lunedì 20 febbraio 2017

Il partito della morte

Tirate fuori i festoni e le candeline, oggi è ufficialmente il quinto compleanno di Ars Moriendi!
Per festeggiare degnamente l'avvenimento dobbiamo prima scrollarci di dosso tutto il rancore e il sudiciume che questo inverno ci ha scaricato addosso.

C'è chi, per festeggiare l'aria frizzantina che si respira negli ultimi giorni, ha deciso di dare una mega festa dove tutti hanno deciso di scindersi da qualcuno o qualcosa, Mentana ci ha piazzato sopra la solita maratona e qualcuno, nel frattempo, ha dato fuoco ad un paio di palme a Milano. Se non un clima infame, di sicuro un clima ostile.

In questo momento storico ho deciso di fare due cose e solo due: rileggere i miei vecchi Poirot e mettermi a dieta.
E credetemi, sulla seconda mi sono venute le lacrime agli occhi e il groppo in gola, della serie "ci risiamo", ma non il "ci risiamo" di Francesca di Spotify, quella della playlist collaborativa con il fratello Giorgio che piazza Skrillex, che lei al massimo dalla taglia 42 deve passare alla 40 perché gli short da Daisy Duke le stringono sulle cosce. No. Io devo cercare di placare i demoni della mia psiche dandogli in pasto germogli di soia e petti di pollo, devo convincermi che se continuo così camminare tra un paio di anni mi sarà impossibile, che lo spettro del diabete è lì, dietro i cereali al cacao e agli snack al sesamo.
Nemmeno fossi uno di quei maxi obesi di "Vite al limite". Quelli pesano 300 chili ma hanno le anche d'acciaio. Maledetti, stramaledetti candidati al bypass gastrico.
Diciamo che anche il mio fegato anela disperatamente alla redenzione e alla purificazione, è così disperato che il solo pensiero di dover dosare le transaminasi mi terrorizza.

Così chiudo gli occhi, metto su "Giallo", faccio partire la maratona di "Law and Order", spingo sul tasto MUTE e attacco Bon Iver. 
L'unica cosa che mi viene in mente associando il mio fegato a questo clima fatto di incertezza e odio è Moana Pozzi, la regina.




Moana Pozzi è, meglio era anche se per qualcuno ancora è, la donna più bella del mondo. 
L'assoluta spontaneità del sorriso, gli occhi di un colore indefinito, un'intelligenza sana e una prontezza di spirito non indifferente.
Sì, lo so, volete far partire i luoghi comuni e le battutine sulla sua carriera. Bene. 
Comincio io: l'unico passo falso che posso riconoscere a Moana è aver condotto quella stramaledetta trasmissione per bambini insieme a BOBBY SOLO. Tutto ciò non poteva che sfociare in due direzioni:

1) una carriera nel porno.
2) sfondare come cane di pezza di nome "Floradora" in un programma RAI con Paolo Limiti.

Saggiamente Moana decise di avventurarsi nel mondo del porno hardcore, diventando insieme a Cicciolina una sorta di idolo femminile alternativo, costituendo un club di donne potenti ed emancipate, molto più vere e reali delle cricche composte dalle varie Naomi o Claudia.

Da tutto questo, forse dopo le esperienze cinematografiche di "Tutte le provocazioni di Moana" e "Buco Profondo", nasce il famoso Partito dell'Amore. Potrei sintetizzarvi questa favolosa esperienza politica in poche parole, che però lascio direttamente a Moana:


Il nesso è che in questi due minuti di video del 1993, che vi prego di guardare, Moana esorta tutti noi a pensare alla società e al bene comune. A parte l'elogio alla sessualità libera (non a caso partito dell'AMORE e non della salsiccia passita) esiste un progetto favoloso nella mente di Moana e degli ideatori del Partito dell'Amore: vivere in case che non siano mostri architettonici grigi e senz'anima, rispettare l'ambiente senza esaurirlo, proteggere i deboli e sconfiggere la criminalità organizzata, tutto questo facendolo rigorosamente INSIEME. 
Una sorta di Movimento 5 Stelle dove Beppe Grillo era in realtà Riccardo Schicchi.
Ma tutto era diverso, c'erano le spalline nei cappotti, le monetine da 100 lire buttate sulla testa di Craxi, Berlusconi ancora stava tranquillo a pettinare Ruud Gullit.
Purtroppo il Partito dell'Amore non ce la fece, Moana esortò a far confluire i voti dei tanti fedeli elettori nelle mani di un giovane capace e rampante: Francesco Rutelli (wikipedia mi conosce, wikipedia sa che io gongolo quando leggo certe cose.).



Moana è morta di cancro al fegato il 15 settembre 1994. Aveva solo 33 anni.
Con lei però non vengono sepolti i dubbi sulla sua salute, sulla sua presunta sieropositività (grazie ad un loquace Paolo Villaggio che negli ultimi anni si ha sviluppato la logorrea di Abe Simpson), sul figlio/fratello segreto Simone.
Tutto rimane lì, negli anni '90, in quella soffice bambagia tra prima e seconda repubblica, dove gli 883 cominciavano a muovere i primi passi, Berlusconi scendeva in campo, le spalline imbottite cominciavano a scendere e i cappotti, i foulard, i vestiti, cominciavano ad avere colori veri, vivi, si vedeva finalmente la sconfitta del color "cammello" per ogni tipo di giubbotto o maglione.

Mi manca Moana, manca la spontaneità e la voglia di sesso di quei tempi, la paura dell'alone viola ma la spensieratezza, manca anche, se vogliamo, il politicamente scorretto, il portare il sesso dove non si può, mentre adesso, in parlamento, al massimo entrano le scie chimiche.

Quindi, se vogliamo, ode a Moana, che nel 2017 non può nemmeno condividere il suo nome con un'eroina Disney, ode a Moana che purtroppo non può combattere contro Adinolfi, anche se forse potrebbe essere l'unica in questo deserto di codardi, a poterlo fare. Ode a Moana, al suo sorriso e alla sua vita.

Ma soprattutto, ode ai film di Moana. 
Sempre e comunque.

(Auguri Ars Moriendi!)

mercoledì 25 gennaio 2017

Il vento ci condurrà (alla morte)

Non so cosa mi abbia portato ieri mattina, ore 06.37, sulla pagina wikipedia di Bertrand Cantat, cantante storico dei Noir Désir.
Forse perché dopo 10 anni ho letto che riciccia fuori Manu Chao con un nuovo album e, sempre forse, mi sono chiesta che fine avesse fatto la mia gioventù.




(J'ai pas peure de la route
Faudrat voir, faut qu'on y goȗte
Des méandres au creux des reins
Et tout ira bien là
Le vent nous portera

Non ho più paura del cammino,
bisognerà vedere, bisognerà saggiare
i meandri più profondi di noi stessi.
E tutto andrà bene.
Il vento ci condurrà)

2003

Non riuscendo a trovare la mia gioventù, o le rovine di quel che fu, mi sono imbattuta in Bertrand Cantat che interpretava il classico cliché del rocker impegnato contro tutti i fascismi e le guerre, contro la corruzione della società e l'avanzata del capitalismo. Voglio dire, di Manu Chao ne avevamo già uno, checcazzo.
Mentre sgargarozzava la peggio vodka dei bar di Vilnius, una sera d'estate del 2003, tenta l'impossibile: diventare ancora più cagacazzo agli occhi di tutti ammazzando la fidanzata a mani nude.
Ci riesce.
Per ben 19 volte colpisce al volto la fidanzata, in preda all'alcool, alla gelosia, alla frenesia.
Marie Trintignant, la bellissima Marie, attrice sensualissima figlia di quel Jean-Louis che tanto amava il cinema italiano, muore dopo un'agonia durata 7 giorni.



(Ce parfum de nos années mortes
Ce qui peut frapper à te porte
Infinité de destins
On en pose un et qu'est-ce qu'on en retient?
Le vent l'emportera

Questo profumo dei nostri anni morti
che può bussare alla tua porta,
un'infinità di destini,
se se ne perde uno, poi, cosa ne rimane?
Il vento lo porterà via)

Bertrand, che di pugni se ne ricorda solo quattro, dopo averla picchiata la lascia lì, quasi morta, ad aspettare il suo triste destino, mentre lui se ne va impunemente a dormire.
La mattina porterà Marie in ospedale. 
Tutto troppo inutile.

Eppure anche gli idoli libertari francesi hanno i loro fan.
L'ex di Bert, Krisztina Rady, segue insieme a lui ogni fase del processo che lo vede incriminato per l'omicidio. In ballo c'è il destino del leader dei Noir Desir, del suo ex marito e, soprattutto, del padre dei suoi figli.

Cantat se la cava con otto anni di carcere, ne sconterà solo 4 nel carcere di Tolosa. 
Quattro come i pugni che ricorda, strana la numerologia.

Fine.
O no?

La scia di morte che accompagna Bertrand lo attende fuori.
I Noir Desir li ha uccisi lui quel 27 luglio del 2003 insieme a Marie, ma lui ancora non lo sa.
Forse non è detta l'ultima parola, si possono sempre raccogliere i cocci di un vaso, si può sempre tentare di rimetterli insieme. La voce gli trema, di nuovo, ma può ancora farcela.



(Pendant que la marée monte
Et que chacun refait ses comptes
J'emmène au creux de mon ombre
Des poussières de toi
Le vent les portera

Mentre la marea sale
ed ognuno si fa i suoi conti,
mi sposto nella cavità della mia ombra
polveri di te
Il vento le porterà con sé)

2010

Chissà perché tutto rema contro a Bertrand. 
Chissà cosa girava nella testa di Krisztina quando ha deciso d'impiccarsi. 
Chissà perché Bertrand era lì a dormire e non si è accorto di nulla.
Una donna morta, un'altra, lui in un'altra stanza a dormire, di nuovo. 
Il silenzio della notte, il rumore del vento.
È tutto finito questa volta, qualche maldestro tentativo per ritornare in quella società di cui si sentiva ispiratore d'ideali e che ora lo disprezza, si rompe in mille pezzi di fronte agli occhi delle donne che lo odiano, dei padri che lo disprezzano, dei musicisti che lo ripudiano.

Tout disparaȋtra mais
Le vent nous portera

Tutto si dissolverà, il vento ci porterà

Caro Bert, 
vorrei darti un abbraccio, ma avrei paura fosse l'ultimo che darei.
In ogni caso io, la mia gioventù, l'ho ritrovata, mi auguro che la ritrovi anche tu.

La lezione di oggi è: fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. Soprattutto di uno che suonava con Manu Chao.



martedì 17 gennaio 2017

I neomelodici, il gender e il matrimonio

Il matrimonio più bello a cui ho assistito è stato poco tempo fa, io ero testimone.
Cosa stana la vita.

Ripenso all'aria frizzante di metà settembre, alla compagnia, alla semplicità. Penso soprattutto all'amore che si respirava: quello meraviglioso, puro e scanzonato tra gli sposi e quello altrettanto meraviglioso, ma più fisico, tra me e i confetti al cocco.
Uno di quei matrimoni che ti fa venire voglia di sposarti cento volte al giorno, ti fa sospirare e pensare "chissà quando toccherà a me?", soprattutto "quando potrò scegliere le varietà di confetti?".

Uno specialista dei matrimoni era Don Antonio Polese, il "boss delle cerimonie", paladino del gender a sua insaputa per frasi come "sei propr' bell'" o "sei verament' grazioss'" riferito ad una sposa. Assoluto ambasciatore del neutro, dell'indefinito e del fluido: bell' o bellE, ricc' o ricche, sempre usati con persone sbagliate, generi diversi, un continuo mescolare di generi e sposi.




Quando se n'è andato, così, all'improvvis', tutt' noi ci siam' sentit' un po' pers' (gender parlando).
Don Antonio e il genero Matteo organizzavano i matrimoni napoletani, e campani in generale, più kitsch della storia. Un vero e proprio concentrato di tradizione partenopea mista a tatuaggi brutti di Padre Pio, corpetti e stecche su abiti per spose seducenti con corpi esuberanti, sposi di bianco vestiti con cilindri e bastoni gemmati e soprattutto cantanti neomelodici a perdita d'occhio.

Don Antonio era un uomo diversamente elegante, uno di quelli che portava camicie verdi di seta e occhiali anni '90 dalla montatura d'oro, correndo deliberatamente il rischio di sembrare il cugino ricco di Umberto Bossi. Il boss amava il barocco (da lui chiamato barocc', giustamente), gli stucchi dorati e valanghe di intonacature bianche su cui campeggiano improbabili scene bucoliche, putti e cieli dalle tinte violente stile capodanno "puttane e allucinogeni ad Amsterdam". 
Fuori dalla Sonrisa, lo sfarzoso abuso edilizio sogno di ogni bambina napoletana che s'immagina sposa, palme, bandiere di stati buttate a casaccio, pagode dai colori cangianti e fastidiosi, di nuovo palme, un enorme cancello in ferro battuto, una fontana con delfini saltanti e statue, tante statue, di tutti i tipi, dalla finta Venere di Milo all'arcangelo Michele truccato come Massimo Ranieri a teatro.

Chiunque varcasse quel cancello era, e tuttora è, in cerca di qualcosa di "esclusivo". Non conto le volte in cui dalla bocca rifatta di qualche mamma sia uscita la parola "esclusività", il matrimonio del rampollo o della principessina di casa deve sempre essere diverso da quello della figlia della vicina Concetta del quarto piano o del figlio della cugina di Castellammare. Rientrano nel concetto di "esclusività", nell'ordine:

- La carrozza: entrare in carrozza fa la differenza, si va dal calessino da festa paesana alla carrozza dorata stile Elisabetta II.
- Il banchetto per l'aperitivo: ostriche e champagne vanno bene, ma il top rimane sempre 'o pere 'o musso, ovvero il piede del maiale e il muso del vitello. Non sei nessuno senza.
- L'astice. Sempre. Anche se lo chiamano astRice.

- L'intrattenimento: imprescindibile l'accompagnamento musicale. Il mio preferito (e lo dico sul serio) è tal Mario Conte, cantante neomelodico della vecchia guardia che il boss ama molto perché quando canta sembra proprio di sentire "Massimo RanierE", che non credo sia associabile a "Massimo Ranieri", sta di fatto che appena comincia ad intonare "Se bruciasse la città" la sala esplode in una grande fazzolettata senza freni. Le ballerine brasiliane mezze nude sì, le sorelle/figlie/cugine che ballano vestite di domopack nì, le drag queen no.



-  I frutti di mare crudi. #cazzocenefregamuoriamodaeroi


Don Antonio ha sempre pensato a tutto, a concedere la carrozza reale, a fare uno sconto per l'astRice, a far correre alla Sonrisa il povero Mario Conte dopo la defezione di un neomelodico a caso rimasto imbottigliato nel traffico. 
Così, quando il boss è venuto a mancare, l'ultimo viaggio l'ha fatto dentro la sua Sala Reale, attorniato da camerieri, cuochi, amici, e parenti sotto i suoi lampadari d'oro e i suo soffitti stuccati, la bara aperta. Probabile segno della tanto decantata "esclusività".

Il mondo dopo il boss che mondo sarà?
Sarà un mondo con meno amore?
Sarà un mondo senza Mario Conte?

Io questo non lo so. 
In cuor mio spero sempre nei matrimoni, nella grande celebrazione dell'amore, nelle confettate infinite e nell'open bar.

Finché c'è vita c'è speranza. 
Finché ci sarà una bambina napoletana che sogna un vestito da sposa in tulle e corsetto steccato, ci sarà la Sonrisa.

Cente Anne di buon' salut' a tutti.






sabato 31 dicembre 2016

L'ultimo giorno della Morte

In tempi sospetti, ovvero il 31 dicembre dell'anno scorso, avevo pronosticato che il 2016 sarebbe stato un anno difficile, paragonandolo all'ascolto di un cd di Eros Ramazzotti.
In realtà è stato più simile allo stato d'animo che mi accompagna quando, per sbaglio, m'imbatto in un'intervista a Nek: curiosa morbosità unita a disgusto borghese.

Così oggi faccio un bilancio mortuario per voi che in tutti questi mesi mi avete guardato con occhi supplicanti ogni qualvolta Facebook v'informava del decesso del vip di turno.

"E' morto BOWIE! OSSANTODIO Fede, che dici?"
"Hai letto di Alan Rickman? Mamma mia, ho pianto per ORE, cioè Severus Piton? Bestiale cazzo!Fede, scrivici un pezzo dai"
"Oh, ma hai sentito di Rispoli?Guarda, è da ieri che son qui che consolo mia nonna, un dolore... oh ma, scrivici un pezzo"

La verità è che se non ho scritto molto a riguardo è perché "Ars Moriendi" non segue i rigidi diktat del mercato ma solo le paturnie del momento, il filo rosso dei ricordi, quello che si conosce.
Ma via, siccome considero il 2016 come l'anno del "adesso ti do un segnale forte di quello su cui dovresti concentrarti nella vita", vi do quello che volete. E mi costa. Scoprirete che per certi versi sono un vero proprio inganno.

DAVID BOWIE: non ho mai avuto o ascoltato un intero disco di Bowie. Potrei ascoltare un intero disco dei Carcass o l'intera discografia de 5ive, ma non ho mai dato una chance a Bowie. Questione di tempi: quando a 15 anni i miei amici ascoltavano i Nirvana io ascoltavo Bryan Adams che consideravo il TOP, quando poi a 21 ascoltai i Nirvana, esaltandomi come una scolaretta, i miei coetanei avevano già superato il Nu Metal e andavano verso la deriva Hip Hop. Quindi non avrei mai saputo cosa scrivere su Bowie per farvi felici, per me rimane  colui che duetta con Freddie Mercury in "Under Pressure". Vale?



ALAN RICKMAN: non scrivo nulla su Alan Rickman perché prima di essere il vostro amato Severus Piton è stato lo stracazzutissimo sceriffo di Nottingham in "Robin Hood - Principe dei ladri". E io ho ancora gli incubi sullo sceriffo di Nottingham. 

UMBERTO ECO e HARPER LEE: di per sé è già abbastanza significativo che siano morti lo stesso giorno.

NANCY REAGAN: le mogli vivono più dei loro mariti. E meglio.

PRINCE: vedi sopra "Bowie". Penso di conoscere solo "Kiss" meramente perché, mentre guardavo il video, mio padre laconicamente commentava: "Pensa a Prince quanta figa che ha a mano...".

RICCARDO GARRONE: e anche questo se lo semo levato dalle palle. (semicit.)

MUHAMMAD ALI: pensavo fosse già morto.

BUD SPENCER: dunque, quel che mi ricollega a Bud Spencer è un ricordo olfattivo non tanto piacevole: mia nonna che m'invita a partecipare ad una gara di peti mentre guardiamo "Lo chiamavano Trinità". Lei iniziava sempre per prima.

DARIO FO: "Federì, è morto Fo!" la collega mi guarda con gli occhi della disperazione.
La mia risposta: "Succede".

LEONARD COHEN: vedi sopra "Bowie". Sarei curiosa di fare un sondaggio: quanti di voi possiedono un cd di Leonard Cohen? Non vale la registrazione su cassetta di "Hallelujah". No, nemmeno quella di Jeff Buckley o la colonna sonora di "Shrek".

Ecco. Ora sapete che anche Ars Moriendi è affetto da una sorta di snobismo alla Lavinia Borromeo, anche se il più delle volte affronta il tema con la serena lucidità di Lapo Elkann.

Mi piacerebbe cullarvi nei ricordi piacevoli legati ad Anna Marchesini, di me sdraiata da bambina malata nel lettone della nonna mentre guardo "I Promessi Sposi" del Trio e rido in una penombra fredda e nuova, vorrei riportarvi in riva al mare con Karina Huff che si strugge per amore e io che mi struggo perché non sono bella quanto Karina Huff, vi sorbireste milioni di puntate di "Law and Order" insieme a me mentre Steven Hill sta seduto, solo e piccolo su un' enorme poltrona di pelle insieme a Jack Mcoy,  pensereste che sono pazza mentre osanno il genio di George Michael e del video di "Outside" o mentre lo guardo indossare quella giacca color salmone mentre canta "Somebody to love" in onore di chi la cantava poco meglio di lui.
Quella giacca color salmone che fu la piaga degli anni '90, che fu tratto distintivo di pochi altri come Alex Baroni che qualche settimana fa avrebbe compiuto 50 anni. Alex Baroni che è negli occhi e nelle canzoni di Giorgia da più o meno sempre, che quando sento un nuovo singolo di Giorgia piango di default perché tanto so che sarà solo un collage di ricordi strazianti uniti da un ritornello. Quel dolore fatto di lacrime giornaliere che non se ne vanno, che ti accompagnano sempre e chi logorano il cuore un pezzettino alla volta, fino a spezzartelo.



Perché il cuore e la mente si spezzano davanti ad un dolore così irreversibile. Lo sanno la principessa Leia Organa e sua madre Debbie Reynolds, ad esempio.

Perché la morte ti può anche lasciare indifferente. Come nel caso di qualche politico sopra le righe.


Ecco, questa è la morte nel 2016. 
O perlomeno, questo è quello che ci ha colpito della morte nel 2016: milioni di facce conosciute che all'improvviso se ne vanno, qualcosa d'immortale nelle nostre vite che si spegne e si rivela per quello che è, la facilità con cui proliferano battute come "è stato davvero il suo "Last Christmas"!", i nostri idoli che non sono altro che noi in versione "ce l'ho fatta".


La morte nel 2016 però dovrebbe avere gli occhi di Jo Cox e dell'odio, dovrebbe avere le gambe di chi non è riuscito a camminare fuori da Aleppo o a scappare dalla traiettoria di camion assassini, dovrebbe avere i polmoni pieni di acqua di chi ha provato a nuotare più forte senza essere alle Olimpiadi, dovrebbe avere la faccia piena di polvere di tutte le macerie delle case che crollano per le bombe o per i terremoti.


Intanto l'orologio corre verso il 2017, non vorrei chiudere questo post acida quanto una recensione della Murgia, quindi vi auguro un anno pieno di vita, gioia e soddisfazioni personali.

Per Ars Moriendi è stato un anno molto bello e per il 2017 vi prometto novità ancora più grandi. 
Non so se sperare che si ripeta la prolificità di quest'anno o meno. Facciamo un po' di meno, grazie.

Dedicato alla garbata presenza sulla terra di Luciano Rispoli.






mercoledì 16 novembre 2016

Un caffè pieno di morte

(Questa volta è un fallimento.
La Discover Weekly di Spotify ha toppato.
Come faccio a scrivere un pezzo con il mood alla "Love will tear us apart" dei Joy Division se poi mi parte "Non abbiamo bisogno di parole" di Ron?
Passi Jimmy Fontana, ma Francesco Renga? Ma chi ha mai ascoltato FRANCESCO RENGA?

Comunque, the show must go on, diceva quello.)

Oggi ho un po' l'umore à la Ned Stark, del tipo "l'inverno sta arrivando", non tanto per il freddo, ma per tutto questo gelo politico che riveste il nostro quotidiano. Tutto questo antitrumpismo, protrumpismo, prohillarismo, antihillarismo mi sta lentamente uccidendo. Nelle vetrine niente balocchi e ghirlande, solo poster per il NO e simpatiche faccine che dicono "basta un sì". Renzi è il Grinch che mi sta rubando il Natale. (nel frattempo mi sdraio a terra rotolando su me stessa, tappandomi le orecchie: FAUSTO LEALI  e MINA che cantano A CHI MI DICE dei BLUE nella MIA playlist. Comincio a pensare che ci sia qualcuno in casa mia che di nascosto ascolti roba di merda solo per poter confondere Spotify sui miei gusti.)

Io sono un animale politico, sono una pasionaria pigra ma infuocata, sono la sindacalista di me stessa, ma tutta questa aria pesante da dibattito politico tra sordi mi sta lentamente facendo scivolare nella classica apatia invernale condita da serie TV e totale isolamento dal genere umano. Così mi viene in mente il mio primo Death Cafe.

Il Death Cafe è un'occasione in cui perfetti sconosciuti, o quasi, s'incontrano per parlare di morte. 
Puro, semplice e con tanto di pasticcini.
Nessun tabù. Solo la voglia di confrontarsi su qualcosa che non siano le sorelle Kardashian, Trump e Killary o le nuove puntate di "Westworld".




Trovarsi in un circolo di persone che non la pensano come te su un argomento così vivo e reale ti fa sentire spesso fuori luogo. Prendiamo solo una delle domande di quella sera: vorreste essere immortali?

Ecco.

"Io mi sono sempre sentita immortale" dice l'infermiera con crocefisso al collo. "Mai stata incerta su questo aspetto, io SONO immortale. Attraverso la mia fede".

Ecco. La mia mente disegna istantaneamente Duncan McLeod che va a messa. Per l'eternità. 

"Io vorrei essere immortale, ma poi i miei cari morirebbero e io mi sentirei così male!"dice Morticia Cupiello, una signora napoletana che EVIDENTEMENTE ama i suoi cari, protagonisti indiscussi di tutti i suoi interventi serali.

"Beh, ma non è detto che sia immortale solo tu! Potresti vivere in una società d'immortali" interviene il moderatore, il professor Francesco Campione, psicologo, tanatologo e padrone di casa.
Silenzio.

Io provo ad immaginare un mondo del genere.

Infiniti post su Facebook delle stesse persone con cadenza regolare, ogni 10 minuti la bacheca piena di selfie con hashtag tipo #ByeByemorte!, pipponi politici di società che collassano scritti da cantanti disoccupati e hipster annoiati, quarantenni immortali.
QUARANTENNI IMMORTALI.
Tutto immobile, tutto in continuo cambiamento e disfacimento, psicosi dilagante, le stesse facce che si guardano per secoli. Ligabue che continua a fare concerti. Grillo che arringa folle sempre più immobili, "The Walking Dead" che passa le 200 stagioni consecutive. Tutti zombie che camminano.
Capodanni sempre più tristi, Carlo Conti che cambia mille vestiti da gran sera, trenini sempre più lenti.
Tutti affollati, uno spalla a spalla con l'altro, il divieto di fare figli (il che comunque ci risparmierebbe tutti i meme delle madri del tipo "Trovo così divertente ripensare a quando dicevo di essere stanca prima di avere figli". Sul serio, la fine di tutte le foto di bambini con appiccicato sulla faccia un emoticon sorridente per proteggere la loro baby privacy, la fine dei gruppi whatsapp sui gruppi preparto di cui le tue amiche non ne possono più, la fine dei battesimi. Che pace), un popolo di adulti annoiati da guerre che non fanno morti.
La vita eterna è sulla terra, e allora facciamola saltare in aria!
Milioni di testate nucleari cariche per farci esalare l'ultimo respiro radioattivo, il mondo che esplode e noi che galleggiamo nello spazio, condannati all'immortalità. 
Inseme a noi Biagio Antonacci.

Sudo, sudo tantissimo quando la domanda fa il giro e arriva a me.

"E tu? Tu vorresti essere immortale?"la domanda arriva liscia e tutti sorridono.
"No. Ma no. Da quando sono bambina so che c'è un inizio e una fine. Fin da quando guardavo gli alberi genealogici che tracciava mio padre, tutte le famiglie hanno un inizio e una fine. Alcune finiscono in un punto e continuano in altro. Alcuni rami si seccano, altri continuano ad intrecciarsi per secoli, ma tutto ha una fine. Non ho sorprese, tutti gli uomini e le donne del passato che ho studiato sono morti in una pagina o nell'altra. E va bene così, devo avere un inizio e devo avere una fine, nel mezzo farò quel che posso, lascerò un segno se avrò tempo altrimenti pazienza, arriverà la fine, e sarà bellissimo così. Io sono mortale, è l'unica certezza su cui baso la vita".

Sguardi di comprensioni, sorrisi, si va avanti a parlare.
Io sorseggio il mio bicchiere pieno di cola e ascolto.
Mangio un biscotto.
Scuoto la testa.
Vedo un ragazzo che prende appunti.
Non vorrei che finisse. 
Vorrei altri Death Cafe.

Intanto qui a casa mi avvolgo nel piumone e scrivo. 
Intanto su Spotify è arrivato Jimmy Fontana che canta "il Mondo". 
Vale la pena essere mortale e potersela godere solo un numero preciso di volte.

mercoledì 19 ottobre 2016

Pillole di morte: L'assaggio di quello che verrà

Questa sera parteciperò al mio primo Death Cafe.
Devo dire la verità, sono un po' emozionata.
Chissà cosa salterà fuori tra un pasticcino e un caffè, tra un singhiozzare di ricordi ed esperienze, chissà che ne sarà di me, come direbbe Muccino.

Beh, ovviamente preparerò un pezzo degno dell'esperienza, non come questo che vi propino oggi giusto per fidelizzarvi.

In tema di assaggi, cafè e quant'altro oggi vorrei parlarvi di quanto ancora mi stia drogando di serie TV di bassa qualità e quanto mi sia affezionata a "I Borgia", produzione di qualche anno fa con Jeremy Irons nella parte di papa Alessandro VI Borgia.
La cosa più presente oltre a tette, donne nude, tette, uomini nudi, gente che fa sesso, gente che spera di fare sesso, threesome con il papa e ancora una valanga di tette, è il veleno.
Tutti o quasi muoiono avvelenati e ancora Lucrezia Borgia non ha iniziato la sua tanto chiacchierata carriera da avvelenatrice: tutti bevono, mangiano, cominciano a tossire e cadono. Alcuni squirtano sangue dalle orbite. Una completa orgia di bava alla bocca, sudore e morte.

Quelli erano anni  croccanti dal punto di vista velenoso. Lasciate che vi racconti la storia del re Ladislao I di Napoli e del suo presunto avvelenamento.
Questo personaggio spettacolare, detto "il magnanimo" fu un vero e proprio condottiero destinato alla gloria. Ma ovviamente qualcuno non voleva proprio che Lady riuscisse nelle numerose imprese che lo vedevano affaccendato (rincorreva il sogno di unificare l'Italia sotto la sua corona, roba da nulla per un tipetto vissuto nel 1400) si decise quindi di avvelenarlo, una roba pulita secondo gli usi di quei tempi.
Siccome però parliamo di un re, parliamo di uno con uno stuolo di assaggiatori, guardie del corpo, cibi e bevande controllate, insomma, mica facile.
Ma per fortuna dei suoi nemici Ladislao amava una cosa che non divideva con nessuno: la figa.
Quindi voi cosa avreste fatto? Avreste per caso spalmato l'organo genitale di una ragazza con del veleno per poi buttarla tra le braccia del re? Eh? Vi sembra un'idea idiota? Beh, secondo le leggende andò proprio così.
Lady banchettò con il fiorellino della ragazza fino a stare male e a morirne, letteralmente.
Al ritorno a Napoli il giovane re morì. 
Ma noi storici lo sappiamo, mica morì avvelenato, probabilmente morì di una malattia infettiva alla prostata. Comunque se l'era beccata allo stesso modo, è che a noi aridi topi di biblioteca piace fantasticarci un po' sopra.




La pillola di oggi è: diventati abbastanza ricchi da noleggiare un assaggiatore e abbastanza timorati di Dio da non rischiare. Io sono povera e atea, vivrò di rischi.

mercoledì 21 settembre 2016

Il lutto del protagonista

Guardo un sacco di tv.
Tv.
Non solo telefilm (che adesso bisogna chiamare "serie tv" se no la gente pensa che tu stia guardando roba tipo "Walker Texas Ranger" o "Melrose Place"), guardo un casino di docureality, soprattutto sui grandi omicidi americani.
Funziona così, si parte con un paio d'inquadrature ad cazzum di casette e alberi/cespugli/fontane e poi bang! il bel cartello della classica cittadina americana tranquilla tipo "MACON - Georgia - Casa della gente perbene che va in chiesa e non va in giro ad ammazzare altra gente".
SEMPRE.
In sottofondo una voce bassa comincia a descrivere l'idilliaco posto che state vedendo.
"La cittadina di Macon, Georgia, è un luogo tranquillo, la gente perbene va in chiesa e nessuno si aspetta che il male si nasconda dietro una di quelle case".
SEMPRE. NESSUNO SI ASPETTA MAI UN CAZZO DI NIENTE. VABBE'.
Dicevamo, nessuno si aspetta che il vicino ad esempio sia un pedofilo assassino, nessuno si aspetta che "il tranquillo adolescente silenzioso" della casa in fondo alla via sia in realtà uno spietato torturatore di marmotte. Nessuno.
Poi però ci scatta il morto, di solito una ragazzina in bici.
Tra una ricostruzione e l'altra ci sono i vari testimoni, sbirri e familiari che parlano della vittima. Una cosa molto triste, soprattutto perché, a detta loro, NESSUNO SI ASPETTAVA CHE IL MALE BLA BLA BLA.
E io li guardo.
Sono stravolti dal dolore. Li vedi. Guardi il loro groppo in gola e ascolti bene le loro pause. Sono lì, anni di unghie conficcate nei palmi delle mani, pugni serrati nascosti nelle tasche dei cappotti, mascelle tirate e occhi assenti. il dolore e la rabbia di chi ha amato e perduto.
Ma sul momento?
Cosa succede quando il dolore è lì? Cosa prova il padre della bambina in bici quando gli dicono che la figlia è stata ritrovata in un cestino dell'immondizia?

Gli attori dei docureality sono di solito solo fantocci che recitano 4 frasi in croce, le bionde di solito fanno facce stranite tipo questa:



Gli uomini si limitano ad avere una birra in mano e allargare le braccia. Stop.
E quando la ferale notizia raggiunge i fantocci, loro scimmiottano facce al limite della decenza, i più scafati si coprono la faccia con le mani. Perché il dolore non è mica roba da tutti. Rendere vero il dolore è come riuscire a far ridere: non basta una cipolla per piangere o una battuta su Jennifer Aniston che esulta sulla fine dei Brangelina per far ridere.

Così, una volta abbandonata Macon in Georgia e i suoi fantocci che si dannano di dolore per la morte della bambina in bici, guardo cosa mi consiglia YouTube.

Ed eccola lì, un'altra roba strana, Julia Louis-Dreyfus che riceve un Emmy.
Non per l'Emmy, figuriamoci, io le darei le mie cornee se solo Julia me lo chiedesse.
E' per il discorso.

Parte in modo splendidamente irriverente, paragonando l'attuale stagione di "Veep", il telefilm in cui interpreta una totale imbecille che combinazione, è anche il vicepresidente degli USA, alla realtà, con chiaro riferimento a Donald Trump e al suo essere un cretino totale.
Poi le mani tremano, la voce si rompe, i singhiozzi partono. Il premio è dedicato al padre, scomparso venerdì.
Cioè, quel venerdì.
La reazione del pubblico è un "OHHHHHHHHH", a metà tra "povera cara..." e "MA CHE CAZZO CI FAI QUI AGLI EMMY CAZZO? IO STAREI ROTOLANDO SUL PAVIMENTO DI CASA BAGNATA DALLE MIE LACRIME!".

Ancora adesso, riguardandolo, non capisco se piango:

A) Per i miei ormoni
B) Per il dolore immenso che guida quelle mani, quegli occhi bassi e quella voce.
C) Per il totale smarrimento, per il mio guardarmi intorno e non capire come si faccia a vivere con quel dolore così grande e riuscire comunque ad essere lucidi e superiori al resto del genere umano (Julia, ti amerò sempre, forse anche di più dopo tutto questo)

Il dolore per la dipartita di un proprio caro forse varia a seconda del modo in cui il caro se ne va.
La mamma del piccolo Tommy (ve lo ricordate? Quel bambino di 18 mesi rapito nel 2006 a Parma e trovato morto dopo qualche mese?) dice in un altro di questi stramaledetti docureality, che non appena qualcuno che non ricordo le disse che avevano trovato suo figlio morto lei aveva perso i sensi, stramazzata al suolo e incapace di ricordare qualsiasi cosa nei giorni seguenti.
Se invece il proprio caro muore dopo una lunga battaglia con un male terribile, allora il dolore si trasforma in agonia del ricordo, per cui due giorni dopo la sua morte fa male il pensiero che ormai sia tutto un ricordo, che il dolore, fisico o mentale, sia volato via, che a far male sia rimasto solo il dover ricordare e non poterlo più vivere.

A scrivere tutto ciò mi sento come Carrie Bradshaw mentre si faceva tutte quelle domande cretine sui single tipo: "Quando le cose sono troppo facili siamo portati a sospettare. Devono diventare complicate prima che possiamo crederle reali? Ci serve il dramma per far funzionare una relazione?o merda del genere.

Una roba tipo "Death and the city".

La lezione del giorno è che gli attori fingono bene, ma la tremarella alle mani ti tradirà sempre, sia nel dolore più profondo sia mentre leggi un discorso al matrimonio del tuo miglior amico. L'emozione fa parlare le mani.
Che è una delle scuse più usate da quelli accusati di aggressione, per dire.