mercoledì 20 dicembre 2017

Pillole di morte: il pranzo di Natale

Una donna del Kent, a Natale, mangerà le ceneri della madre.
Stop.

Siete su pillole di morte, short concept di Ars Moriendi, concepito apposta per essere con voi scrivendo poco ma pensandovi un sacco.

Dicevamo, una donna del Kent mangerà le ceneri della madre a Natale.
Sì.
E noi che stiamo ancora a disquisire su agnolotti e tortellini quando il futuro è davanti ai nostri occhi:


La cara Debra del Kent ha perso la mamma a maggio, all'improvviso, e da allora non si è più ripresa. Si è portata a casa le ceneri della mamma e ha meditato sul da farsi. Perché spargerle in un luogo pittoresco quando puoi tenerle dentro una busta di plastica da sandwich vicino al tuo letto? E perché non intingere un dito in quel soffice mucchio di ricordi per assaggiare un po' di nostalgia?

Debra ha annunciato che spargerà quel che rimane di sua madre sul tacchino e sul pudding natalizio, tutto con la complicità del fidanzato (devo ripetere a me stessa che non mi devo più stupire di certe cose) e della sorella, che le ha ceduto la sua parte di "mamma" non appena saputo del vizietto.

Cari voi, qualsiasi lutto abbiate affrontato o stiate affrontando, per quanto grande sarà il vuoto che lascerà nella vostra vita, non mangiate le ceneri di nessuno per nessun motivo.
E, soprattutto, non fatevi fotografare mentre lo fate.

Per l'articolo intero vi rimando a:http://www.mirror.co.uk/news/uk-news/i-eat-mum-christmas-day-11706456 altrimenti domani lo troverete postato nella pagina Facebook di Ars Moriendi.

Buone feste a tutti.
Anche a te Debra del Kent.

giovedì 19 ottobre 2017

Le strade di Pontypridd

Mi sa che ormai l'avrete capito, qui si parla di tutti i tipi di morte, mica solo di funerali, telegrammi di condoglianze o di mia madre che mi spinge a toccare i morti alle veglie funebri.
Oggi, miei cari fans, voglio raccontarvi di quando la tua città decide che per lei sei morto e stramorto.
Voglio parlarvi dei Lostprophets e di Pontypridd.

Solo noi trentacinquenni imbruttiti dal tempo possiamo ricordare con gli occhi lucidi i nostri vent'anni passati tra penosi locali rock di periferia e pub dove bere birra scadente in bicchieri di vetro scheggiato. 
Solo noi ex ragazze ribelli ricordiamo i pantaloni larghi, i capelli piastrati, le cravatte e le linguacce alla Avril Lavigne.
Ricordo una marea di sigarette, il mio DJ preferito, i Linkin Park, le mie amiche che rimorchiano e io che sto in canotta rosa fuori dal locale alle 2 del mattino di un febbraio qualunque di un anno imprecisato tra il 2000 e il 2006, seduta sui gradini di acciaio della scala antincendio a farmi milioni di seghe mentali sul perché l'ennesimo tipo che mi piace sia un fallito psicopatico.
Che meravigliosi anni di merda, quelli.

Comunque all'epoca compravo "Rocksound" (lo so che la mia già scarsa popolarità sta colando a picco, ne sono consapevole) un giornaletto con un sacco di articoli che non ho mai letto veramente su band orribili che suonavano Nu Metal. Ogni mese comunque c'era in allegato l'imperdibile cd con le hit del momento, un concentrato di putridume ad alti livelli con alcuni, rarissimi, diamanti grezzi.
Fu in uno di quei maledetti cd che scovai i Lostprophets.
Ancora adesso non so se classificarli come "putridume" o "diamanti grezzi". Propenderei per la prima.

In quegli anni il Nu Metal devastava le nostre giovani vite trascinandoci sull'orlo della rabbia e dell'insoddisfazione più cupa, testi in cui si sfogava il dolore di essere soli, isolati, reietti, non capiti, falliti in un mondo di vincenti. Tipo un pomeriggio con mia madre o un'estate passata a Vedegheto, per capirci.
I Lostprophets erano uno dei tanti gruppi che giravano in radio e che passava il mio DJ preferito mentre io ingurgitavo vodka tonic guardando in loop le puntate de "La Pantera Rosa" che giravano silenziose sugli schermi di quel locale rockettaro della bassa di San Lazzaro.

Le strade di Pontypridd
Pontypridd è una città del Galles. Ci sono nate un sacco di persone importanti, Tom Jones, ad esempio o anche Phil Campbell dei Mötorhead, per dire. 
E i Lostprophets si sono formati proprio lì, tra quelle strade dove prima schioccava le dita Tom Jones.
A Pontypridd, alla comunità e ad un sacco di gente parve una bella idea lastricare le strade della città con i versi di alcune canzoni dei Lostprophets, roba tipo "everytime i walk these streets i know they're mine"(il fatto che il Nu Metal fosse una roba pretenziosa lo capivi già dal nome. NU. perché NEW è da vecchi matusa.).

Purtroppo però Ian Watkins, cantante e leader dei Lostprophets, non è proprio un cittadino modello.
Ian ha molestato sessualmente un sacco di bambini, alcuni non arrivavano nemmeno ai due anni compiuti. E, a quanto pare, continua a farlo anche dalla cella in cui si trova e dove dovrà restare per altri 30 anni abbondanti, circuendo via posta giovani madri fan del gruppo. Guardando il video di "A town called Hypocrisy" mi vengono i brividi.




Così Pontypridd ha deciso di cancellare il ricordo dei Lostprophets e di sradicare dal pavimento stradale le parole di Watkins, un chiarissimo messaggio, del tipo "tu per noi sei morto, anzi, non sei mai esistito".

Il mio DJ preferito vota 5 stelle.
Il locale rockettaro a San Lazzaro ha cambiato pelle e ora fanno serate con balli latinoamericani.
Le mie amiche sono tutte sistemate.
Nessuna di noi ascolta più Nu Metal.
Anche per noi Ian Watkins è morto e stramorto.

La lezione di oggi è che devi essere sempre all'altezza delle strade su cui cammini, o loro cancelleranno i tuoi passi.



martedì 4 luglio 2017

Lo scemo del Villaggio

Sono una persona con la testa perennemente tra le nuvole. A volte guardo la mia vita con un tale distacco da sentirmi qualcun'altro. M'immagino spesso in luoghi leziosi, rosa, geometrici e spumosi.
Io m'immagino di vivere in un film di Wes Anderson, di essere uno dei suoi personaggi, penso di essere uscita da un libro di favole norvegesi, per dire.
Ma no. Non è proprio così. Prima sento un rumore stridulo di freni, poi apro gli occhi. 
E quando lo faccio mi trovo crocefissa in sala mensa.
Io vivo dentro una costante replica di Fantozzi.
Da sempre.


Non sono solo Fantozzi, io, no, sono anche Paolo Villaggio, a volte. 
Sono Paolo Villaggio che scrive il testo di "Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers" e che dopo deve recitare 100 volte la scena in cui Fantozzi si proclama "Azzurro di sci". 
Sono Paolo Villaggio iscritto al partito comunista e un novello Folagra che si batte a suon di bestemmie smozzicate per il benessere dei colleghi in una ditta dove i Balabam e i Cobram sono insagomati in jeans e camicie strette, sono sempre inattaccabili, inaccessibili, intoccabili, ma adesso hanno il puzzo di un profumo da quatto soldi e vogliono che tu consideri la tua ditta come la tua casa o la tua famiglia, ti vogliono sorridente e sempre, sempre di più, scattante e sportivo.

Sono il Filini che prova ad organizzare feste, ritrovi improbabili districandomi tra obblighi e piaceri; dopo un paio di Brunella Pallor scompaio in un vortice di stanchezza e ombre di bagordi. Ho la sindrome da scema del villaggio: sempre connessa, sempre proattiva, finta ingenua ma che casca prontamente nelle trappole di chi mi vuole disponibile a tutto, sempre.

Appena ho saputo della morte di Paolo Villaggio ho esclamato un "era ora!", probabilmente lo esclamerei ancora mille volte, lì, avviluppata tra le lenzuola, con la testa sprofondata nel cuscino, con il cuore in gola nel sentire "E' morto..."aspettandomi il peggio, aspettandomi di dover indossare un brutto vestito e chiedere un cambio al lavoro.
Invece era tutto lì, è solo morto Paolo Villaggio, uno che sapeva bene che alla fine sarebbe morto, uno che aveva perfino invitato Napolitano al suo funerale.




Soprattutto è morto uno che capiva bene quanto vicina potesse essere la morte.  
Si scherza su tutto, anche sulla morte, soprattutto da ragazzi, soprattutto con gli amici. Ma non  si scherza con la morte, non si scherza con i tuoi amici se con lei ci vivono.
Con Faber non ci poteva più scherzare come facevano da giovani guasconi più simili a Carlo Martello che a Fantozzi e Filini, sempre in piedi, sempre in giro a far cazzate e a vivere.

No, si chiude tutto, ci si saluta in silenzio.

"Era ora!". 
Liberatorio come quel "per me, la Corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca".
Negli ultimi anni Paolo Villaggio era finito a fare la caricatura di Fantozzi in mezzo alle lande umbre, tra Manuela Arcuri e Andrea Roncato che interpretavano le peggiori barzellette sui Carabinieri mai viste o sentite. Lì il caro Paolo era letteralmente lo scemo del villaggio, un po' naif un po' Fantocci, con la sua voce e i suoi modi imbarazzati e vergognosi. Un po' come me ogni giorno da quando lavoro con i Balabam e i Cobram, aspirando sempre ad essere una contessina Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare.

Adesso possiamo smetterla di essere Fantozzi.
Inauguriamo l'era dei Calboni, per cortesia.






martedì 7 marzo 2017

Ho perso tutte le tue foto - AUZ

Non mi sarei mai aspettata di scrivere un pezzo su Leone di Lernia. 
Non mi sarei mai aspettata di scrivere un pezzo d'amore, morte e rimorso sulle note di "Ti si mangiate la banana".
Non mi sarei mai aspettata di avere la stessa pettinatura di Leone.
E invece.



E invece appena ho letto la notizia della morte di Leone ho sentito un fischio lunghissimo.
Un fischio che durava dal 2012, da quando era morto MCA dei Beastie Boys. 
Un sibilo che a tratti affievolisce ma non scompare.
Qualcosa dentro al mio cranio reclamava di uscire. E intanto vorticosamente sibilava dentro alla mia testa.

Leone di Lernia aveva degnamente rovinato le mie orecchie moltissimi anni prima. 
Mi ricordo.
Il fischio diventa rumore, voci, lacrime.

Ero a casa di Federico, era pomeriggio. Una stanza gialla. Non ricordo se fosse estate o inverno, ricordo il legno scuro dell'armadio, non ricordo se fosse pomeriggio tardi o presto. Forse era settembre. O forse prima.
Io ricordo solo la cassetta di Leone di Lernia e "Ti si mangiate la banana".
Federico rideva, rideva tantissimo, nemmeno ascoltava le parole, per lui il testo parlava di pompini. 
Ora, non voglio gettarmi nell'esegesi delle opere di Leone di Lernia, ma mi sembra che il senso del testo fosse che a Maria piacevano le banane, soprattutto Chiquita, e che ne mangiasse in quantità industriali, tutto lì.
Ma Federico rideva tantissimo. Continuava a ripetere "AUZ", lui adorava quella comicità idiota, fatta di cacca e goliardate.
Io no.

Federico adorava Leone di Lernia. Ma i suoi preferiti erano i Beastie Boys.
Li amava così tanto che a casa sua ascoltavamo "Intergalactic" almeno 20 volte a pomeriggio. 
A me piaceva, lui faceva il robot. Io ridevo.
Li amava un casino, quindi posso solo immaginare quanto sia stato difficile decidere di regalarmi la sua copia di "Hello Nasty" senza potersene comprare un'altra. 
Forse amava più me dei Beastie Boys.
Tutto quell'amore però non mi fermò dallo stracciare di fronte ai suoi occhi il bigliettino con scritto "Federico ❤ Federica -  Per sempre insieme".
Lo stracciai inorridita e lo buttai in un cestino.

Federico amava Leone di Lernia, i Beastie Boys, me e l'eroina. Soprattutto l'eroina.
Non eravamo ventenni universitari sulla strada della devastazione con la sola scelta di diventare barboni pieni di pustole che si arrabattono per due spicci, non avevamo nemmeno un'ambizione, certo, ma avevamo solo diciassette anni. Eravamo soli a diciassette anni.

Conoscere qualcuno che si fa di eroina a diciassette anni è ridicolo, amarlo è pure peggio.
Se cinque minuti prima Federico era pieno di energia e trovare un pezzo di stagnola era la sua unica missione, venti minuti dopo eccolo lì, vuoto, nessuno dentro l'involucro di carne e capelli.
Io lo guardavo e non capivo, giuro, non capivo perché si dovesse soffrire così tanto per essere soli. 
Io me ne stavo lì, non toccavo nemmeno le sigarette per paura di stare male, io ero lì, lui no.
Quando ti fai di eroina e ami qualcuno, a volte non sai dosare le emozioni. Nessuna delle tue emozioni. O almeno credo. Altrimenti non capisco perché un pomeriggio Federico mi scagliò un pugno così forte sulla schiena da farmi tossire e lasciarmi senza voce lì, per terra, senza che nei suoi occhi passasse un lampo di vita o un bagliore qualsiasi.
Non capisco perché mi picchiasse, mi chiamasse "cicciona" sebbene pesassi 55 chili, mi denigrasse di fronte agli amici, mi chiedesse soldi. Non capisco perché amasse più l'eroina di me.
Più l'eroina di Leone di Lernia.
Più l'eroina dei Beastie Boys.

Così gli stracciai davanti agli occhi quel bigliettino.
"Federico ❤ Federica - Per sempre insieme".
Gli stracciai davanti agli occhi quella bugia. E lui pianse.
Pianse tutti gli anni di merda, tutti i pugni, tutti i problemi, tutto l'amore. 
Lo lasciai seduto su alcuni gradini di un palazzo vicino a Piazza Roosevelt, lo lasciai piangere, lo consolai per un poco, lo lasciai lì.
Gli presi il cd dei Beastie Boys, gli presi i ricordi, considerai quel cd una ricompensa per le mie cicatrici.



Così persi Federico, ci guadagnai un cd e un sacco di sensi di colpa.
E mentre ci penso piango, perché sono stata cattiva, perché a me Leone di Lernia non mi faceva ridere (tranne i primi tempi allo ZOO di 105), perché non ascolto mai quel cd, perché non so che fine abbia fatto Federico, non so dove cercarlo, ho paura di cercarlo dove so che potrebbe essere finito.
E piango perché dopo di lui ho incontrato un uomo peggiore, e a lui ho dedicato il pezzo su Baglioni (questo pezzo pieno di livore e niente di buono da dire o da rimpiangere).
Soprattutto penso di aver avuto solo un paio di foto di Federico e di averle perse.

Così Leone di Lernia è morto, MCA è morto. Io comincio a fare gli scongiuri. Smetterò di canticchiare sotto la doccia. Per un po' smetterò di leggere i necrologi.

Vabbè, ci tiriamo su con il Fu di Lernia?
AUZ!






lunedì 20 febbraio 2017

Il partito della morte

Tirate fuori i festoni e le candeline, oggi è ufficialmente il quinto compleanno di Ars Moriendi!
Per festeggiare degnamente l'avvenimento dobbiamo prima scrollarci di dosso tutto il rancore e il sudiciume che questo inverno ci ha scaricato addosso.

C'è chi, per festeggiare l'aria frizzantina che si respira negli ultimi giorni, ha deciso di dare una mega festa dove tutti hanno deciso di scindersi da qualcuno o qualcosa, Mentana ci ha piazzato sopra la solita maratona e qualcuno, nel frattempo, ha dato fuoco ad un paio di palme a Milano. Se non un clima infame, di sicuro un clima ostile.

In questo momento storico ho deciso di fare due cose e solo due: rileggere i miei vecchi Poirot e mettermi a dieta.
E credetemi, sulla seconda mi sono venute le lacrime agli occhi e il groppo in gola, della serie "ci risiamo", ma non il "ci risiamo" di Francesca di Spotify, quella della playlist collaborativa con il fratello Giorgio che piazza Skrillex, che lei al massimo dalla taglia 42 deve passare alla 40 perché gli short da Daisy Duke le stringono sulle cosce. No. Io devo cercare di placare i demoni della mia psiche dandogli in pasto germogli di soia e petti di pollo, devo convincermi che se continuo così camminare tra un paio di anni mi sarà impossibile, che lo spettro del diabete è lì, dietro i cereali al cacao e agli snack al sesamo.
Nemmeno fossi uno di quei maxi obesi di "Vite al limite". Quelli pesano 300 chili ma hanno le anche d'acciaio. Maledetti, stramaledetti candidati al bypass gastrico.
Diciamo che anche il mio fegato anela disperatamente alla redenzione e alla purificazione, è così disperato che il solo pensiero di dover dosare le transaminasi mi terrorizza.

Così chiudo gli occhi, metto su "Giallo", faccio partire la maratona di "Law and Order", spingo sul tasto MUTE e attacco Bon Iver. 
L'unica cosa che mi viene in mente associando il mio fegato a questo clima fatto di incertezza e odio è Moana Pozzi, la regina.




Moana Pozzi è, meglio era anche se per qualcuno ancora è, la donna più bella del mondo. 
L'assoluta spontaneità del sorriso, gli occhi di un colore indefinito, un'intelligenza sana e una prontezza di spirito non indifferente.
Sì, lo so, volete far partire i luoghi comuni e le battutine sulla sua carriera. Bene. 
Comincio io: l'unico passo falso che posso riconoscere a Moana è aver condotto quella stramaledetta trasmissione per bambini insieme a BOBBY SOLO. Tutto ciò non poteva che sfociare in due direzioni:

1) una carriera nel porno.
2) sfondare come cane di pezza di nome "Floradora" in un programma RAI con Paolo Limiti.

Saggiamente Moana decise di avventurarsi nel mondo del porno hardcore, diventando insieme a Cicciolina una sorta di idolo femminile alternativo, costituendo un club di donne potenti ed emancipate, molto più vere e reali delle cricche composte dalle varie Naomi o Claudia.

Da tutto questo, forse dopo le esperienze cinematografiche di "Tutte le provocazioni di Moana" e "Buco Profondo", nasce il famoso Partito dell'Amore. Potrei sintetizzarvi questa favolosa esperienza politica in poche parole, che però lascio direttamente a Moana:


Il nesso è che in questi due minuti di video del 1993, che vi prego di guardare, Moana esorta tutti noi a pensare alla società e al bene comune. A parte l'elogio alla sessualità libera (non a caso partito dell'AMORE e non della salsiccia passita) esiste un progetto favoloso nella mente di Moana e degli ideatori del Partito dell'Amore: vivere in case che non siano mostri architettonici grigi e senz'anima, rispettare l'ambiente senza esaurirlo, proteggere i deboli e sconfiggere la criminalità organizzata, tutto questo facendolo rigorosamente INSIEME. 
Una sorta di Movimento 5 Stelle dove Beppe Grillo era in realtà Riccardo Schicchi.
Ma tutto era diverso, c'erano le spalline nei cappotti, le monetine da 100 lire buttate sulla testa di Craxi, Berlusconi ancora stava tranquillo a pettinare Ruud Gullit.
Purtroppo il Partito dell'Amore non ce la fece, Moana esortò a far confluire i voti dei tanti fedeli elettori nelle mani di un giovane capace e rampante: Francesco Rutelli (wikipedia mi conosce, wikipedia sa che io gongolo quando leggo certe cose.).



Moana è morta di cancro al fegato il 15 settembre 1994. Aveva solo 33 anni.
Con lei però non vengono sepolti i dubbi sulla sua salute, sulla sua presunta sieropositività (grazie ad un loquace Paolo Villaggio che negli ultimi anni si ha sviluppato la logorrea di Abe Simpson), sul figlio/fratello segreto Simone.
Tutto rimane lì, negli anni '90, in quella soffice bambagia tra prima e seconda repubblica, dove gli 883 cominciavano a muovere i primi passi, Berlusconi scendeva in campo, le spalline imbottite cominciavano a scendere e i cappotti, i foulard, i vestiti, cominciavano ad avere colori veri, vivi, si vedeva finalmente la sconfitta del color "cammello" per ogni tipo di giubbotto o maglione.

Mi manca Moana, manca la spontaneità e la voglia di sesso di quei tempi, la paura dell'alone viola ma la spensieratezza, manca anche, se vogliamo, il politicamente scorretto, il portare il sesso dove non si può, mentre adesso, in parlamento, al massimo entrano le scie chimiche.

Quindi, se vogliamo, ode a Moana, che nel 2017 non può nemmeno condividere il suo nome con un'eroina Disney, ode a Moana che purtroppo non può combattere contro Adinolfi, anche se forse potrebbe essere l'unica in questo deserto di codardi, a poterlo fare. Ode a Moana, al suo sorriso e alla sua vita.

Ma soprattutto, ode ai film di Moana. 
Sempre e comunque.

(Auguri Ars Moriendi!)

mercoledì 25 gennaio 2017

Il vento ci condurrà (alla morte)

Non so cosa mi abbia portato ieri mattina, ore 06.37, sulla pagina wikipedia di Bertrand Cantat, cantante storico dei Noir Désir.
Forse perché dopo 10 anni ho letto che riciccia fuori Manu Chao con un nuovo album e, sempre forse, mi sono chiesta che fine avesse fatto la mia gioventù.




(J'ai pas peure de la route
Faudrat voir, faut qu'on y goȗte
Des méandres au creux des reins
Et tout ira bien là
Le vent nous portera

Non ho più paura del cammino,
bisognerà vedere, bisognerà saggiare
i meandri più profondi di noi stessi.
E tutto andrà bene.
Il vento ci condurrà)

2003

Non riuscendo a trovare la mia gioventù, o le rovine di quel che fu, mi sono imbattuta in Bertrand Cantat che interpretava il classico cliché del rocker impegnato contro tutti i fascismi e le guerre, contro la corruzione della società e l'avanzata del capitalismo. Voglio dire, di Manu Chao ne avevamo già uno, checcazzo.
Mentre sgargarozzava la peggio vodka dei bar di Vilnius, una sera d'estate del 2003, tenta l'impossibile: diventare ancora più cagacazzo agli occhi di tutti ammazzando la fidanzata a mani nude.
Ci riesce.
Per ben 19 volte colpisce al volto la fidanzata, in preda all'alcool, alla gelosia, alla frenesia.
Marie Trintignant, la bellissima Marie, attrice sensualissima figlia di quel Jean-Louis che tanto amava il cinema italiano, muore dopo un'agonia durata 7 giorni.



(Ce parfum de nos années mortes
Ce qui peut frapper à te porte
Infinité de destins
On en pose un et qu'est-ce qu'on en retient?
Le vent l'emportera

Questo profumo dei nostri anni morti
che può bussare alla tua porta,
un'infinità di destini,
se se ne perde uno, poi, cosa ne rimane?
Il vento lo porterà via)

Bertrand, che di pugni se ne ricorda solo quattro, dopo averla picchiata la lascia lì, quasi morta, ad aspettare il suo triste destino, mentre lui se ne va impunemente a dormire.
La mattina porterà Marie in ospedale. 
Tutto troppo inutile.

Eppure anche gli idoli libertari francesi hanno i loro fan.
L'ex di Bert, Krisztina Rady, segue insieme a lui ogni fase del processo che lo vede incriminato per l'omicidio. In ballo c'è il destino del leader dei Noir Desir, del suo ex marito e, soprattutto, del padre dei suoi figli.

Cantat se la cava con otto anni di carcere, ne sconterà solo 4 nel carcere di Tolosa. 
Quattro come i pugni che ricorda, strana la numerologia.

Fine.
O no?

La scia di morte che accompagna Bertrand lo attende fuori.
I Noir Desir li ha uccisi lui quel 27 luglio del 2003 insieme a Marie, ma lui ancora non lo sa.
Forse non è detta l'ultima parola, si possono sempre raccogliere i cocci di un vaso, si può sempre tentare di rimetterli insieme. La voce gli trema, di nuovo, ma può ancora farcela.



(Pendant que la marée monte
Et que chacun refait ses comptes
J'emmène au creux de mon ombre
Des poussières de toi
Le vent les portera

Mentre la marea sale
ed ognuno si fa i suoi conti,
mi sposto nella cavità della mia ombra
polveri di te
Il vento le porterà con sé)

2010

Chissà perché tutto rema contro a Bertrand. 
Chissà cosa girava nella testa di Krisztina quando ha deciso d'impiccarsi. 
Chissà perché Bertrand era lì a dormire e non si è accorto di nulla.
Una donna morta, un'altra, lui in un'altra stanza a dormire, di nuovo. 
Il silenzio della notte, il rumore del vento.
È tutto finito questa volta, qualche maldestro tentativo per ritornare in quella società di cui si sentiva ispiratore d'ideali e che ora lo disprezza, si rompe in mille pezzi di fronte agli occhi delle donne che lo odiano, dei padri che lo disprezzano, dei musicisti che lo ripudiano.

Tout disparaȋtra mais
Le vent nous portera

Tutto si dissolverà, il vento ci porterà

Caro Bert, 
vorrei darti un abbraccio, ma avrei paura fosse l'ultimo che darei.
In ogni caso io, la mia gioventù, l'ho ritrovata, mi auguro che la ritrovi anche tu.

La lezione di oggi è: fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. Soprattutto di uno che suonava con Manu Chao.



martedì 17 gennaio 2017

I neomelodici, il gender e il matrimonio

Il matrimonio più bello a cui ho assistito è stato poco tempo fa, io ero testimone.
Cosa stana la vita.

Ripenso all'aria frizzante di metà settembre, alla compagnia, alla semplicità. Penso soprattutto all'amore che si respirava: quello meraviglioso, puro e scanzonato tra gli sposi e quello altrettanto meraviglioso, ma più fisico, tra me e i confetti al cocco.
Uno di quei matrimoni che ti fa venire voglia di sposarti cento volte al giorno, ti fa sospirare e pensare "chissà quando toccherà a me?", soprattutto "quando potrò scegliere le varietà di confetti?".

Uno specialista dei matrimoni era Don Antonio Polese, il "boss delle cerimonie", paladino del gender a sua insaputa per frasi come "sei propr' bell'" o "sei verament' grazioss'" riferito ad una sposa. Assoluto ambasciatore del neutro, dell'indefinito e del fluido: bell' o bellE, ricc' o ricche, sempre usati con persone sbagliate, generi diversi, un continuo mescolare di generi e sposi.




Quando se n'è andato, così, all'improvvis', tutt' noi ci siam' sentit' un po' pers' (gender parlando).
Don Antonio e il genero Matteo organizzavano i matrimoni napoletani, e campani in generale, più kitsch della storia. Un vero e proprio concentrato di tradizione partenopea mista a tatuaggi brutti di Padre Pio, corpetti e stecche su abiti per spose seducenti con corpi esuberanti, sposi di bianco vestiti con cilindri e bastoni gemmati e soprattutto cantanti neomelodici a perdita d'occhio.

Don Antonio era un uomo diversamente elegante, uno di quelli che portava camicie verdi di seta e occhiali anni '90 dalla montatura d'oro, correndo deliberatamente il rischio di sembrare il cugino ricco di Umberto Bossi. Il boss amava il barocco (da lui chiamato barocc', giustamente), gli stucchi dorati e valanghe di intonacature bianche su cui campeggiano improbabili scene bucoliche, putti e cieli dalle tinte violente stile capodanno "puttane e allucinogeni ad Amsterdam". 
Fuori dalla Sonrisa, lo sfarzoso abuso edilizio sogno di ogni bambina napoletana che s'immagina sposa, palme, bandiere di stati buttate a casaccio, pagode dai colori cangianti e fastidiosi, di nuovo palme, un enorme cancello in ferro battuto, una fontana con delfini saltanti e statue, tante statue, di tutti i tipi, dalla finta Venere di Milo all'arcangelo Michele truccato come Massimo Ranieri a teatro.

Chiunque varcasse quel cancello era, e tuttora è, in cerca di qualcosa di "esclusivo". Non conto le volte in cui dalla bocca rifatta di qualche mamma sia uscita la parola "esclusività", il matrimonio del rampollo o della principessina di casa deve sempre essere diverso da quello della figlia della vicina Concetta del quarto piano o del figlio della cugina di Castellammare. Rientrano nel concetto di "esclusività", nell'ordine:

- La carrozza: entrare in carrozza fa la differenza, si va dal calessino da festa paesana alla carrozza dorata stile Elisabetta II.
- Il banchetto per l'aperitivo: ostriche e champagne vanno bene, ma il top rimane sempre 'o pere 'o musso, ovvero il piede del maiale e il muso del vitello. Non sei nessuno senza.
- L'astice. Sempre. Anche se lo chiamano astRice.

- L'intrattenimento: imprescindibile l'accompagnamento musicale. Il mio preferito (e lo dico sul serio) è tal Mario Conte, cantante neomelodico della vecchia guardia che il boss ama molto perché quando canta sembra proprio di sentire "Massimo RanierE", che non credo sia associabile a "Massimo Ranieri", sta di fatto che appena comincia ad intonare "Se bruciasse la città" la sala esplode in una grande fazzolettata senza freni. Le ballerine brasiliane mezze nude sì, le sorelle/figlie/cugine che ballano vestite di domopack nì, le drag queen no.



-  I frutti di mare crudi. #cazzocenefregamuoriamodaeroi


Don Antonio ha sempre pensato a tutto, a concedere la carrozza reale, a fare uno sconto per l'astRice, a far correre alla Sonrisa il povero Mario Conte dopo la defezione di un neomelodico a caso rimasto imbottigliato nel traffico. 
Così, quando il boss è venuto a mancare, l'ultimo viaggio l'ha fatto dentro la sua Sala Reale, attorniato da camerieri, cuochi, amici, e parenti sotto i suoi lampadari d'oro e i suo soffitti stuccati, la bara aperta. Probabile segno della tanto decantata "esclusività".

Il mondo dopo il boss che mondo sarà?
Sarà un mondo con meno amore?
Sarà un mondo senza Mario Conte?

Io questo non lo so. 
In cuor mio spero sempre nei matrimoni, nella grande celebrazione dell'amore, nelle confettate infinite e nell'open bar.

Finché c'è vita c'è speranza. 
Finché ci sarà una bambina napoletana che sogna un vestito da sposa in tulle e corsetto steccato, ci sarà la Sonrisa.

Cente Anne di buon' salut' a tutti.