiaggia. Lo vedo che inizia a strimpellare Battisti.
Mi sono costretta a riguardare le foto di quegli anni, a rileggere i messaggi. Niente. Sola col mio cuore enorme e l'amara consapevolezza del rifiuto di colui che tanto amavo, relegata in un angolo scomodo e scivoloso.
Non ho trovato nemmeno una foto di noi due insieme. Anche se a sentir la sua voce che rimbomba nel fondo del mio cranio, eravamo tanto amici, sempre amici, migliori amici.

Quindi scusa Lucio, ma anche se non c'entri nulla, non posso aprirti, non posso urlare "cieli immensi e immenso amoreeeee" perché ora ti ho legato al passato, ad un brutto passato.
Ti è andata peggio che a Morrissey.

La lezione di oggi è che non dovete mettervi a cercare nei ricordi nel tentativo di legarli a qualcosa o qualcuno. Vi ritrovereste in un mare nero.

Io non conosco quel sorriso sicuro che hai
Non so chi sei, non so più chi sei
Mi fai paura oramai
Purtroppo

Dedicato a C. 




giovedì 16 aprile 2015

Quando si dice "volare basso"

Mentre stavo colpevolmente sbranando un pezzo del mio fragrante plumcake alla cioccolata leggo una teoria complottistica su Andreas Lubitz, famosissimo co-pilota del volo Germanwings precipitato in Francia giusto il 24 marzo scorso.
Il complotto starebbe nel fatto che vogliono farci credere che Lubitz non era depresso, anzi. Le prove della sua Joie de vivre sarebbero che il caro Andreas si preparava a partecipare a non una ma a ben due competizioni sportive, aveva il frigo pieno, le piante erano state ben annaffiate ma soprattutto, cito "Non era obeso o trasandato, ma curava la propria forma fisica" e " La perquisizione nella abitazione del pilota ha portato alla luce una abitazione in ordine, pulita, con tutte le camice stirate e piegate al suo posto".

Stando a tutto ciò, unendo la mia disoccupazione e la mia condizione di appestata (le dermatiti sono dure a morire, loro), io mi sarei dovuta impiccare nel 2012.

Così, sorvolando i complotti, mi sono immersa nelle sciagure aeree.

La più devastante tragedia aerea per numero di vittime rimane il disastro di Tenerife del 1977 quando due velivoli si scontrarono sulla pista dell'aeroporto Los Rodeos con un bilancio di ben 583 vittime. Le ultime parole del comandante del KLM olandese, il mitico Jacob Louis Veldhuyzen Van Zanten, volto storico della compagnia KLM, incredibile sosia di Teo Teocoli, sono state "Oh Shit!".
Il patinatissimo capitano Van Zanten come volto simbolo KLM.

Incredibilmente a quel disastro orrendo, avviluppate dalle nebbie, sopravvissero 61 persone. Un'altro fatto che rende incredibile quel 27 marzo 1977 furono le due bombe nel vicino aeroporto di Las Palmas, piazzate dal gruppo per l'indipendenza dell'arcipelago delle Canarie che giocoforza virarono il traffico aereo dirottandolo sulla pista di Los Rodeos dove avvenne il disastro. Le bombe furono fatte esplodere dagli artificieri, nessuna vittima e pochi danni.
Almeno non in quell'aeroporto. I terroristi con più culo della storia, direi.

Se tutto ciò non fosse abbastanza allora rincaro la dose.

Il volo Air France 447 precipitò nell'Oceano Atlantico nel 2009, seminando ben 228 vittime, tra di loro anche un principe, un direttore d'orchestra, una famosa arpista turca, un attivista per il controllo delle armi illegali e tre trentini. Sì, tre trentini dell'associazione Trentini nel Mondo, per la regolamentazione e l'esportazione del famoso scioglilingua sui trentatré compatrioti avevano opportunamente mandato una piccola rappresentazione simbolica.
Scherzi di cattivo gusto a parte, leggere la lista dei passeggeri, le loro vite, la loro età, stringe il cuore. E stupisce vedere quante diverse vite c'erano sedute a pochi passi l'una dall'altra. A volte mi spuntava un sorriso amaro, come quando ho letto la motivazione del viaggio del signor Harald Maximillian Winner, che stava volando a rotta di collo verso la natia Germania per ottenere i documenti necessari per sposare la donna brasiliana di cui si era innamorato. Alcuni famigliari hanno pensato di aggiungere foto e video dei famigliari deceduti per ricordarli e per insegnarci a non dimenticare (vi lascio il link della lista passeggeri. Quando vi sentirete super felici o in preda a deliri di onnipotenza, questo link potrebbe fare al caso vostro: http://www.airfrance447.com/06/02/unofficial-air-france-447-passenger-list/).


Una delle vittime del volo AF 447

Nel 2011 fu pubblicata la trascrizione delle conversazioni in cabina dove emerge che ai comandi, di notte, durante una tempesta c'era il meno esperto dei 3 piloti. Il che mi sembra un buon punto di partenza per una tragedia. Si è poi chiarito che il comandante, il più esperto, era a dormirsela dopo una notte brava passata a Rio in compagnia di una hostess. E poi dicono che i luoghi comuni non uccidono.
Anche qui, le fatidiche ultime parole del povero pilota inesperto sono "Putain, on va taper... Merde c'est pas vrai!". Penso non serva la traduzione

Puoi essere in ottima forma fisica ma dentro avere il caos, la paura e la voglia determinata di farla finita.
Puoi essere il miglior pilota del mondo, il tuo volto sulle pubblicità della compagnia aerea, avere tutto sotto controllo, ma schiantarti contro il caso che ti aspetta beffardo come la pioggia nei week end.
Puoi pure fidarti degli altri, riposare i tuoi vizi, alleggerirti gli occhi di quel sonno festoso, ma le nuvole cariche di ghiaccio paralizzano anche i tuoi compagni più fidati, increduli nella morte quanto in vita.

Puoi volare come ti pare, ma devi, o perlomeno dovresti, preoccuparti di chi viaggia con te.
Puoi pure credere nelle statistiche che dicono che viaggiare in aereo sia 12 volte più sicuro che viaggiare in treno e 60 volte più dei viaggi in auto, ma avrai sempre paura di cadere.

Quindi, cari futuri passeggeri traumatizzati di velivoli, quando sarete con la testa tra le nuvole dovreste pensare all'amore. In tutti i sensi, compresa una buona performance sessuale che, a quanto pare, è utile per controllare l'ansia del volo (ah, se lo dice lui: http://www.internazionale.it/notizie/2015/04/02/superare-paura-volare).

Per quanto mi riguarda sto ancora digerendo quell'indigesta fetta di plumcake dell'inizio.
Volare mi terrorizza.
Ricordo ancora l'attacco di panico sul volo Malta-Milano Malpensa dove un povero signore inglese, di fronte alle mie lacrime e alla litania "moriremo tutti, moriremo tutti, moriremo male", non riuscì a far nulla di meglio se non offrirmi la sua coscia di pollo, avanzata dal magro pasto da refettorio che ci avevano gentilmente offerto. Solo nell'estate di quello stesso anno, il 2005, caddero 3 aerei.
Penso fosse quindi comprensibile il mio panico ad ogni turbolenza. Un po' meno l'offerta della coscia di pollo per farmi smettere di piangere.

Ma sono ancora qui. E ora andrò ad annaffiare le piante e a sistemare casa. Non si sa mai decida di suicidarmi, voglio farvi impazzire.

La lezione di oggi è che volare si può, volare si deve. Voliamo basso per non esagerare e voliamo alto se ce lo meritiamo. La paura, quella, la porteremo sempre con noi.
E menomale.