domenica 30 dicembre 2012

Un anno che muore.

Ed eccoci qui.
Questo stramaledetto 2012, finalmente, finisce.
Datemi una trombetta, un cappellino idiota e ballerò sulla carcassa di questo lurido e fetido anno fino a farmi scoppiare i piedi.
Il 2012 se ne va. Datemi uno scrollone perchè ancora non ci credo. 
E invece.
Ci sono cose che sembrano non finire mai.
Soprattutto quelle brutte. Come la pulizia dei denti, la telefonata di tua nonna e l'elenco dei suoi mali,  il muso delle persone a cui vuoi bene, Centovetrine. Il 2012 sembrava infinito ma siamo giunti al suo ultimo, pidocchioso giorno.
 
Quello che se ne va è un anno in più sul mio groppone. Il trentesimo, per la precisione. Ed è stato l'ultimo della Montalcini. Già. 103 anni.
Chissà quanti 2012 ha avuto nella sua vita la grande Rita. Tra sfuggire ai nazisti negli anni della guerra, conseguire grandi risultati nella ricerca scientifica e sostenere il movimento femminista, qualche anno defecante l'avrà passato pure lei. Magari non quelli della sua carica a senatore a vita. No, magari quelli son stati più rilassanti.
 
Mentre lei strappava arti dagli embrioni dei pulcini io son qui a pensare che vita orrenda ho passato in questi mesi. Sì, sono egoriferita. Sì, è morto un premio Nobel e io son qui a pensare a capodanno.
Ma alla fine, che volete che vi racconti sulla Montalcini? Un gran cervello, studi che non capiremmo mai neanche a metà nemmeno se c'impiegassimo la nostra inutile esistenza, donò una parte del denaro ricevuto con il Nobel alla sua comunità, quella ebraica, sebbene si professasse atea. Il fatto che tu non creda in qualcosa non significa che tutti debbano pensarla come te, e le persone forti ed intelligenti come lei lo sanno.
Non si sposò mai. Non ebbe mai un compagno. O una compagna. Sopportò tutto senza avere una spalla. E le spalle sono importanti. Quando ridi hai bisogno di una spalla comica e quando sei triste allora te ne serve una su cui piangere. 103 anni e nemmeno una spalla. O forse tante spalle, amici, fratelli e sorelle, colleghi, simpatizzanti, magari tutti tranne Storace, quel simpaticone che la definì decrepita. Come definirlo intelligente.
Eccoci qui, l'infido 2012 ci porta via una donna forte. Una donna sola. Una donna con un gran cervello. Una donna vecchia.
 
 
 
Da domani avremo un nuovo anno su cui appuntare le nostre ansie, per superare i nostri limiti, per innamorarci di nuovo, per prendere il coraggio a due mani e dire alla vicina del piano di sopra di controllare l'uretra dei suoi gatti affinchè la smettano di pisciarmi sulle lenzuola.
Io son ancora qui, indecisa se guardarmi vivere o se farlo sul serio. Per ora ho il cuore che regge con lo scotch, ginocchia che sostengono un corpo stile Dresda nel '45 e occhi pieni zeppi di lacrimoni trattenuti.
Ma parlo di oggi, e oggi è il 2012.

lunedì 24 dicembre 2012

Il Canto di Natale Mortuario.

Sono letteralmente assediata dagli zombie.
Il mio radioso coinquilino ha deciso di farsi una cultura in merito. Quindi mi aggiro per casa schivando fumetti di "The walking dead", dvd di "the walking dead" e, dulcis in fundo, "Zombie story"un bel libro sul genere.
Circondata.

Ma è Natale e il mio spirito bonario e gongolante fa sì che accetti tutte le sregolatezze e le stramberie del caso. In loop nella mia testa gira da giorni "Do they know it's Christmas?"versione 1984. Imbarazzante chiedersi se in Africa siano a conoscienza del fatto che sia Natale (penso che Mbele del Congo piuttosto si domandi dove siano finiti suoi machete), ma non abbastanza visto che l'abominio si è ripetuto anche pochi anni fa con una "Do they know it's Christmas? 20 years later".
A parte tutto però son qui ad aspettare, come una povera bambina scema, le reminiscenze che hanno reso i miei Natali passati una goduria. "Una poltrona per due" o "Il canto di Natale di Topolino" (affermo convinta dopo 20 anni che sia più giusto chiamarlo "Il canto di Natale di Zio Paperone"), le lucine di Natale che sbrilluccicano sull'albero, la promessa di qualche cartone di Asterix o il salame al cioccolato di mia madre che mi aspetta.
 
E son qui. A scrivere di Morte. La cosa che mi colpisce di più è la gente che odia il Natale.
Quelle, per capirci, che odiano chi ama il Natale, odiano gli addobbi, gli auguri, la programmazione televisiva. Avrebbero bisogno di un Canto di Natale alla Dickens, un qualcosa che gli faccia rimuovere lo slogan "odiare il Natale fa figo". Un'esperienza che gli faccia capire cosa muore dentro qualcuno quando si resettano i ricordi che fanno bene al cuore, che fanno sopravvivere in un pessimo presente e sperare in un bel futuro.
 
Già. Vedo Freddie Mercury in tuta bianca Adidas in veste di fantasma dei Natali passati, fare capolino dalla porta della mia sala mentre tutt'intorno l'atmosfera cambia.
Stessa casa, stesso salotto, io che mi rimpicciolisco mentre vedo il miserissimo alberello di Natale troneggiare beffardo sulla scrivania di mio padre. Il gatto, che resterà poco con noi, che si smangiucchia tutte le pecorelle del presepe. Un Natale in cui sono ancor più piccola, la sala al buio, solo le luci multicolore dell'albero, i miei genitori che mi guardano mentre sgrano gli occhioni sulla mia prima Barbie. Il calore, l'affetto. Le piccole cose che ci rendevano felici.
 
Già. Poi vedo Carlèn, il mio urologo, farmi da cicerone nel mio attuale Natale.
L'alberello illuminato, più grande, lo stesso panorama fuori dalla finestra da oltre 20 anni, una puntata di Poirot in tv, il mio coinquilino che ronfa sul divano. Vivo di nuovo qui, tra un po' sarò sola. La salute è precaria, l'amore è precario, il lavoro non c'è (ed era l'unico per cui avrei sorriso all'aggettivo "precario") e la fortuna evidentemente è andata a Bangkok a fare sesso a pagamento.
 
Già. E poi eccolo lì, l'oscuro cocchiere della Morte. Il mio fantasma dei Natali futuri. Nel terrore delle mie fantasticherie m'immagino Justin Bieber con la falce e 47 chili in più, manto nero chiazzato di ketchup e calvizie incipiente.
Cosa mi riservano i Natali futuri? Il plurale di Natale è Natali? Piena di dubbi chiudo gli occhi e penso. Sarò sola, la vigilia di Natale? Forse a cucinarmi tagliolini al salmone e mestizia? O forse spacchetterò regali auto-regalati, mangerò tortellini auto-tortellinati.
Non mi vedo con una banda di marmocchi sbavanti e un marito con un orrendo maglioncino natalizio che scatta foto da mandare a mia suocera, una donna orrenda come Enzo Paolo Turchi e cattiva come mia nonna Satana che mi regala solo saponette o libri di ricette dietetiche.
No. Del resto non mi vedo nemmeno sola, attaccata alla bottiglia, devastata dal dolore della vita e magari con 4 gatti persiani e un cucciolo di carlino. No. Anche se la mia casa avrebbe un delizioso odore di piscio di gatto e disperazione.


 
Già. Chissà.
Intanto son qui a ringraziare le persone che hanno reso splendido il mio Natale since 1982. Anche quelli che leggono libri sugli zombie sapendo che ne sono fobica. Grazie.
 
La lezione di oggi è che non solo quell'avaro e misantropo di Scrooge ha bisogno di un canto di Natale. Tutti noi dovremmo ricordarci del passato, osservare il presente e sperare nel futuro. Altrimenti saremmo morti dentro.

venerdì 7 dicembre 2012

Morto Show: la macchina del divertimorto.

Una cosa fissa da due anni nella mia vita da squallida precaria, disoccupata, "difetto sociale", è il lavoro al Centro Accrediti Stampa del Motor Show di Bologna. 
Il lavoro consiste, banalmente, nel far perdere tempo a giornalisti imbufaliti col sistema e a me imbufalita con i giornalisti nel tentativo di mercanteggiare un'entrata alla fiera dei motori targata Italia.


I giornalisti sono animali strani. Alcuni cercano d'infilare i propri nipotini di 6 anni facendoli passare come operatori di ripresa, altri che, cito, "mai e poi mai mi piegherò al sistema facendo la Tessera dell'Ordine!". Questo "sistema" dev'essere terribile. Roba che se fai la tessera diventi un burattino senz'anima.
Ci sono quelli che ti sommergono di domande "Allora? Come va' quest'anno? Bene? Pubblico ce n'è? E gli stand? Quante case automobilistiche ci sono?". Beh, già che ci siamo mi vuol chiedere come sta la mia zia di Cuneo o, già che siamo in tema, quanti elefanti riescono ad entrare in una Panda?.
Un altro tipo è quello sincero, magari implume, che schietto ti dice "Io l'articolo non so se lo faccio, è che devo comprare la macchina nuova.".
Poi ci sono i furbi. Tipo quello che ho di fianco che sta parlando con la ragazza degli accrediti Mercedes (un'adepta di Scientology che crede nel vero amore) vendendole strane storie di coliche renali e Medici Chirurghi di Fama Internazionale che han perso i loro biglietti e ne chiede altri 50 dicendo la magica frase "Oh, ma poi te li ridò! Magari lasciami anche il tuo numero!".
E' come essere un domatore di bestie in un enorme circo motoristico.

Parlando di morti e morte, il giornalista supera ogni stereotipo di vita terrena diventando uno "Zombie da Sala Stampa". 
Lo ZdSS arriva di buona lena alle 8 e 30 del mattino quando ancora le giovani e belle ragazze dell'Ufficio Stampa sorseggiano i loro caffè al Ginseng, si siedono davanti al computer sfregandosi le mani e dopo qualche chiamata degna di uno spot della vecchia Sip (Mi ami? Ma quanto mi ami? Dove sei? In Kamchatka? Machemmefrega paga BolognaFiere Trottolina mia!) vagano meditabondi per ore tra gli stand, arraffano qualche gadget, scrutano ogni novità Opel e ogni ragazza languidamente spalmata sopra di essa. Poi, a mezzogiorno, il buco nello stomaco creato dal vagabondaggio assistito, li spinge a procacciarsi cibo, facendogli risalire le scale del Blocco B dedicato alla loro sopravvivenza. Dopo pranzo lo ZdSS, se ha fortuna, si fa timbrare il prezioso pass da giornalista, infila al volo una pettorina, e sguiscia in Area 48 a vedersi qualche gara di velocità targata Ferrari o Red Bull, sgomitando per avere la foto migliore con il pilota del giorno. Galvanizzato da cotanta meraviglia, lo ZdSS si approccia al computer per scrivere il miglior articolo della sua vita. Ci pensa ore. Talvolta giorni. Si trascina in bagno con i capelli arruffati e il volto corrucciato. Il colorito volge al verde Trabant.
Trafitto da un'idea illuminante come San Paolo sulla via di Damasco, torna al pc accartocciando fogli di bloc notes, battendo come un forsennato sui tasti del suo Toshiba del 2003. Ancora in caccia d'informazioni, lo ZdSS intercetta l'addetto al bancone della Sala Stampa e gli chiede tutte le rassegne stampa della settimana. Vuole farsi un'idea di quello che hanno scritto i colleghi.
Stremato, verso le 21 - 21 e 30, lo ZdSS abbandona mestamente la sala, vorrebbe restare ancora, ma le occhiatacce dell'addetto al bancone lo fanno desistere.

In sostanza qui al Motor Show si affianca un altro evento: il Morto Show. Campionari di giornalisti bizzarri, anteprime inedite di reporter giovani e rampanti, Icon Cronisti dalle età improponibili tenuti sotto formaldeide, Luxury Inviati, ovvero quelli targati TG 5 o Sky e infine le gare all'Area 90 mortocheparla per l'ultimo posto in Sala Stampa. Una valanga di zombie muniti di pass.

La lezione di oggi è: vieni al Motor Show che ti diverti e adotta uno Zombie da Sala Stampa. Basta un gadget firmato Motor Show e sarà tuo PER SEMPRE.







venerdì 30 novembre 2012

Un collage di morti per una rinascita.

Ebbene sì, comincio a vedere uno spiraglio di luce dalla grotta di melma in cui son sprofondata da giugno.
Ebbene sì, i miei reni funzionano. Evviva. Non che io ora possa bere come un bavarese qualsiasi in un lunedì qualsiasi, però sto bene. La lotta alla ritenzione idrica può avere inizio.
Ebbene sì, posso cominciare a fare ordine in questa mia disastratissima vita.
E parto da qui, da questo mio personalissimo angolo di discussione, dal mio sontuoso boudoir dalle pesanti tende di velluto cremisi e luci fioche. Dal mio discutere sulla morte.
 
Non è che possa star qui a raccontarvi tutte le mie angosce o paranoie momentanee. Passo momenti in cui mi sento carica di responsabilità verso le persone che amo e mi carico come un mulo per renderle felici. Un po' come Giorgio VI, re del Regno Unito nei terribili anni della seconda guerra mondiale, che dovette mettere una pezza alle follie d'amore del fratello Edoardo che abdicò e abbandonò le sue responsabilità per sposare una miliardaria americana di nome Wallis Simpson. Giorgio VI era un uomo buono, balbuziente, timido. Capitò sul trono per caso e ne subì le conseguenze. Si caricò addosso una guerra mondiale, schivò le bombe che piovevano su Londra, passeggiava tra le macerie della sua città fumando come un turco e rassicurando gli abitanti. Il fratello Edoardo, in tutto ciò, si era andato a godere il sole e il mare a Biarritz, complottando allegramente con i tedeschi finchè qualcuno in un buio ufficietto amministrativo del Regno Unito lo nominò Governatore delle Bahamas. No, davvero, non è tipo "collaudatore di materassi", esiste davvero il Governatore delle Bahamas.
Giorgio VI morì nel 1952. Lo stress fu la principale causa della sua morte. E anche le 12.000 sigarette che fumava in un giorno. Senza un polmone, con la mobilità di una mummia e contro il parere dei medici, il 31 gennaio del '52 GiorgioVI volle recarsi all'aeroporto a salutare la figlia Elisabetta in partenza per il Kenya.
Non la rivide più. Giorgio morì il 6 febbraio.
 
 
 
Oltre alle responsabilità e alle angosce verso chi amo e chi non mi ama più, mi son trovata a combattere contro un fisico ribelle, pieno zeppo di cisti pronte a scoppiare stile mine antiuomo.
Stile Elizabeth Taylor. La cara Beth ricevette il primo Oscar nel 1961 dopo esser quasi morta a causa di una bruttissima polmonite. Le dovettero praticare una tracheotomia d'urgenza che in effetti è più affascinante da raccontare della mia aspirazione di pus dalla ciste infetta nel rene destro. Ma del resto io non ho gli occhi viola (qui però potrei citare l'impiegata del comune che etichettò i miei occhi come "castani screziati di un bel verde chiaro". Finezze da bureau casalecchiese).
La buona Beth si rialzò da quella polmonite che le aveva minato il fisico e girò il colossal "Cleopatra". E io che sto qui a lagnarmi.
Beth morì dopo 7 matrimoni e 2 cani maltesi nel marzo del 2011 per un problema cardiaco. Cuore spezzato da 6 uomini, 2 cani maltesi e 2 amici gay morti troppo presto. 3 se ci mettiamo Michael Jackson.
 
 
 
Ma poi so che il mondo mi sorride, che ci sono persone fantastiche al mio fianco, anche loro con le mie stesse paure e angosce, con paranoie condivisibili e altre un pelo meno, armate di coraggio e con il freezer pieno di crocchette di patate per festeggiare insieme la rinascita. La mia e la loro.
E allora vorrei esser spensierata e farmi un bagnetto nel fiume Reno.
Un po' come pensò bene di fare Jeff Buckley una sera come tante in un fiume placido e tranquillo come il Wolf River, affluente del Mississippi. Se ne andò cantando Whole Lotta Love degli Zeppelin, inghiottito da un gorgo formatosi al passaggio di un battello. Dall'autopsia non emerse nulla: non era drogato, non aveva bevuto. Voleva solo farsi un bagno in una bella notte di maggio del 1997. Così, in scioltezza.
 
 
 
La lezione di oggi è questa: dobbiamo essere forti. Dobbiamo reggere lo stress delle responsabilità e dell'amore per gli altri che c'impedisce di deluderli. Dobbiamo rialzarci più forti anche del nostro stesso fisico. Dobbiamo farlo, magari con un pizzico di follia che ci rende leggeri.
Magari lontano da gorghi e simili.
 

venerdì 23 novembre 2012

Papà Freddie e i cuori spezzati.

La mia vita, peggio di così, suppongo, non potrebbe andare.
E non tiratemi fuori i bambini del Biafra o altre sciagure mondiali che oggi non ho proprio voglia di mandarvi a spalare melma.
Dicevo, la mia vita raggiunge picchi alti d'insoddisfazione, frustrazione e ritenzione idrica che non vi dico.
Ci vorrebbe mio padre.
Mio padre è uno che non tollera lamentele. Uno di quegli uomini tutti d'un pezzo, sempre in giacca e cravatta, sportivo all'occorrenza, fasciato nei suoi maglioncini color pastello e calzini a losanghe Burlington, baffi spavaldi e criniera folta. Dilaniato nel suo intimo più profondo dal dilemma: ascoltare Handel con moderato trasporto o far finta di suonare la batteria su "Paradise city" dei Gun's?
Il bello è che mio padre è il re indiscusso della lamentela. Non lo batterebbe nemmeno uno di quei mille bambini del Biafra di cui tanto mi han parlato. Davanti agli occhioni di mio padre stile Gatto con gli stivali non si resiste. E se non gli dai corda, allora giù improperi e bestemmie come un bimbo capriccioso a S.O.S. Tata.
 
Ma, come ogni figlia femmina, il mio papà è il più belone del mondo. Concedetemi questi orrori grammaticali.
E da piccola era come vederlo in continuazione.
Sì, perchè la generazione Mtv siamo noi. Più o meno. E io son cresciuta saltando sul letto ascoltando "Kind of magic" dei Queen o ciondolandomi sulla cassapanca davanti a "Take on me" degli A-ha.
Ma se il cantante degli A-ha non mi diceva niente (avevo nemmeno 10 anni e i biondi scandinavi col sorriso perfetto mi fanno sincero orrore) il cantante dei Queen, porca vacca, ero sicura di averlo già visto. Poi giravo la testolina verso mio padre intento a dipingere vicino alla finestra e dicevo, porca vacca, a chi assomiglia quel baluba finto Rembrandt di mio padre?
Mia madre vestendomi alla mattina mi chiamava Freddie. "Dai Freddie Mercury infila la gamba nei pantaloni... brava!". Freddie Mercury. "Mamma chi è Freddie Mercury?" e lei con un bel sorriso "Un giocatore di baseball!". Ignoro il perchè di questa risposta, sulla pazzia di mia madre son stati scritti manuali stile Treccani e francamente penso non sappia nemmeno cosa sia il baseball, ma quella, giuro, fu la sua risposta.
 
 
 
Freddie Mercury era, e sarà sempre, il mio cantante preferito.
Ci sono amici che possono testimoniare di avermi visto piangere davanti ad un suo video non più tardi del 2008, con altri ho condiviso il dolore della sua perdita a suon di amari e grappe. E vomito conseguente. Era quel meraviglioso signore con i baffi che somigliava al mio papà.
Freddie Mercury era una splendida persona. Da quel che si dice in giro. Amava il giappone, spendeva follie in cristalli e mobili, adorava i gatti e i gatti lo adoravano, a parte quando gli cagavano dentro il tostapane. Era un perfezionista, puntiglioso, professionale ma anche dissoluto, divertente e divertito, solare, snob. Un uomo generoso e particolare. Fragile.
 
Leggere la sua biografia non mi ha fatto conoscere lati migliori o peggiori. No. Mi ha fatto ridere, sì, mi ha affascinato e mi ha fatto piangere. Quando si parla della sua morte, della lenta agonia che lo rese cieco e impossibilitato a camminare, io istintivamente vorrei smettere di leggere. O di parlarne.
Una persona nasce, se è fortunata cresce abbastanza da assaporare il bello e il brutto della vita, poi, muore. Lo sappiamo e siam qua a parlarne da febbraio, facendoci beffe un po' di tutti.
Muori e vieni sepolto. Ma nel mezzo c'è un passaggio. Quando muori qualcuno prende il tuo corpo e si prende cura di lui prima di calarlo nel buio. E il corpo di Freddie, quei 40 chili, quel fascio di  muscoli intorpiditi, un tempo temprato dalla boxe e dall'atletica, fu sollevato dal suo letto e riposto dentro un sacco nero su cui lentamente, come in un film, veniva chiusa una zip.
Zip. Chiuso.
 
La sua morte mi ha fatto male. Per motivi facilmente intuibili: è ingiusto che una fan dei Negramaro possa vederli in concerto ogni volta che vuole (farsi del male mi dicono sia gratuito, il concerto non so) e io non possa vedere Freddie. Non parlatemi dei Queen + Paul Rodgers che divento una bestia.
Così ogni tanto, quando sono incazzata come un facocero e triste come un lama che ha appena partorito (maledetti documentari di Focus, preferivo quelli sui nazisti), metto su un suo cd e mi deprimo un po'.
 
Così, oggi che son depressa e ho il solito cuore a pezzi, tenuto su dallo scotch da pacchi e sputo, mi ascolto "Made in Heaven". Andrà meglio, lo so. Ci vuole tempo. Me lo ha detto anche il mio papà al telefono. Per aggiustare il cuore o il corpo o la mente ci vuol tempo. E io ho bisogno di ere geologiche per curare tutti e tre.
 
La lezione di oggi è difficile. Sembra strano, ma quando vi sentite soli al mondo cercate la carezza o l'abbraccio di vostro padre o vostra madre.
Se siete soli al mondo... rubate manichini al centro commerciale e abbracciateli. Se li chiamate mamma o papà mica si offendono. Se lo fate con gli anziani in autobus vi beccate una denuncia.
 
 
 

lunedì 19 novembre 2012

Duro a morire. Rasputin e la nostra vita.

Se scrivo "Duro a morire" la gente pensa a Bruce Willis con la canottiera sporca e i modi da pirla americano qualsiasi. No, il vero duro a morire fu un tale Rasputin.
Eddai, mica devo star qui a spiegare chi fosse Rasputin, dai. Basta una foto per farvi capire il terrore fobico che quest'uomo emanava. Quegl'occhi ipnotici, gelidi, magnetici. Mi ricordano, strano, quelli di mia nonna Satana. Strano, no strano davvero. Se non fosse per la barba giuro che scorgo qualche somiglianza.
 
 
 
Rasputin aveva la pellaccia dura.
Forse l'aveva temprato la sua inospitale terra natìa, la Siberia. O forse fu quel piccolo incidente nel fiume Tjura dove cadde insieme al fratello Misha, che dopo una settimana morì di polminite, forse invece fu il suo importantissimo percorso religioso (un mix di misticismo e orge attraverso cui si raggiungeva la purificazione della catarsi. Cosa non si dice per trombarsi la qualunque. La "catarsi". Sì). Una cosa è certa: Rasputin sembrava immortale.
Ammazzarlo fu un'impresa epica, sdrenante, alla pari del mattutino tentativo di entrare dentro ai miei jeans senza strappare il tessuto. Soprattutto quello muscolare.
 
Rasputin venne accolto a casa del principe Jusupov con la promessa di un buon Madera e di tanto sesso. Come non partecipare alla serata. Voglio dire. E' una settimana che ti avvertono del fatto che c'è gente che complotta per ucciderti, ma vuoi mettere? Madera e sesso. Mica la tombola da Don Tonino che tutte le volte finisce che chiami Ambo insieme alla signora Marchetti e il premio se lo prende lei. Eh.
Il buon principe offre a Rasputin pasticcini al cianuro e, per esser sicuro, Madera al cianuro. Rasputin mangia come Galeazzi ad una cresima a Torvaianica e rimane lì, leggermente stordito. Pallido come un cencio, Jusupov decide con gli altri complottanti di abbattere Rasputin a suon di proiettili. Bam! Un proiettile centra al cuore il laido religioso. Mentre i complottanti decidono di come sbarazzarsi del corpo, Rasputin si alza e se ne va'. Peccato, bella serata. Il vino sapeva un po' di tappo...
 
Jusupov si accorge che il monaco è fuggito, allora tutti si lanciano al suo inseguimento, gli sparano un colpo alla schiena, lo randellano di legnate e infine gli sparano in testa. Fatica ragazzi (e mentre lo scrivo mi viene in mente la voce di Bersani "Fatica ragazzi, siam mica qui a smacchiare i giaguari, mugiko maledetto!"). Stremati i complottanti avvolgono il corpo di Rasputin in un tappeto e lo buttano nel canale Malaja Mojka. Quando qualche giorno dopo troveranno il cadavere e ne faranno l'autopsia, si scoprirà che il monaco nei polmoni aveva acqua. Il bastardo era ancora vivo.
 
Tutto ciò per dirvi che il male che facciamo o che incarniamo, resiste cento o mille volte di più di tutto il bene che ci prodighiamo di fare. Che vi credevate? Che avrei parlato dell'incredibile bagaglio a mano di 33 cm che Rasputin aveva come pene? Per quello dovrei aprire un blog stile Ars Scopandi.
 
No qui si cerca di dare un significato, anche sbagliato per carità, non assolutistico ma personale e critico a morti che altrimenti non insegnerebbero nulla. E la morte insegna la vita. Rasputin beveva come un maiale, scopava come un maiale, si era fatto strada nei gangli della società con mezzucci squallidi e malati. Mi scende quasi una lacrima per l'ammirazione.
 
La lezione di oggi è a scelta: potete pensare che il male sia duro a morire oppure che vivere come un porco abbia i suoi vantaggi.
Io sinceramente sto ancora pensando a quei 33 cm di gioia e spensieratezza.
 

 
 

giovedì 15 novembre 2012

Thelma e Louise, ovvero l'amicizia dura per sempre.

Abbiamo 30 anni. Più o meno. Mi perdonino le lettrici e i lettori di 20 anni e smettano di gongolare quelli di 40.
Abbiamo 30 anni. Abbiamo un lavoro talmente brutto da farci vomitare ogni notte durante i nostri sogni migliori(sì, come no), abbiamo fidanzati o fidanzate esigenti, lagnosi/e, sessualmente frigidi/e (sì, come no), abbiamo una casa con altri coinquilini che ci mortificano, ci minacciano o barano a Monopoli (sì, dolorosamente, sì), abbiamo genitori che ci considerano bambini scemi quando si tratta di lavoro/pulizie di casa/generale conduzione dei rapporti umani o geni indiscussi quando hanno problemi al pc o parlano con la vicina (dialoghi del tipo "Allora suo/a figlio/a si è laureato/a?" "Ma certo! Ora è dottore/essa presso il Ginevra Institute of Economics e prende 16.000 euro all'ora!". Ovviamente sei laureato in Storia Medievale e stai languendo sul divano Ekbr dell'Ikea da almeno 4 mesi).
 
E ci dimentichiamo di un aspetto, a mio avviso, fondamentale. Gli amici. O se preferite "quelle persone tendenzialmente sbronze che mi raccolgono quando sono devastato di alcool/tristezza/sushi".
Da bambina mi chiedevo come mai i miei genitori non avessero amici. Sempre in casa, con me. Anche quando a casa non ci stavo più nemmeno io, tipo a 17 anni dispersa tra l'Estragon e qualche pub a caso. Ora che hanno 60 anni folleggiano e se ne vanno in gita a Medjugorie come se andassero a bere e cantare all'Oktoberfest.
Pure mia sorella rimase senza amici a 30 anni. Sposata, incinta, felice. Le amiche l'avevano abbandonata per non sposarsi, non figliare e continuare a sbronzarsi felici.
 
Ma io no. Non ci penso nemmeno. Sola, in una casa troppo grande, con il cuore spaccato stile "Ti giuro, è un Picasso, ma non capisco da che parte si guardi", me ne sto qui a pensare ai rapporti tra adulti. Siamo capaci di essere amici di qualcuno oltre l'età della spensieratezza o ci facciamo risucchiare dalla vita, dall'obbligo di diventare adulti e dalla stanchezza?
 
Secondo Ridley Scott sì. Ad un livello un po' estremo, ma sì.
E parlo di Thelma e Louise, che lasciano un marito violento e misogino e una vita vuota e priva di emozioni per un week end rilassante che diventerà una fuga verso la libertà. E dopo questa recensione degna di una Anna Praderio ispirata ai massimi livelli, vi spiego cosa c'entrano Thelma e Louise con noi 30enni del 2012.
Le due trucide attraversano l'America spargendo morte e distruzione sempre spalleggiandosi convinte che un marito e una vita da moglie sottomessa e un lavoro da cameriera e un uomo dolce ma remissivo non siano proprio quello che speravano di avere nella vita. E allora via, due amiche più sui 40 che sui 30, scoprono che forse la loro amicizia, il loro rapporto unico,  era quella svolta che le avrebbe salvate da quel grigiore e da quella povera vita omologata e comoda.
E così, braccate dalla polizia manco fossero Bin Laden e il Mullah Omar su un Ciao, decidono di farla finita, di non tornare indietro ma di andare avanti. Giù per il Canyon.
 
 
 
Noi ci diamo per scontati. E diamo per scontate le persone che ci stanno accanto. Che ci offrono panini alle olive e cipolle senza chiederti un euro ben sapendo che sei in bolletta, che ci convincono che siamo brave persone nonostante gli errori, che ancora a 30 anni ci redarguiscono sui tipi da non frequentare, che ci porgono uno spritz o una Moretti da 66 quando siamo tristi e ce li tolgono quando siamo sbronzi in modo molesto.
E quando le strade della vita si dividono e bisogna separarsi da un amico che se ne va' in un altro paese, con cui magari siamo cresciuti e che metti caso si senta obbligato a diventare "grande", la tristezza ci piomba addosso. Oltre che vecchi ci sentiamo vulnerabili, piccoli adolescenti. Oltre al danno, la beffa.
 
La lezione del giorno è: se un vostro caro amico che avete perso nelle maglie del tempo e degli obblighi da adulti vi sta per lasciare, prendetelo e portatelo a fare un bel week end. Possibilmente lontano da Canyon o burroni vari.

lunedì 12 novembre 2012

Empatia portami via: Kurt Cobain e la gente.

Sopportare se stessi a volte è problematico. Se a questo aggiungiamo, a meno che non si viva in un eremo a Marotta Mondolfo, che ogni giorno dobbiamo confrontarci con "gli altri" e i "loro problemi e le loro esigenze", allora perdere la ragione è molto meno improbabile di quanto sembri. Soprattutto se si è empatici come me e il vecchio Kurt.
 
Essere empatici vuol dire riempirsi di emozioni e sensazioni a livelli molto pericolosi.
Vuol dire piangere ad ogni reality lacrimoso sulla solita Famiglia Povera, tendenzialmente con 6 figli, 5 con problemi gravi e con una casa che cade letteralmente a pezzi. A differenza dalle persone normali, noi empatici continuiamo a piangere anche ore dopo la fine del reality, a letto prima di dormire o a cena mentre si mangia l'arrosto, quell'arrosto che ha reso ingiustamente celiaca la quarta figlia della Famiglia Povera. E giù lacrime.
Vuol dire preoccuparsi 5 o 10 volte più del normale per l'esame clinico dell'Amica x o dei problemi di figa dell'Amico y.
Portare i sentimenti degli altri sul nostro groppone come se fossero i nostri. Sì, tendenzialmente un comportamento masochistico ma che interpreta perfettamente il "non fare al tuo vicino quello che ti offenderebbe se fatto da lui" portato a livelli altissimi.
 
Questo non mi rende migliore di che tendenzialmente se ne frega, no. Questo mi rende più vulnerabile semmai. E, nel 90% dei casi, gli empatici son tali per imparare a gestire se stessi e le proprie emozioni, fregasega degli altri, che si arrangino loro e i loro problemi da High School americana.  Poi c'è chi esagera e sbrocca.
 
Se Kurt Cobain avesse visto uno di quei reality sulla classica Famiglia Povera, probabilmente avrebbe cominciato a dondolare impaurito in un angolo per giorni, dilaniato da un lato da un potente "CHISSENEFREGA" e dall'altro dall'incredibile sensibilità che lo pervadeva. Kurt Cobain ci provava ad essere empatico, ma era un po' come quella vignetta dei Peanuts dove Linus dice di non odiare l'umanità ma di non sopportare la gente. Kurt, la gente l'amava troppo  "C'è del buono in ognuno di noi e penso che io amo troppo la gente, così tanto che mi sento troppo fottutamente triste. Il piccolo triste, sensibile...!"scriveva nella sua lettera d'addio. Kurt era dilaniato dal difendere se stesso dall'emozioni altrui e dalle sue che ad un certo punto, forse, non riuscì più a provarne alcuna. E, sempre forse, si sparò.
 
 
 
Chiariamoci. Essere sposato a Courtney Love porterebbe alla saturazione anche Andrea Bocelli.
Chiariamoci. Strafarsi di roba e al tempo stesso sentirsi un sensibilone non ti porta certo a pensare di campare fino a cent'anni.
Chiariamoci. Kurt era fatto così. Era più facile spararsi in bocca che continuare a sentirsi una merda incapace di provare amore come fanno tutti gli altri. Come fanno tutti gli altri.
 
"[...]Solo perché a tutti sembra così facile tirare avanti ed essere empatici. Penso sia solo perché io amo troppo e mi rammarico troppo per la gente."
Certe persone sono più sensibili di altre. Queste persone amano illimitatamente il prossimo fino a che non ne vengono nauseate. E cominciano ad odiare.
 
Io, per inciso, amo essere empatica. Amo amarvi e cullare le vostre ansie.
Ma non sono un cestino dove gettare le vostre frustrazioni. O nemmeno un soldatino ai vostri ordini. O la vostra àncora di slavezza. Sono empatica al punto giusto.
Se per caso mi trovaste per terra a dondolare con gli occhi cerchiati da occhiaie viola, sappiate che può anche avermi chiamato mia madre 5 minuti prima e allora è normale.
No, non è facile essere empatici e tirare avanti in maniera semplice. Verrebbe quasi voglia di rinchiudersi nell'eremo a Marotta Mondolfo, che d'estate poi si sta bene e si va al mare con Fra Pleudonio. Ma a differenza di Kurt, io non ho milioni di fans, una moglie nevrastenica e droga. Per me è più facile essere ignorata.
 
La lezione di oggi è che al mondo esistono persone che hanno un cuore più grande degli altri, fatto di vetro sottilissimo. Di solito queste persone si accoppiano con individui dal cuore delle dimensioni una nocciola. Una nocciola di Kevlar.
 
"I miei testi sono un gran mucchio di contraddizioni. Sono spaccati esattamente a metà tra opinioni estremamente sincere e sentimenti che nutro e confutazioni sarcastiche e spero umoristiche di ideali stereotipati da bohèmien superati da anni. Insomma, è come se per le personalità di chi scrive canzoni non ci fossero due scelte possibili. O quella di visionari tristi e tragici come Morrisey, Michael Stipe o Robert Smith, oppure il ragazzino bianco sgraziato e un po' fuori di testa da "Ehi, facciamo festa e dimentichiamoci di tutto" tipo i Van Halen o tutta quell'altra merda di heavy metal. Quello che voglio dire è che provare passione ed essere sincero mi piace, ma mi piace anche divertirmi e fare il cretino."
Kurt Cobain

venerdì 9 novembre 2012

Pillole di Morte: Jacques Futrelle

Da oggi inauguro la sezione "Pillole di Morte", una morte flash per allietarvi la giornata e permettere a me di stirare e ascoltare le psicosi mistiche di mia madre.
 
Il nostro primo morto flash è Jacques Futrelle, giallista americano che morì a bordo del Titanic in quella fredda serata del 1912.
 
Jacques Futrelle fu autore di numerosi gialli con protagonista Augustus S.F.X Van Dusen detto "La macchina pensante". Personalmente vi consiglio di leggere il suo racconto "La casa fantasma", un po' di suspense vecchia maniera.
La notte del 15 aprile 1912 Futrelle si assicurò che la moglie Lily May si accomodasse su una scialuppa di salvataggio dopodichè si fermò a fumare con un altro grande personaggio del Titanic, John J. Astor IV. Il suo corpo, a differenza di quello di Astor, non fu mai ritrovato.
 
Piccola curiosità: in seguito la moglie disse che se la sera prima del viaggio, che passarono a casa di amici a far baldoria, Jacques si fosse ubriacato allora forse non sarebbero mai partiti. Quello che lo fregò fu la sua morigeratezza nel bere. Cosa che, manco a dirlo, non fregherà mai me: al massimo potrei imbarcarmi su un cargo diretto a Panama pieno di omaccioni nerboruti o, più probabilmente, ritrovarmi al deposito A.T.C di Via Battindarno sul 20 barrato.

Lezione flash di oggi: cosa ve lo dico a fare.. Bevete.

mercoledì 7 novembre 2012

Buonanotte Tesor mio (dormire è un po' come morire)

Mi sono ricordata che da bambina mia madre mi aveva regalato un bellissimo libro di fiabe.
Anche mia nonna me ne regalava sempre e io li amavo, quei disegni, quelle principesse con tutti quei pizzi nei vestiti, i capelli biondi e lucenti o neri come la notte. Assoluto, intenso amore per tutte quelle fiabe.
Ma torniamo a mia madre. Il libro era, se non erro, un libro di fiabe piemontesi e valdostane. I disegni erano i più belli che io avessi mai visto. Colori che non sapevo esistessero. Luoghi immaginari più veri di qualsiasi documentario televisivo avessi mai guardato per più di un minuto.
Ecco, quelle fiabe eran sempre mortali. Una, se ben mi ricordo, parlava di una bellissima fanciulla a cui amputarono entrambe le mani buttandola poi in un pozzo senza che avesse la possibilità di arrampicarsi. Le avevano tolto in un sol colpo la speranza e la vita. Ah sì, e le mani.
Le fiabe di mia madre erano tutte così. Arriva il principe, salva la principessa, poi si sposano, ma litigano e lui la uccide gettandola tra serpenti o giù per una rupe. Tipo il telegiornale delle 20.
 
E poi state lì a chiedervi perché parlo di morte. Mah. Chissà.
 
Svicolando da tutti questi scenari di disperazione ed angoscia, la fiaba che adoravo di più da bambina era quella de La bella addormentata nel bosco. The original one, anche se la videocassetta della Disney fu consumata peggio che un video porno di un erotomane negli anni '80.
Nella versione originale la cara Bella Addormentata pungendosi col fuso si addormenta e insieme a lei, grazie ad un incantesimo di una fata madrina, tutto il regno per 100 anni. 100 fottuti anni. Ovviamente passa il solito principe che con un bacio la sveglia e con lei tutti si alzano a celebrare l'amore.
Ma poi c'è un seguito. E qui mia madre apprezzava. Le si illuminavano gli occhi.
La Bella Addormentata si sposa col suo principe e mette al mondo due figlioletti, un maschio e una femmina. Ma il principe tiene la sua mamma all'oscuro della nuova nuora e dei nipotini per un valido motivo.
Quando si dice che la suocera è un mostro non si sbaglia perché la madre del grazioso principe in realtà era un'orchessa. Appena viene a conoscenza del fatto di avere una famiglia, la suocera impazzisce. Ma non di gioia. In quanto orchessa chiede ai suoi servitori di poter mangiare a cena i due nipotini. In quanto suocera chiede di poter mangiare anche la nuora.
Ovviamente la famigliola scampa ai piani malefici della Sig.ra Orchessa che decide di braccarli per gettarli nella solita rupe piena di animali velenosi. Il principe però si ribella a mammà e le dice di farsi gli affari suoi e di smetterla di mangiare bambini che poi non li digerisce e la notte poi son dolori.
Così, la povera orchessa, rimasta sola, si suicida gettandosi nella solita rupe.
 
 
 
No, la morta del giorno non è l'orchessa ma la nuora, la Bella Addormentata.
Una che dorme per 100 anni, permettetemi, è più morta di un morto vero con i vermi e tutto il resto. Per 100 anni te ne stai lì, immobile, aspettando che un principe ti svegli con un bacio.
Va bene, non è colpa tua, la solita vecchia che augura sciagure e punge con un fuso le giovani ragazzine, chi non l'ha mai incontrata per strada? Ma una volta che il principe ti sveglia con un bacio hai tutto il mondo davanti cara! Hai 100 anni di mode imbarazzanti da recuperare, 100 anni di scherzi telefonici arretrati, 100 anni di limonate selvagge nei sedili zozzi di una Punto, 100 anni di aperitivi e sbronze senza un domani al baretto sotto casa da pagare, 100 anni di esami universitari con la media del 28 che tanto fai antropologia e chi vuoi che ti assuma.
La Disney e i Fratelli Grimm fanno finire qui la fiaba. La principessa farà tutte queste cose, magari insieme al suo bel principe o ad un fuoricorso di economia a cui piacciono il Che e le Birkenstock.
Ma nella versione che mi hanno sempre raccontato, la povera rincoglionita della Bella A. si rinchiude in un matrimonio reale, sforna due bambini e litiga con la suocera. Bella merda.
 
Allora sai che succede? Che la lezione di oggi è che a volte la nostra vita è una fiaba, sta a noi decidere dove mettere la parola fine.

lunedì 5 novembre 2012

Sì, lo voglio. Sposarsi è un po' come morire.

Ve lo dico con l'amore che ha un padre verso un figlio. Un padre marines verso un figlio che ascolta Boy George, del tipo. Piantatela di sposarvi.
Sono veramente esausta di vedere le vostre facciotte felici in tight e i vostri occhi luccicanti in vestiti catarifrangenti di Oliviero moda sposi mentre pensate al vostro viaggio di nozze in America. Sempre e solo in America. Non so quante lune di miele ho sovvenzionato quest'anno, a quanti soggiorni negli States posso aver contribuito. Francamente ho perso il conto. E i soldi.
So cosa state pensando nelle vostre testoline impregnate dalla marcia nuziale, starete malignando, "Sei solo invidiosa!".
Oh, ovviamente.
Ho sempre sognato l'abito bianco, la chiesa sconsacrata in stile gotico inglese, la cerimonia alle 18, l'alcool e le danze con gli amici fino a tarda notte. La prima notte di nozze. La luna di miele.
Anzi, a ben pensarci mi rivedo su una panchina, nel caldo maggio del 2010, con un catalogo di Francorosso, a decidere una meta per la mia luna di miele. Già. La MIA.
E ora mi accorgo che è il 2012. E non sono mai andata in Malesia con gli Orango o in Messico sulle tracce degli Aztechi. Al massimo in Puglia con una famiglia molesta a giocare a "Uno".
Sì, è lunedì e posso fare la tragica.
Mi pesa avere 30 anni e pensare che negli ultimi 8 la persona che mi viveva accanto non abbia mai pensato a me come una moglie, come la metà perfetta con cui trascorrere la vita. Inquietante come "Non aprite quella porta", ma sensato.
E ora? Mi sposerò a 45 anni in palese sovrappeso ovarico e le mie nozze finiranno su "Chi"?
La speranza è l'ultima a morire.
E lo sapeva bene la morta del giorno. Jade Goody.
 
Chi cazzo è Jade Goody?
Durante il mio primo viaggio a Londra, qualche annetto fa, feci incetta di giornaletti gossippari britannici per infarcirmi di quella cultura neanche tanto sotterranea che impermea la loro monotona vita da broker della City. Su tutte le riviste campeggiava la coraggiosa battaglia di Jade Goody, una 28 enne ex celebrità del Grande Fratello, malata terminale di tumore al collo uterino che combatteva la sua inutile battaglia contro il male a suon d'interviste e foto.
Il suo ultimo, grande desiderio fu quello di sposarsi con il suo fidanzato Jack Tweed. Il 22 febbraio 2009 coronò il suo sogno in grande stile, Mohamed Al-Fayed gli donò un sontuoso abito proveniente direttamente dall'alta sartoria di Harrods.
Un mese dopo, il 22 marzo, Jade morì. Contribuì ad innalzare il livello di prevenzione tumorale tra le giovani del Regno Unito e con tutti i soldi ricavati con interviste e altro assicurò un futuro dignitoso ai suoi due figli. E soprattutto morì sposata al suo grande amore. Che giusto un mese dopo la sua morte fu beccato in una bella orgia in un hotel inglese. Sarà stato affranto dal dolore per non accorgersi di essere nel bel mezzo di qualche amplesso.
 
 
 
La vita a quanto pare è brevissima, Jade Goody era nata nel 1981. Giusto un anno prima di me. E non era certo la classica ragazza da matrimonio. Due figli avuti da una relazione precedente, cicciona, sboccata, razzista al punto da causare un incidente diplomatico tra India e Gran Bretagna. Insomma, Giuliano Ferrara in gonnella.
 
E in tutto questo, esattamente un anno e qualche mese dopo la sua morte, io stavo lì, su quella panchina con quel catalogo di Francorosso.
Ed esattamente tre anni dopo la sua morte me ne sto qui, sola, a pensare che un giorno, qualcuno di voi pagherà il MIO viaggio di nozze. Fosse anche a Casalborsetti.
 
La lezione di oggi è che a sposarsi son tutti capaci. Si chiama circonvenzione d'incapace.
Ma non tutti son capaci di stare soli.
 

mercoledì 31 ottobre 2012

Il giorno del morto.

E son qui. Il 31 ottobre.
Non sto qui a disquisire su Halloween. Chi vuole lo festeggi come Samhain, come Ognissanti, come "C'è Juve-Bologna". Fate quello che vi pare.
 
Sta di fatto che questo è il periodo dell'anno che preferisco. Aria mortifera, nebbia, freddo, serate con gli amici, piumoni e plaid, cioccolata calda e il conto alla rovescia per il Natale che si avvicina. Sì, mi piace Natale. Flagellatemi.
 
Venerdì, sfidando la fila di anziani e prefiche che affoleranno i cimiteri del globo terracqueo, mi recherò alla Certosa di Bologna per ricordare quel santo in terra di mio nonno. Lasciando mia nonna in fila a fare a gare di sfighe, sport che tra le anziane spopola ed è alla pari, come popolarità, alle bocce o alla briscolaccia per i vecchi.
Andiamo tutti come zombie verso i cimiteri per poggiar due fiori a qualcuno che durante il resto dell'anno resta sepolto sotto terra e nei nostri ricordi. Una sorta di "Io e te 3 metri sotto terra".
 
Allora, oggi, voglio parlarvi di una ragazza di cui vorrei ricordarmi tutto l'anno.
 
Lei era una ragazza molto fragile e molto dura, tenera come un peluche e chiusa come una cassaforte. Nonostante l'apparenza spregiudicata e goliardica amava molto le rassicurazioni, gli abbracci, i complimenti. Nata sicura e coraggiosa negli anni ha visto il suo fisico e il suo carattere fiaccati dal poco affetto e dalla costante mancanza di fiducia nelle (scarse) capacità intellettive di chi la circondava. Lei cominciò lentamente a sfiorire nel 2006. Aveva perso un amico, un nonno che l'amava silenziosamente e la reputava la più capace tra quei 4 caproni di casa, aveva perso le amiche di cui non sentiva più il caldo abbraccio della comprensione.
Fu difficile per Lei riprendersi e vi assicuro che ogni giorno guardavo quelle guance rigarsi di lacrime inutili, di un inutile dolore, di un utile ma necessario catartico cambiamento.
Passarono 4 anni di lavoro e ricordi, di viaggi e chiacchierate tra me e Lei, il suo sorriso in costante crescita, la pelle più luminosa di qualsiasi modella della Oil of Olaz e quegl'occhi nuovi e chiari. Era rinata.
Nel 2010 Lei capì che ce l'aveva fatta, "il tarlo" era lontano, la vita era lì davanti: amici nuovi, una nuova percezione dell'affetto e dell'amore. La consapevolezza di essere tornata sicura e coraggiosa.
 
Solo nelle favole c'è il lieto fine. E nemmeno in tutte. Andersen fa fare una brutta fine a quasi tutti i suoi personaggi. Tipo quella poveraccia della Sirenetta che muore per troppo amore.
 
Un po' com'è successo a Lei.
Nel 2012 il castello di ghiaccio si scioglie come il suo povero e debole fisico. Perde tutto. Il lavoro, l'amore, la sensazione rassicurante di essere coraggiosa. E così, in un momento imprecisato dell'anno, Lei muore. 
E mi trovo spesso qui a piangerla, a ricordare le rispostacce che dava ai ragazzi che la deludevano, il suo naturale incedere come un Caterpillar silenzioso sulle offese della vita, il sorriso 36 denti che sfoggiava ogni qualvolta vedesse in tv un documentario sui nazisti, il rimpianto di non aver avuto una romantica storia d'amore con un menomato personaggio bazzanese di nome Aereo e il vero doloroso rimpianto di non aver dato abbastanza a chi davvero se lo meritava.
 
 
 
Ma come insegna Halloween o Samhain o la festa del Fuoco fianco a fianco (Fucacost) di Orsara, in Puglia, i morti tornano.
 
E io, Lei, come uno zombie tornerò ad affacciarmi alla vita.
Probabilmente ballando "Thriller" di Michael Jackson.
Buon Halloween. O quello che è.
 
 
 
 


lunedì 29 ottobre 2012

Gene Wilder non è morto.

V'insegno a non ingigantire gli avvenimenti ma, viceversa, a usare la curiosità positiva per capire la realtà e le emozioni che si nascondono dentro.
No, non è il titolo di un manuale di self-help, per esserlo dovrebbe avere qualche parola scurrile nel mezzo tipo "seghe mentali" o "meravigliosa stronza". No.
Giusto qualche giorno fa mia madre pensava fossi morta sbranata da un branco di pitbull solo perchè avevo il cellulare silenzioso. Giusto sabato mia nonna pensava che mia sorella fosse morta sbranata da un branco di pitbull solo perchè non rispondeva al telefono. Poco importa che io avessi dimenticato il cellulare silenzioso o che mia sorella avesse l'influenza e volesse solo innocentemente dormire.
Noi eravamo morte. Sepolte. Violentate da necrofili naziskin e tumulate in un cantiere della TAV. Morte.
 
La realtà era diversa ma a nessuno importava. Un po' come Gene Wilder, ve lo ricordate vero, Gene Wilder?
Che fosse Willy Wonka (il cui faccione sorridente ora imperversa su Facebook contornato da frasi sarcastiche come il mio metatarso) o il mitico Professor Frederick Frankenstein, l'insicuro Teddy Pierce de "La signora in rosso" o il sordissimo Dave di "Non guardarmi: non ti sento", Gene Wilder mi ha sempre fatto sganasciare.
Poi, ad un tratto, scomparve.
Dai, avanti, chapeau a chi ricorda un film di Wilder posteriore al 1991.
 
Così, una sera parlando con amico cinefilo salta fuori che Wilder è morto. Ma va là, figurati, questa è come la storia che James Stewart sarebbe il nonno di Kim Rossi Stuart (avere un nipote di nome Kim dev'essere devastante. Soprattutto trattandosi di un uomo. Che ha fatto "Fantaghirò").
No caro amico, Wilder è vivo. E non perchè mia nonna fosse preoccupata di non vederlo dal 1991, ma perchè l'ho visto in tv poco tempo fa, lo stavano intervistando. 
E' lì che ho scoperto dov'era finito.
 
Uno non fa nulla dal 1991 e pensano sia morto. Tsk.
Un lutto, Wilder, lo sopportò. E fu devastante.
Gilda Radner in Wilder, chiese al marito Gene di aiutarla, di farla uscire dall'ospedale dov'era ricoverata per un tumore in fase terminale alle ovaie, perchè lei lo sapeva, non sarebbe sopravvissuta alla Tac. Ad una banale Tac. Il buon Gene la rabbonì, "vedrai che andrà tutto bene, ci vediamo qui, dopo". Tornò dalla Tac in coma. Per 3 giorni rimase lì, incosciente. Per poi morire dopo lunghi, agonizzanti rantoli. E Gene era al suo fianco, con il cuore rotto dall'impossibilità di dirle addio, stroncato da quel destino beffardo che gli aveva impedito di salutarla per un'ultima volta.
E così, piano piano, Gene Wilder è scomparso. Il mondo, il cinema, noi andavamo avanti mentre lui diventava un puntino alle nostre spalle. Un puntino triste, solo, senza amore. Morto-non-morto.
 
 
 
Lo abbiamo lasciato solo e abbiam pensato fosse morto.
Abbiamo ingigantito la realtà come la mia tv ingigantisce le cosce di Christina Aguilera, lo abbiamo ucciso e rimosso per non doverci preoccupare di lui e dei suoi guai, per poi magari dire "Mica è colpa mia! E' lui che è morto!".
Già. Esattamente come fanno mia madre e mia nonna. Esattamente come facciamo noi con i problemi scomodi, gli amici scomodi, gli amori scomodi.
 
La lezione di oggi è che magari, prima di trarre conclusioni, di escludere un'opzione, di darci per morti durante un conflitto a fuoco a Scampia, fermiamoci.
Ascoltiamo le persone che amiamo. Loro sanno se son morte o meno.
 
 
 
 

venerdì 26 ottobre 2012

L'insanità mentale del signor Van Gogh.

La mattina è difficile per tutti. Svegliarsi, trascinarsi presentabili nella vita di tutti i giorni, cercare di non odiare la gente e soprattutto provare a non incenerire i primi personaggi che ci salutano prima del caffè o della tazza di agognato, caldo, te marca Twinings specialità Prince of Wales. Ecco, in quei terribili istanti mattutini la calma e la tranquillità dovrebbero abbracciarci.
In quella che è la mia vita, ciò, raramente accade. Prima del momento colazione, una volta o due al mese, un membro della mia famiglia, che chiamerò "Elemento X", irrompe nella mia vita urlando al telefono frasi d'incomprensibile follia.
"Elemento X", complice un esaurimento nervoso negli anni '70 e una vita, a suo dire, misera e terribile, imperversa come una catastrofe ambientale nella mia vita da 30, lunghi, anni. A rotazione sceglie una vittima, trova un pretesto (il ritardo ad un appuntamento, un errore di connessione internet, il governo tecnico, lo sterminio delle foche) e mette in scena la terribile sfuriata.
Di solito "Elemento X" colpisce la mattina presto, una telefonata, urla sconnesse che profetizzano future sciagure che si abbatteranno sul malcapitato senza possibilità di via d'uscita. Il poveretto dall'altro capo della cornetta può solo chiudere gli occhi, bestemmiare sottovoce e dire "Sì, Sì, va beeeeene". Questa insanità mentale ne produce altra. Io ad esempio sono ossessiva compulsiva. Ma almeno ragiono.
Il povero Vincent Van Gogh invece no, lui sragionava.
Era una brava persona Van Gogh, voleva sempre aiutare il prossimo fino a ridursi ad un cencio d'uomo. Ci metteva il cuore e l'anima nei colori, nelle pennellate solide di cielo.
E sì, inseguì Gauguin per Arles minacciandolo con una rasoio. Ma va anche detto che Gauguin doveva essere un tritapalle spocchioso, uno di quei personaggi alla "spritz e figa" che pretendono sempre di essere i migliori. Che poi Vincent tornando a casa si tagliasse un orecchio e lo regalasse ad una prostituta, beh, il titolo è "l'insanità mentale del signor Van Gogh" mica "Coloriamo roselline con Vincent!".
Come ho già detto Van Gogh era un puro, un uomo dall'emotività struggentemente delicata. Perse suo padre per un infarto. Avevano appena litigato. La gente di Arles dopo l'episodio del rasoio lo volle fuori dalla città. L'unico, grande, suo ammiratore e sostenitore era il fratello Theo al quale, nel corso della vita, scriverà almeno 600 lettere avendone in risposta solo 40.
Ora.
Per anni pensando alla morte di Vincent ho provato pena e una sincera stretta al cuore.
Dopo vari tentativi di suicidio, una mattina di luglio del 1890, Vincent torna alla pensione dove alloggia e si corica nel letto della sua camera. Il locandiere preoccupato di non averlo visto a pranzo lo trova steso sul letto sofferente. Un buco di proiettile nel petto e Vincent che confessa: mi sono sparato. Il fratello Theo corre da lui ed insieme passano le ultime ore dell'artista.
So che è difficile, ma immaginate un uomo solo, triste, che ha paura ma finalmente sta per morire dopo ore d'agonia, dopo anni di umiliazione e dolore. Un uomo che al dottore dice "volevo uccidermi ma ho fatto cilecca". Dopo quasi un giorno e mezzo di sofferenza, Vincent Van Gogh muore. In quanto suicida gli viene negata la sepoltura nel cimitero locale di Auvers.
La sua tomba è attaccata al muro del piccolo camposanto. Di fianco a lui il fratello, il cui cuore non resse e morì pochi mesi dopo Vincent.
 
 
 
La malattia di Van Gogh nuoceva a Van Gogh e al suo cuore più che alla sua mente (vallo a dire a Gauguin.... ma, oh, se te le cerchi). Van Gogh non aveva il cuore avvelenato di odio, pur avendone tutte le ragioni. Van Gogh non torturava le persone che amava con previsioni di sciagure, infieriva su stesso, su quei suoi occhi blu che lasciava marcire fissando il sole e le sue ombre.
"Elemento X" dovrebbe imparare dalla follia di Van Gogh. Che tra l'altro non possendendo un telefono sfogava la sua follia per lettera, e le lettere non squillano ad orari imprecisati della mattina.
 
La lezione di oggi è quella di arginare la follia ingiustificata che vi fa male, si può esser instabili ma con un cuore buono. Come Vincent.
 
"For they could not love you, but still your love was true and when no hope was left in sight on that starry starry night you took your life as lovers often do. But i could have told you, Vincent, this world was never meant for one as beautiful as you"
Don McLean - Starry, starry night.

lunedì 22 ottobre 2012

Adolf H. e Eva B.

Questa è la storia di Adolf e Eva.
Adolf era un'artista estroverso ed eclettico, un uomo dalla dialettica affascinante, con un buon impiego.
Eva era una ragazzotta tranquilla, con un lavoro in uno studio di un fotografo. Magari, sì, qualche turba la doveva avere visto che tentò di suicidarsi ben due volte, una delle due addirittura sparandosi in gola. Il suo angelo custode doveva lavorare parecchio. Un po' come quello di Adolf che lo salvò da una bomba che uccise tutti i suoi amici mentre cenavano. Almeno un paio di volte, tra l'altro. Piccolo fortunello.
 
Erano una bella coppia: lui non proprio un adone ma con quegli occhi azzurri e quei baffetti da sparviero che piacciono tanto alle ragazze e alle nonne, lei tracagnotta, con questo sorrisone da strappona. Amanti degli animali e in particolar modo dei cani. Sempre alla moda e ben curati.
Gretl, la sorella di Eva, si sposerà con un collega di Adolf. Le giornate passavano tra feste nella casa di montagna e impegni mondani.
 Adolf ed Eva si sposarono il 29 aprile, una domenica come tutte le altre. La sposa indossava un delizioso vestito di seta nera, il maritino invece vestiva da "ufficiale e gentiluomo". I testimoni Joseph e Martin erano tranquilli e sereni.
Il giorno dopo, verso le 15 e 30, Adolf si sparò un colpo di pistola in bocca ed Eva si avvelenò con del cianuro. Gli amici testimoni della loro felicità  cremarono i corpi dei due novelli sposi.
Fine.
 
 
 
E pensare a tutti quegli attimi di felicità, quei balli, quei sorrisi. L'amore di Adolf per la sua Blondi, il suo pastore tedesco. Quello di Eva per i suoi scottish terrier, Negus e Stasi.
Pensare all'infelicità di Eva nel consolare la sorella Gretl, incinta, il cui marito Hermann era stato fatto fuori dai colleghi di Adolf. Letteralmente fuori.
Pensare ai triboli sul lavoro che aveva Adolf, straordinari su straordinari in una ditta di cretini che non lo apprezzavano e lo deludevano in continuazione.
Eppure.
Eppure gli sguardi. Eppure la stanchezza. Eppure l'impotenza. Eppure il mito.
 
Adolf aveva un testicolo solo, colpa di un caprone che gliene tolse uno mentre Adolf ci si masturbava sopra (queste bestie! Le capre son proprio animali ignoranti..). Era ancora innamorato della sua ex, Geli (sua nipote. Morta suicida. O forse no. Cioè forse fu proprio Adolf ad ammazzarla. Forse si era stancata di urinare e defecare addosso al suo amato.). Forse Adolf era un gay represso.
Ma a Eva poco importava. Saranno stati i baffetti erotizzanti di lui, l'aria buona che si respirava a Berghof. Ma l'amore, da qualche parte, sarà pur stato.
 
Le ceneri dei due amanti saranno sparse nel fiume Elba da un uomo venuto da più lontano, un tale Jurij.
La nipote di Eva nascerà senza papà. Avrà il nome della sua adorata zia e si toglierà la vita trent'anni dopo a causa di un uomo. Come l'adorata zia.
 
A volte pensare che anche Adolf Hitler aveva un cuore mi rende tranquilla. Abbiamo bisogno di spauracchi senza cuore che ci facciano sentire dolci anime innocenti. E lui, devo dire la verità, calza a pennello.
Sterminò ebrei, omosessuali, zingari e oppositori politici, strumentalizzò il popolo tedesco, si mostrò incapace di gestire militarmente il potere e di governare i suoi sottoposti.
Ma amava il suo cane. E la montagna. E la mamma.
E probabilmente anche Eva Braun. O la nipote Geli.
 
In sostanza, la lezione di oggi è una sola. Diffidate dalle apparenze: i mammoni son sempre pericolosi come l'amianto e gli squali.
 
 
 
 

venerdì 19 ottobre 2012

Il Futuro non è scritto. Il Passato è inciso.

Penso furono i Gun's.
Pendevo letteralmente dalle labbra di mio padre musicalmente parlando. I Queen degli anni '70-'80, i Creedence Clearwater Revival, Neil Young, quel piccolo Saddam Hussein di mio padre mi viziava.
Ma di sicuro furono i Gun's.
Axl Rose rovinò la fiducia musicale che riponevo in mio padre. Svegliarsi la domenica mattina con "Paradise city" per me era come svegliarsi all'inferno, un inferno popolato da camicie a scacchi annodate in vita, bandane e jeans strappati.
Mi allontanai dall'influsso di mio padre e fui accolta dalle braccia comprensive dei miei amici punk/hardcore/troviamoun'altradefinizionecoolmanontroppo.
Navigavo tra Sex Pistols, Dead Kennedys, Buzzcocks. E mio padre scuoteva la testa. Era disappunto, ma pensavo fosse in trance da Axl Rose. Io intanto perseveravo, ascoltavo gruppi di cui ignoravo l'esistenza fino ad un mese prima, ridicoli gruppetti svedesi, improbabili gruppi italiani.
E sì, m'innamorai: dell'uomo sbagliato e del gruppo giusto.
I Clash. Il cui amore durò molto di più che quello per l'uomo sbagliato.
Cacchicacchiocacchio quanto consumai "London Calling", quanta amarezza vedendo Fabri Fibra scimmiottare il video di "Rock the Casbah", quanta tristezza alla morte di Joe Strummer.
 
John Graham Mellor nasce ad Ankara nel '52. Facendola breve diventa Joe Strummer dopo aver girato per il mondo con la famigliola e avendo sperimentato la merda del collegio e aver scoperto, come molti altri illuminati, che esiste un mondo al di fuori delle solite 4 mura. Joe sperimenta la morte del fratello David, attivista di estrema destra, nel 1970 e decide che forse è venuta ora di buttarsi. Nel 77 nascono i Clash, il resto, chi li ha sentiti almeno un paio di volte, sa che è leggenda.
Joe muore troppo presto nel 2002, a soli 50 anni. Bum! Infarto.
 
 
 
"Coi Clash è stato come scendere agli inferi e ritornare. Non puoi immaginare cosa abbiamo passato per fare i dischi che abbiamo fatto. Abbiamo dato il 110 per cento, ogni giorno. Ma quando incontri questa gente, persone che ti dicono che hai avuto qualche effetto sulla loro vita, allora senti che valeva assolutamente la pena"
 
Già. Grazie Joe. Quanto è profondamente ingiusto che tu te ne sia andato e che Axl Rose sia ancora lì, ogni domenica mattina, a cantare "Paradise city" e a farsi picchiare da Tommy Hilfiger.
 
I miei anni da finta punk finirono presto. Mi sono omologata, ascolto roba da 30enne cresciuta a Oxford. Sono diventata noiosa. Ma la magia è sempre dietro l'angolo. Parlare con amici di vecchi gruppi, lì, seduti a bere spritz e birra. Forse c'eri anche tu Joe mentre parlavamo di Jello Biafra.
 
La lezione di oggi è che certe persone, certi idoli, non muoiono mai, restano nei nostri ricordi distorti e non sono mai gli stessi. Immagino quante bandane rosse a mezz'asta quando creperà Axl Rose.

giovedì 18 ottobre 2012

La morte del mio primo Grande Amore

Ho deciso di andare alla radice di questa mia sofferenza emotivo/sentimentale/ritenzione idrica che predomina i miei stati d'animo e mi fa essere gioviale come un disastro aereo.
Qual è stato il mio primo grosso trauma sentimentale? Ovvio. La morte del mio amato.

Da bambina adoravo i cartoni animati. E fin qui, direi, tutto nella norma.
Guardavo "Holly e Benji" preparandomi alla catapulta infernale mentre mio padre imprecava contro Bruce Harper che s'inerpicava senza logica sulla traversa. Mi facevo pere su pere di puntate de "Il mistero della pietra azzurra" senza capirci un cacchio e gongolavo guardando il "Conte Dacula".
Ma poi, il dramma. Anzi, i drammi.
Cartoni strappalacrime stile "Milly un giorno dopo l'altro", dove la protagonista mezza orfana preda di sorellastre cattive passava un giorno di merda dopo l'altro. "Alfred il papero" che girava per il mondo trascinandosi il fardello emotivo della tragica perdita della sua famiglia: la signora mamma di Alfred aveva intelligentemente pensato di attraversare la Salerno-Reggio Calabria con al seguito 6 o 7 anatroccoli finendo sotto le ruote di una Fiat Ritmo guidata da suore.
E sorvoliamo su "Candy Candy".
Un giorno, sempre quel sant'uomo di mio padre, tornando a casa vede mia sorella in lacrime. Costernato le chiede che succede e lei risponde triste "E' morto Anthonyyyyyyyyyyyyyyyyy". Mio padre rimane a bocca aperta. Un compagno di classe? Un amichetto del parco? Qualcuno che dovrei conoscere?
"Nooooo" risponde mia sorella quasi seccata, "quello di Candy Candy!!!!!".
Immaginatevi l'espressione di disappunto mista a  schifo farsi strada sui baffi di mio padre, un incrocio tra Ned Flanders e Stalin.
 
Ma io la capisco mia sorella.
A me successe quando morì il mio primo Grande Amore.
André Grandier.
 
Ore passate ad immaginarmi alla corte di Francia, vestita e agghindata come Maria Antonietta, volteggiare nelle sale di Versailles mano nella mano, occhi negli occhi, con André Grandier, il migliore amico di Lady Oscar (approfondisco il concetto di "migliore amico": uno che per anni spera che una lesbica straordinariamente somigliante a Paris Hilton gliela molli in preda alla più profonda e disperata pietà).
Bello André. Bellissimo. Per tutta una vita vive accanto ad una donna che lo ignora, salvo poi scoprire di amarlo alla follia. Già. Peccato che il giorno dopo questa meravigliosa scoperta il povero André muoia, come si direbbe a Scampia, sparato. Il che non è tanto strano essendo un soldato nel bel mezzo della rivoluzione francese.
 
 
 
Calde, caldissime lacrime. Il mio André, il mio tesoro, quel piccolo remissivo bastardo. Eccomi lì, una bambina povera di 8 anni che se ne sta con il musetto incollato alla tv a piangere. Mia madre pensò mi mancassero delle diottrie e mi mandò dall'oculista (mia madre e il mondo dei sentimenti, due mondi distanti anni luce).
Persi il mio primo Grande Amore durante la rivoluzione francese.
Gli altri se ne andarono abbandonandomi di notte in un parco di Cervia o il giorno prima di San Valentino. Ma quelli non li rimpiansi nemmeno per un minuto.
 
La lezione di morte che vi do è una e una soltanto: non morite per amore. Anche perché scoprirete da soli che nel 99% dei casi morireste d'amore per la persona sbagliata.
 

martedì 16 ottobre 2012

Sparire come Houdini.

Ci sono giorni in cui si vuol sparire dall'intero universo.
Io passo ere geologiche a desiderare di eclissarmi sul mio divano nella più totale commiserazione della mia triste vita.
Sogno spesso di liberarmi di tutte queste catene emotive che negli ultimi mesi mi fanno sentire ancorata al terreno come la mela di Newton.
E allo stesso tempo fantastico su un'ipotetica fuga verso lidi pacifici e pieni di venditori ambulanti di burritos.
Con questo inizio scoppiettante degno dei migliori film di Amedeo Nazzari, introduco un personaggio che sapeva fuggire con più maestria di un ragazzo padre.
 
 
 
Harry Houdini era un escapologo. Cioè uno che riusciva a liberarsi da catene, camicie di forza, bauli sigillati o che riusciva a fuggire da celle, gabbie e stanze chiuse.
Harry Houdini era un pioniere dei "Ghostbusters": benché la sua vita si basasse sull'illusione, egli era un fermo combattente dei cosìdetti spiritisti e medium. S'intrufolava nelle varie sedute spiritiche insieme ad un poliziotto e smascherava il parapsicologo furfante di turno. TipoVanna Marchi.
Harry Houdini sposò dopo 3 settimane di corteggiamento ostinato sposò l'amore della sua vita, Bess Rahner.
Harry Houdini aveva una diatriba con Arthur Conan Doyle. Sì, Conan Doyle credeva negli spiriti, pensa un po'. Uno crea un personaggio come Sherlock Holmes e poi si perde dietro le gonnelle delle maghe. Tipo Vanna Marchi. Ma magari più sexy.
Herry Houdini morì la sera di Halloween del 1926 a causa di una peritonite. Le sue ultime parole furono "Se è veramente possibile a qualcuno tornare dall'aldilà, Harry Houdini lo farà". Giusto un pochino pretenzioso. Tipo i rossetti della figlia di Vanna Marchi.
Herry Houdini che non credeva agli spiritisti e pur di smascherarli chiese alla moglie Bess di fare sedute spiritiche dopo la sua morte, lasciandole un messaggio in codice. Se fosse davvero riemerso, lei lo avrebbe capito.
Harry Houdini non tornò mai. Dopo dieci anni, Bess spense la candela dandogli la buonanotte.
 
Caro Harry, ti lascio un messaggio dal mondo dei vivi.
Qui io non riesco nemmeno ad entrare in casa senza spezzare una chiave dentro la serratura del cancello.
E sì, io ci credo nei fantasmi. Ne vedo uno o due al giorno. Fantasmi o gente che si lascia vivere, stessa cosa.
E no, i ciarlatani non vengono puniti, se ne vanno in giro puliti e lindi. Tipo Vanna Marchi.
 
La lezione di oggi: Non tutti siamo come Houdini. Non tutti riusciamo a lasciarci i problemi alle spalle. Puf! Spariti. Ci vuole tempo. E credere ai fantasmi, aggrapparsi ad una speranza, ogni tanto, fa bene.
E poi pure Harry Houdini aveva i suoi trucchi.