martedì 5 marzo 2019

Di tutti, proprio Dylan.

Tutto quello che vorrei scrivere è un laconico quanto arrogante "voi non potete capire".
In un certo senso è proprio così, voi non sapete che ruolo ha avuto Luke Perry nella mia disastratissima vita bucata.

Iniziamo dalla fine: 04 marzo 2019.
Oltre alla leggera nausea che mi accompagna quotidianamente quando mi reco al lavoro, oggi sento anche odore di guai. Sono troppo ottimista, i miei capelli troppo lunghi e morbidi, il sole già alto e spavaldo alle 06:50, qui c'è qualche casino all'orizzonte.
Tutto fila liscio fin quando non becco la mia collega nei corridoi del centro medico.
Mi guarda.
La guardo.
Sorridiamo.
Lei dice: "sai che è morto..."
A me si blocca il cuore
Lei riparte: "... il cantante dei Prodigy?"
Vaffanculo Daniela, vaffanculo. Dire queste cose mentre c'è Luke Perry vicino al baratro... Non si fa.
Somatizzo per un attimo, metabolizzo la notizia, con la mente fumo mille sigarette come facevo mentre nei peggiori posti che io abbia mai frequentato partiva "Breathe" o "Firestarter".
Tutto va bene. 

Capodanno 2000equalcosa, tombolata di fine anno.
Tutti pronti per la tombolata con premi orrendi. Io vinco a ripetizione lo stesso libro di Bill Gates su Bill Gates, vorrei barattare la mia vita in cambio di qualsiasi cosa piuttosto che avere quel maledetto volume tra i miei premi. All'improvviso un'anima pia e meravigliosa mi dona una T-shirt che illumina la mia vita e l'anno che sta per nascere: la maglietta ha sopra la faccia di Luke Perry, viene diretta dal fan club di Los Angeles e dall'anno 1992. Piango. Non me ne separerò mai. Sopravviverà a due traslochi, alle tarme e alle unghie del gatto. Sopravviverà anche a Luke stesso, ma io non potrò saperlo.


Data indefinita, forse 2001, io di ritorno dall'università.
Sono stanca e affamata, sono abbastanza traumatizzata dal fatto che io abbia iniziato un corso sulla conservazione dei beni culturali in quel di Ravenna, che in quanto a vitalità non batte per poco Silent Hill. Sto per raggiungere la cucina, con la punta del piede sinistro mi sono levata la scarpa destra, ho buttato da qualche parte il cappotto e ancor prima di aprire la porta della cucina accendo la tv. Mi appare Luke in una puntata di Beverly Hills 90210, non una di quelle vecchie, no, qui Dylan è all'università: viviamo insieme la sventura di essere matricole, in più lui deve pure sopportare Steve, il che mi sembra eroico in confronto all'ora di treno che mi devo sciroppare ogni mattina. Ed è arrapante come al solito. Dylan non Steve, OVVIAMENTE.
Ecco, non so se fosse la visione celestiale, la fame o la mestizia del pensiero di dover tornare a Ravenna per i prossimi millemila anni, fatto sta che crollo per terra all'istante come una pera cotta, svenuta. In 36 anni di vita ho sempre attribuito questo mio unico svenimento a Luke, a nient'altro. E voglio che rimanga così. Forse fu quello svenimento a farmi capire che Ravenna non faceva per me.

Una mattina qualsiasi, 1993, scuola.
Mi manca solo la testa di quel maledetto secchione con la voce nasale di Brandon e il culone di Andrea Zuckerman per finire l'album di figurine di "Beverly Hills 90210". Di Dylan le ho tutte, mi sono tenuta anche le doppie. Quelle non le darò MAI via, magari alla prima Brandon Lover che capita. Le conservo, le mie teste di Dylan, le guardo. Non mi lasciano nemmeno durante l'adolescenza. Dylan è il primo vero uomo che vedo, che mi piace, di cui mi innamoro. Non è di cartone come André di Lady Oscar, no Dylan è vero e il suo personaggio ha solo poche cadute di stile: farsi Kelly e smettere di bere. Non ho mai trovato il mio Dylan, ma l'ho sempre cercato. In compenso ho collezionato una serie notevole di Brandon e qualche Steve.

Una sera qualsiasi, 1993, casa mia.
Mia sorella si sta preparando per uscire, io sono sul lettone dei miei, sfoglio distratta una copia di "Glamour" ovviamente non mia. Che giornale di merda, solo vestiti, donne, nemmeno una foto di Dylan. Che voglio dire, Dylan è di sicuro il più figo di tutto il 1992 e del 1993, dovrebbe stare su tutti i giornali. Ma su quel cazzo di "Glamour" no. Mentre mia sorella se ne va io sono sovraeccitata: quella sera io e mio padre registriamo una puntata di "Beverly Hills 90210". Non che a lui freghi qualcosa, lui vuole solo capire come usare quell'aggeggio maledetto, io invece voglio fare quello che le ragazzine di 10 anni fanno più spesso: guardare mille volte le cose che amano fino a conoscerle a memoria. E quella è la puntata in cui Kelly e Brenda hanno lo stesso, splendido, vestito. La prima volta di Brenda e Dylan. Quella è LA puntata. E la ricordo a memoria.

Vita di merda, ci stai provando, te ne do atto.
Stai provando a togliermi la mia gioventù e il mio futuro frustandomi nel presente.
Hai portato via Luke, il mio tormentato Dylan, quello che non riusciva ad essere ridicolo recitando la parte di un ragazzo cool, il mio ornitologo gay in "Will e Grace", il mio Fred Andrews in "Riverdale"che mi ha fatto tanta compagnia durante la mia convalescenza post protesi. "Riverdale"... dove ti sparano proprio nell'ultima puntata della prima serie e io a momenti piango come una fontana.
Non ci sei riuscita, vita di merda, e adesso mi hai colpito dove fa più male, nei miei ricordi, nel primo amore ancor prima che sapessi quanto facesse schifo l'amore. Hai colpito nella devozione, nell'affetto esclusivo e impalpabile per qualcuno che non si conosce ma che si ama, hai colpito nel sogno e nell'ideale.

Ma non te la darò vinta nemmeno stavolta. Anche se fa più male.
La lezione di oggi è: ama quello che eri, ama quello che amavi e che non ti ha mai deluso o fatto male. Almeno per un giorno, quando sei triste. Non abbandonare i tuoi sogni, di carne e ossa o di puro spirito.
E ora scusate, ma glielo devo.

"Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono,
fate tacere il cane con un osso succulento,
chiudete i pianoforti e fra un rullio smorzato
portate fuori il feretro, si accostino i dolenti.
Incrocino gli aereoplani lassù
e scrivano sul cielo il messaggio lui è morto,
allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni,
i vigili si mettano i guanti di tela nera.
Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed il mio Ovest,
la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,
il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto;
pensavo che l’amore fosse eterno: avevo torto.
Non servono più le stelle: spegnetele anche tutte;
imballate la luna, smontate pure il sole;
svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco;
perché ormai nulla può giovare."

Addio Luke.

martedì 19 febbraio 2019

In morte del Re Karl

E così è arrivato a romperci le palle anche il 2019.
Eh sì, la mia lunga tradizione di anni imperfetti, sgradevoli e lunghi come i piedi di Paris Hilton continua inesorabile.
Mentre, quindi, nel grafico Foxiano "LAVORO/AMORE/FORTUNA" scendo in picchiata tipo carriera dei Gazosa, si respira un'aria primaverile deliziosa, piena di profumo di fiori e speranze da buttare nel cesso.
Sappiamo benissimo che l'aria bagnata di primavera ci può stordire gli ormoni, farci sentire innamorati e leggeri, artistoidi e ispirati. Ecco il perché di Sanremo e altre menate varie.
E dove sentirsi inebriati di arte e ormoni se non a Parigi?
Forse fu questo pensiero a muovere un quattordicenne di nome Karl Otto Lagerfeld da Amburgo a Parigi benedetto solo di grande spirito e un paio di buone parole d'incoraggiamento da parte dei genitori.

La carriera di Lagerfeld è stata strepitosa, a tratti rivoluzionaria e salvifica.
Dobbiamo a lui se la modernità è entrata a casa Chloé, a lui si deve la resurrezione di Chanel.

Oh Karl, lo abbiamo capito tutti che te ne stavi per andare, le ultime sfilate erano un inno al disperato attaccamento alla vita, sfilavano i colori e la gioia intervallati da lunghezze inconcepibili e abiti di mia Zia Franca, fiori e tristezza, un lungo addio che mi commuove mentre scrivo.

Penso a tutte le tue meravigliose sarte che ti piangeranno discrete e belle come solo le francesi sanno essere. Penso alla tua gatta Choupette che, mannaggia al cazzo, erediterà i tuoi averi. Penso ad un film dove sei interpretato da Rami Malek.

Oh Dio Karl, quanto ci mancheranno i tuoi guanti, i tuoi occhiali schermati e quei tuoi capelli bianchi, quei pantaloni stretti da morire, quelle mille catene, quelle lacrime che non ti abbiamo visto ma che abbiamo sentito nella tua voce.

Anche se sono cicciona come Adele, che hai bacchettato per il suo essere "giusto un po' grassa", non posso non pensarti con affetto. Di sicuro tu e gli altri, (per fare due nomi: Giambattista, Mario, Giorgio (anche se ultimamente si è rincoglionito) e Vivienne) mi avete colorato questi anni, in particolare questi ultimi scampoli di fallimento che ho vissuto e che sono culminati ieri in una surreale "riunione" con alcune teste pensanti che mi hanno detto che dovrei tenere un atteggiamento più "URBANO", manco fossi una scimmia urlante che getta escrementi in faccia ai clienti o un collezione di Diesel.

Ah, che giornate poco di classe, senza stile e grigie ci aspettano.
Ma per poco.
Tornerà la primavera anche da Chanel.
E sì, tornerà pure nella mia vita. Anche se adesso mi sento spurita e piccola come Édith Piaf.

La lezione di oggi è: vivi con stili, vivi per realizzare quello in cui credi semplicemente vivi. Nel modo più parigino possibile.

lunedì 26 novembre 2018

Di gatti, lutti e momenti bui

Novembre quasi agli sgoccioli.
L'ultimo Ars è di gennaio ed è buio come gli ultimi momenti di Dolores O'Riordan.
Spotify mi sta sparando nelle orecchie "Everybody Hurts". 
E' una domenica di merda come le altre mille già passate, in TV la maratona de "La Signora in giallo", il bucato è steso e puzza d'umidità e Lenor alla vaniglia, il te nella tazza è finito.

Ars Moriendi si è preso numerosi mesi di pausa per altrettanti numerosi motivi che ora vi spiego.

Il primo di questi motivi riguarda la mia anca.

Siccome non sono una persona particolarmente veloce per quanto riguarda l'adattarsi agli eventi naturali della vita come le gravidanze, l'organizzazione dei matrimoni o le inumazioni dei parenti, quando il chirurgo a fine gennaio mi ha informato del fatto che dovesse impiantarmi una protesi nell'anca mi sono immobilizzata come quelle capre che si fingono morte e si irrigidiscono e si buttano a terra. Una fottutissima capra immobile, nel corpo e nella mente.

A questo momento caprino si uniscono i motivi due e tre: le visite organizzate con So.Crem e la continua lotta per la sopravvivenza nei Centri Medici MioMiniPony dove lavoro.

Qualcosa e qualcuno doveva per forza essere messo da parte per permettere al mio essere capra di arrivare al giorno della mia operazione e superarlo senza traumi eccessivi.
E se per voi queste sono normali attività, priorità nella vita, per me aver messo in stand by amici e altro è stato complicato: parlando del blog, mi sono sentita come una di quelle madri che affidano il proprio figlio a qualche parente perché sanno che la loro vita va a pezzi e qualcuno devono pure salvare e mentre lo salutano, forse per l'ultima volta, gli dicono "Non preoccuparti, andrà tutto bene". 
Ecco, questa sono io mentre apro e chiudo il laptop con le lacrime perché so cosa scrivere ma non mi viene, non ora che sono così occupata a sopravvivere, che per me una protesi all'anca è invasiva come un triplo bypass coronarico (ho sempre saputo di essere una diva consumata, una Drama Queen con tanto di piume e lustrini).

Il quarto motivo è banale: mi sono comprata casa e per un mese Vodafone e la sua connessione sono state più irreperibili di Ylenia Carrisi. 

Il quinto motivo per cui non mi decidevo a riprendermi il mio bambino, la mia voce, è che il mio rapporto con la morte sta cambiando, io sto cambiando.
E la parola "cambiamento" non è sempre una parola facile da digerire (usiamola in una frase da brivido: "Quanto è bello questo governo del cambiamento!" notate quanto risulti sinistra come parola?) bisogna capire che strada si sta prendendo e puttanate new age varie fino a quando non scatta la voglia di riprenderti quello che hai abbandonato e vederlo crescere, magari diversamente da com'era nato, da quello che avevi pensato, dal suo originario scopo di sollazzo nella disoccupazione nera.

Così, dopo che Ars Moriendi si è sparato un letargo di dieci mesi, eccoci qui pronti a sgranchirci le zampe e tornare a ragionare, ridere e soprattutto piangere come se steste guardando una puntata qualsiasi di "Un medico in famiglia".

Il primo Ars Moriendi di questa nuova, complicatissima, estenuante fase della mia vita è dedicato ad un gatto.

Proprio una settimana fa Gino, gatto elevato a monarca di San Giovanni in Persiceto, meraviglioso paesino della bassa emiliana che amo molto, veniva investito nel buio e nel freddo delle strade novembrine. 
Ora dovete sapere che la pagina Facebook dedicata a Gino e alle sue regali gesta raccoglie quasi 10.000 persone. 
Tra quelle 10.000 persone ci sono anche io, e sabato scorso, mentre stavo rannicchiata sul mio lato del divano, quello vicino al termosifone, vengo fulminata dalla notizia dell'incidente di Gino.
Ho pianto e scritto messaggi a tutti quelli che lo conoscevano, ho messo like ad ogni foto, ad ogni testimonianza d'affetto per quell'adorabile felino. Ho avuto un crollo emotivo incontrollabile su ogni autobus pensando a cosa mai avrei potuto fare senza il mio gatto Vincent, quello a cui, nei momenti di incertezza e solitudine profonda dico "Sei il mio migliore amicooooo", quasi sempre reggendo un bicchiere di vino in mano, con gli occhi pieni di lacrime, mentre lui se ne sta lì a leccarsi le parti intime. Ho tentato anche di stringerlo, ma le sue unghie conficcate nel mio collo mi hanno fatto capire che forse non era il momento adatto per le smancerie.

Gino era uno di quei gatti liberi di vivere la propria città proprio come un re a cui si spalancano luoghi talvolta inaccessibili ai comuni mortali. La città si stringeva attorno al pelo color cipria di un gatto che incantava i bambini e rendeva gli adulti più vivi e compassionevoli. Ormai è passata una settimana e il dolore della gente di San Giovani ancora non si è esaurito.

Anche se speravo di non sentirla o leggerla da nessuna parte, qualcuno ha sussurrato la frase "ma è solo un gatto". 
Gino era un gatto, ma non era solo quello. Era un collante, una storia, una risata sulla faccia di qualcuno che non ride mai. Gino era un gatto che faceva quello che volevamo fare noi: vivere libero e gironzolare per la città amato da tutti, salutato come un vero re (io personalmente gli invidiavo i pisolini nella vetrina della farmacia). Gino era un gatto, era il gatto di qualcuno che lo amava ed era il gatto di tutti, era il paladino dei meno fortunati e il simbolo di una città. 
Gino era solo un gatto ma non un gatto solo.

Bisogna che Ars Moriendi ricominci a vivere e solo un gatto con le sue sette vite può aiutarlo donandogliene una.

La lezione di oggi è che non dovete giudicare la morte dal colore o dal pelo di chi muore, ma da quello che lascia dietro di se.



venerdì 19 gennaio 2018

Sii te stesso lungo la strada - Dolores O'Riordan (1971-2018)

Anno nuovo vita nuova, mi ripeto da lunedì.
Come al solito continuo a ripetermi sempre la stessa bugia.

Lunedì me ne stavo raggomitolata nel mio privatissimo angolo di divano quando, senza nessun tipo di preavviso, un enorme macigno emotivo mi squarcia l'anima . Quel macigno ha le sembianze di Repubblica.it: "Morta Dolores O'Riordan dei Cranberries".
Deglutisco.
Corro su Spotify e cerco "Ordinary Day", non so perché proprio "Ordinary Day", ma so che voglio QUELLA canzone in quel momento preciso della mia vita. Prevedibilmente inizio a piangere come se avessi perso ogni speranza nel mondo. 




E io le speranze le avevo perse tutte nel maggio del 1999.
Il Parma calcio aveva appena vinto Coppa Italia e Coppa Uefa, io avevo festeggiato con i miei compagni di classe a suon di cioccolatini e spumante. Non avevo nemmeno compiuto 17 anni ma ero già in un vortice di solitudine e depressione, ansia e tachicardia. Ma nessuno, nessuno al mondo, avrebbe mai potuto dirlo, nessuno avrebbe mai pensato "Dio santo Federica com'è depressa", mai nessuno avrebbe potuto, io per prima gli avrei vietato di pensarlo.

Sì, prima di qualsiasi fidanzatino eroinomane e violento, prima di qualsiasi relazione contorta e malata, prima di ogni litigio furibondo con amici e presunti tali, prima di ogni disturbo alimentare e compatimento vario, prima c'è stato il mostro nero. Forse c'è ancora, qualche notte.
Tutto iniziò allora, nel 1999, quando mi trovai sola davanti ad un'estate desolata.

Mi ritrovai tra le mani "Bury the Hatchet" quasi per caso. A ripensarci non ricordo nemmeno il perché mi venne mai in mente di comprarmi quello stramaledetto cd, so solo che lo ascoltai talmente tanto da consumarlo, da staccargli la copertina e da buttarlo nel posto più nascosto della mia camera pur di non riascoltare più la mia depressione, il mio mostro nero.

Così lunedì ho pensato a Dolores che mi aveva accompagnato, mano nella mano, in mezzo a quel momento nascosto della mia adolescenza, quando non potevo e non volevo dire a nessuno che dentro mi sentivo divorare da un mostro. 
E mi sono sentita una merda, una vera amica di merda, a non aver mai saputo che anche lei viveva con quell'enorme mostro dentro. Pensavo seriamente che l'unica sfiga seria fosse stato il duetto con Giuliano Sangiorgi dei Negramaro.
Così ho imparato, troppo tardi, della sua depressione, del suo disturbo bipolare che le aveva fatto urlare in un aeroporto irlandese "IO SONO LA FOTTUTA REGINA DI LIMERICK!"e che forse, in un momento diverso, mi avrebbe fatto ridere mentre bevevo una pinta di  Harp alla sua salute.


La verità è che quando convivi con la depressione, ogni cosa che scrivi, che pensi, che canti, anche solo una canzone che pensi per tua figlia, ti esce come se dovessi scongiurare l'abisso e i toni si tingono di blu scuro. 
Prendete "Ordinary Day", la canzone da cui sono partita e che nemmeno era inclusa nello stramaledetto "Bury th Hatchet": la canzone è dedicata alla figlia ma le strofe, anche se semplici e dolci, sono avvolte da una nebbia di paura e angoscia: "i can see that the darkness will erode"ovvero "riesco a vedere che l'oscurità ti divorerà" non è proprio una frase che lascerei a mia figlia.




Mentre le persone si arrovellano a pensare come Dolores sia passata dall'altra parte, io voglio solo citare qualche parola del bell'articolo di Giulio Cavalli sul mostro nero chiamato depressione, apparso su Left (leggetevi l'articolo intero: https://left.it/2018/01/18/come-ci-deprime-scrivere-di-depressione/):

"Il divo fragile da appena morto, come il collega o il famigliare o il vicino di casa, è una storia da negare perché portatrice di sventura e foriera di ingrigiti sentimenti e così la negazione della malattia (che è il primo e più grande errore di chi depresso lo è davvero) viene alimentata ancor di più dalla postura generale [...]
Farebbe bene a tutti, in fondo. Farebbe bene anche a me, che lì in fondo ci sono stato, e ogni volta mi ricordo di chi mi ammonì di non dirlo, di non scriverlo, perché “non porta bene”. E invece sarebbe bellissimo raccontare che poi tornano i colori."

Io non so se poi i colori tornano sul serio, magari torneranno sbiaditi come dopo un lavaggio sbagliato o forse brilleranno molto più di prima. La verità è che molte volte il mostro ci impedisce di vederli bene quei colori, confusi come sono dalle nostre lacrime perennemente appese nell'angolo dei nostri occhi.

"I can see that the sunshine will explode
Far across the desert in the sky
[...]
Life is more intricate that it seems
Always be yourself along the way
Living through the spirit of your dreams
[...]
I'll never let you down, won't let you down"

"Riesco a vedere che lo splendore esploderà 
Lontano attraverso il deserto nel cielo
[...]
La vita è più intricata di quanto sembri
Sii sempre te stessa lungo la strada
Vivendo attraverso lo spirito dei tuoi sogni
[...]
Non ti deluderò mai, non ti deluderò"

Ordinary Day - Dolores O'Riordan

mercoledì 20 dicembre 2017

Pillole di morte: il pranzo di Natale

Una donna del Kent, a Natale, mangerà le ceneri della madre.
Stop.

Siete su pillole di morte, short concept di Ars Moriendi, concepito apposta per essere con voi scrivendo poco ma pensandovi un sacco.

Dicevamo, una donna del Kent mangerà le ceneri della madre a Natale.
Sì.
E noi che stiamo ancora a disquisire su agnolotti e tortellini quando il futuro è davanti ai nostri occhi:


La cara Debra del Kent ha perso la mamma a maggio, all'improvviso, e da allora non si è più ripresa. Si è portata a casa le ceneri della mamma e ha meditato sul da farsi. Perché spargerle in un luogo pittoresco quando puoi tenerle dentro una busta di plastica da sandwich vicino al tuo letto? E perché non intingere un dito in quel soffice mucchio di ricordi per assaggiare un po' di nostalgia?

Debra ha annunciato che spargerà quel che rimane di sua madre sul tacchino e sul pudding natalizio, tutto con la complicità del fidanzato (devo ripetere a me stessa che non mi devo più stupire di certe cose) e della sorella, che le ha ceduto la sua parte di "mamma" non appena saputo del vizietto.

Cari voi, qualsiasi lutto abbiate affrontato o stiate affrontando, per quanto grande sarà il vuoto che lascerà nella vostra vita, non mangiate le ceneri di nessuno per nessun motivo.
E, soprattutto, non fatevi fotografare mentre lo fate.

Per l'articolo intero vi rimando a:http://www.mirror.co.uk/news/uk-news/i-eat-mum-christmas-day-11706456 altrimenti domani lo troverete postato nella pagina Facebook di Ars Moriendi.

Buone feste a tutti.
Anche a te Debra del Kent.

giovedì 19 ottobre 2017

Le strade di Pontypridd

Mi sa che ormai l'avrete capito, qui si parla di tutti i tipi di morte, mica solo di funerali, telegrammi di condoglianze o di mia madre che mi spinge a toccare i morti alle veglie funebri.
Oggi, miei cari fans, voglio raccontarvi di quando la tua città decide che per lei sei morto e stramorto.
Voglio parlarvi dei Lostprophets e di Pontypridd.

Solo noi trentacinquenni imbruttiti dal tempo possiamo ricordare con gli occhi lucidi i nostri vent'anni passati tra penosi locali rock di periferia e pub dove bere birra scadente in bicchieri di vetro scheggiato. 
Solo noi ex ragazze ribelli ricordiamo i pantaloni larghi, i capelli piastrati, le cravatte e le linguacce alla Avril Lavigne.
Ricordo una marea di sigarette, il mio DJ preferito, i Linkin Park, le mie amiche che rimorchiano e io che sto in canotta rosa fuori dal locale alle 2 del mattino di un febbraio qualunque di un anno imprecisato tra il 2000 e il 2006, seduta sui gradini di acciaio della scala antincendio a farmi milioni di seghe mentali sul perché l'ennesimo tipo che mi piace sia un fallito psicopatico.
Che meravigliosi anni di merda, quelli.

Comunque all'epoca compravo "Rocksound" (lo so che la mia già scarsa popolarità sta colando a picco, ne sono consapevole) un giornaletto con un sacco di articoli che non ho mai letto veramente su band orribili che suonavano Nu Metal. Ogni mese comunque c'era in allegato l'imperdibile cd con le hit del momento, un concentrato di putridume ad alti livelli con alcuni, rarissimi, diamanti grezzi.
Fu in uno di quei maledetti cd che scovai i Lostprophets.
Ancora adesso non so se classificarli come "putridume" o "diamanti grezzi". Propenderei per la prima.

In quegli anni il Nu Metal devastava le nostre giovani vite trascinandoci sull'orlo della rabbia e dell'insoddisfazione più cupa, testi in cui si sfogava il dolore di essere soli, isolati, reietti, non capiti, falliti in un mondo di vincenti. Tipo un pomeriggio con mia madre o un'estate passata a Vedegheto, per capirci.
I Lostprophets erano uno dei tanti gruppi che giravano in radio e che passava il mio DJ preferito mentre io ingurgitavo vodka tonic guardando in loop le puntate de "La Pantera Rosa" che giravano silenziose sugli schermi di quel locale rockettaro della bassa di San Lazzaro.

Le strade di Pontypridd
Pontypridd è una città del Galles. Ci sono nate un sacco di persone importanti, Tom Jones, ad esempio o anche Phil Campbell dei Mötorhead, per dire. 
E i Lostprophets si sono formati proprio lì, tra quelle strade dove prima schioccava le dita Tom Jones.
A Pontypridd, alla comunità e ad un sacco di gente parve una bella idea lastricare le strade della città con i versi di alcune canzoni dei Lostprophets, roba tipo "everytime i walk these streets i know they're mine"(il fatto che il Nu Metal fosse una roba pretenziosa lo capivi già dal nome. NU. perché NEW è da vecchi matusa.).

Purtroppo però Ian Watkins, cantante e leader dei Lostprophets, non è proprio un cittadino modello.
Ian ha molestato sessualmente un sacco di bambini, alcuni non arrivavano nemmeno ai due anni compiuti. E, a quanto pare, continua a farlo anche dalla cella in cui si trova e dove dovrà restare per altri 30 anni abbondanti, circuendo via posta giovani madri fan del gruppo. Guardando il video di "A town called Hypocrisy" mi vengono i brividi.




Così Pontypridd ha deciso di cancellare il ricordo dei Lostprophets e di sradicare dal pavimento stradale le parole di Watkins, un chiarissimo messaggio, del tipo "tu per noi sei morto, anzi, non sei mai esistito".

Il mio DJ preferito vota 5 stelle.
Il locale rockettaro a San Lazzaro ha cambiato pelle e ora fanno serate con balli latinoamericani.
Le mie amiche sono tutte sistemate.
Nessuna di noi ascolta più Nu Metal.
Anche per noi Ian Watkins è morto e stramorto.

La lezione di oggi è che devi essere sempre all'altezza delle strade su cui cammini, o loro cancelleranno i tuoi passi.



martedì 4 luglio 2017

Lo scemo del Villaggio

Sono una persona con la testa perennemente tra le nuvole. A volte guardo la mia vita con un tale distacco da sentirmi qualcun'altro. M'immagino spesso in luoghi leziosi, rosa, geometrici e spumosi.
Io m'immagino di vivere in un film di Wes Anderson, di essere uno dei suoi personaggi, penso di essere uscita da un libro di favole norvegesi, per dire.
Ma no. Non è proprio così. Prima sento un rumore stridulo di freni, poi apro gli occhi. 
E quando lo faccio mi trovo crocefissa in sala mensa.
Io vivo dentro una costante replica di Fantozzi.
Da sempre.


Non sono solo Fantozzi, io, no, sono anche Paolo Villaggio, a volte. 
Sono Paolo Villaggio che scrive il testo di "Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers" e che dopo deve recitare 100 volte la scena in cui Fantozzi si proclama "Azzurro di sci". 
Sono Paolo Villaggio iscritto al partito comunista e un novello Folagra che si batte a suon di bestemmie smozzicate per il benessere dei colleghi in una ditta dove i Balabam e i Cobram sono insagomati in jeans e camicie strette, sono sempre inattaccabili, inaccessibili, intoccabili, ma adesso hanno il puzzo di un profumo da quatto soldi e vogliono che tu consideri la tua ditta come la tua casa o la tua famiglia, ti vogliono sorridente e sempre, sempre di più, scattante e sportivo.

Sono il Filini che prova ad organizzare feste, ritrovi improbabili districandomi tra obblighi e piaceri; dopo un paio di Brunella Pallor scompaio in un vortice di stanchezza e ombre di bagordi. Ho la sindrome da scema del villaggio: sempre connessa, sempre proattiva, finta ingenua ma che casca prontamente nelle trappole di chi mi vuole disponibile a tutto, sempre.

Appena ho saputo della morte di Paolo Villaggio ho esclamato un "era ora!", probabilmente lo esclamerei ancora mille volte, lì, avviluppata tra le lenzuola, con la testa sprofondata nel cuscino, con il cuore in gola nel sentire "E' morto..."aspettandomi il peggio, aspettandomi di dover indossare un brutto vestito e chiedere un cambio al lavoro.
Invece era tutto lì, è solo morto Paolo Villaggio, uno che sapeva bene che alla fine sarebbe morto, uno che aveva perfino invitato Napolitano al suo funerale.




Soprattutto è morto uno che capiva bene quanto vicina potesse essere la morte.  
Si scherza su tutto, anche sulla morte, soprattutto da ragazzi, soprattutto con gli amici. Ma non  si scherza con la morte, non si scherza con i tuoi amici se con lei ci vivono.
Con Faber non ci poteva più scherzare come facevano da giovani guasconi più simili a Carlo Martello che a Fantozzi e Filini, sempre in piedi, sempre in giro a far cazzate e a vivere.

No, si chiude tutto, ci si saluta in silenzio.

"Era ora!". 
Liberatorio come quel "per me, la Corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca".
Negli ultimi anni Paolo Villaggio era finito a fare la caricatura di Fantozzi in mezzo alle lande umbre, tra Manuela Arcuri e Andrea Roncato che interpretavano le peggiori barzellette sui Carabinieri mai viste o sentite. Lì il caro Paolo era letteralmente lo scemo del villaggio, un po' naif un po' Fantocci, con la sua voce e i suoi modi imbarazzati e vergognosi. Un po' come me ogni giorno da quando lavoro con i Balabam e i Cobram, aspirando sempre ad essere una contessina Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare.

Adesso possiamo smetterla di essere Fantozzi.
Inauguriamo l'era dei Calboni, per cortesia.