lunedì 12 ottobre 2020

Giusto in tempo per il Covid

 Penso sia arrivato il tanto temuto tempo del ritorno. 

Sono seduta a letto, il gatto sonnecchia ai miei piedi, io ho il Covid.

Sono quattro i giorni passati dalla chiamata dell'infermiera "Il tampone è positivo". Mentre mentalmente metabolizzavo la notizia, nelle mie orecchie ronzavano gli ultimi giorni, le ultime settimane, gli ultimi mesi.

Torno indietro a quel giorno di fine febbraio in cui il Nano, uno degli iconici personaggi che sono venuti a movimentare il mio periodo da single (questo è un altro lutto, ne parleremo più avanti che per ora il cuore si regge con un droplet infetto), mi disse che il coronavirus avrebbe fatto posticipare olimpiadi ed europei di calcio. La mia risposta fu corta come la sua statura: "Eh, che ti devo dire".

Da allora panificazione coatta e molesta, canti e urla dai balconi, maratone di film di Harry Potter, quarantene passate a tenersi compagnia fino quasi ad innamorarsi. Saremmo tornati migliori, più forti, più umili e pieni di amore.

Manco per il cazzo, scusate il francesismo.

Siamo tornati livorosi, spaventati, per nulla educati, cattivi e con gli occhi rivolti al fatturato.

Ci siamo scordati i camion pieni di bare, anzi, i peggiori di noi li hanno riempite di corpi di clandestini gridando al complotto mentre si abbassano la mascherina e usano i polmoni per urlare che sono in dittatura sanitaria. Gli auguro che reggano, i polmoni.

Gente che non crede che il coronavirus esista, che sfila in piazza, che tossisce su altra gente e giù di matte risate fin quando non finiscono intubati o da Barbara D'Urso. 

E ora me ne sto qui ad aspettare che mi chiami l'ASL per pianificare gli altri tamponi, non sento odori, non sento sapori, m'informo di come stanno i miei contatti, faccio videochiamate con gli amici che nel frattempo mi portano medicine e cibo e alcool. Non riesco a vedere un film per il troppo mal di testa, scrivere però mi svuota e per questo ho deciso di farvi un regalo nell'era del covid: il ritorno di questo spazio che vi vuole far divertire, riflettere e perché no, discutere.

La lezione di questo post è che si può morire di covid ed è meglio che iniziamo a ficcarcelo in testa prima che lui si ficchi dentro di noi. Io ormai ce l'ho dentro e per ora fa meno male della solitudine.

Appello all'ASL: mi potete chiamare please? Grazie

martedì 2 aprile 2019

Ars Moriendi goes Netflix: "After Life"

Ieri ho capito che i miei ormoni stanno avendo la meglio sul mio cervello, tutto grazie alla visione di "After Life", brillantissima serie con Ricky Gervais.

Innanzitutto fruibilissima a tutti, la trovate su Netflix, sono 6 puntate di quasi 27 minuti l'una e scivolano che è un piacere.
Ci addentriamo nella vita di Tony, vedovo inconsolabile di Lisa, morta di cancro, che lo culla con la sua voce tramite video vari che il poveretto guarda ininterrottamente sul suo portatile.
Intorno a Tony fluttuano Matt, il cognato, che tenta di consolarlo e allontanarlo dai propositi suicidi (che vengono puntualmente sventati dalla cagnetta Brandy) obbligandolo a lavorare per la gazzetta locale che produce articoli al limite del surreale su neonati somiglianti a Hitler o vecchietti che ricevono ben 5 biglietti di auguri simili, il collega Lenny antistress naturale di Tony, Sandy la nuova recluta della Tambury Gazzette che subito si affeziona al suo capo e Kath, collega petulante con una grande quanto inspiegabile passione per Kevin Hart.

Spesso il nostro eroe fugge dal lavoro per far visita al padre malato di alzheimer ospite di una casa di riposo (nei panni del padre di Tony uno splendido Walder Frey redivivo da Game of Thrones) dove incontra l'infermiera Emma (Ashley Jensen la mia "Agatha Raisin" o se preferite Christina di "Ugly Betty"). Altra tappa obbligata è il cimitero dove riposa Lisa: proprio su una panchina incontra Anne, vedova di Stan, di cui diventa subito amico. Sfortunatamente, per cercare sollievo, Tony si reca da uno psichiatra (Thoros di Myr appena tornato dalle terre oltre la Barriera) che umilia la categoria intera spifferando i segreti degli altri pazienti o litigando su Twitter mentre Tony gli apre il cuore.

Sulla strada del lavoro incontra spesso il nipotino George che gioca nel cortile della propria scuola, altre volte incappa nello spacciatore Julian, nella "professionista del sesso" Roxy o nel postino Pat.

Il viaggio di Tony nel dolore per la perdita di Lisa passa attraverso i video pieni di gioia e vita della coppia o quelli di raccomandazioni postmortem che la stessa Lisa lascia al compagno: sono tutti inni alla vita, al futuro e alla gioia ma annaspano nel vischiosissimo pantano dei sentimenti di Tony.
A volte è Anne che lo sprona ad andare avanti mentre gli occhi le si fanno lucidi ricordando il marito, altre volte è la perseveranza dell'affetto di Matt e la paura di perdere George che gli aprono gli occhi su quanto il cinismo stia avvelenando la sua vita, quella che resta dopo la perdita.

Riagguantato il diritto di essere felice, Tony chiede ad Emma di uscire per un caffè. 

Ci sono momenti di "After Life" che ti prendono il cuore, te lo stritolano e te lo buttano nel cestino come tutti i video di Lisa, soprattutto quando suggerisce a Tony di godersi la luce del sole finché può e lo dice mentre abbassa la testa rendendosi conto che per lei la luce sta per spegnersi, ci sono certi personaggi secondari come Julian il tossico che porta dentro un peso più grosso di noi, la rassegnazione, o come Anne che riesce a sempre ad avere la frase giusta per mandare avanti il dolore e spingerlo oltre, che rendono "After Life" un piccolo gioiello.

Ma più di tutti c'è Tony, c'è quel "preferirei essere con lei da nessuna parte che da qualche parte senza di lei", c'è quel senso di profonda tristezza che non può lasciarti indifferente, c'è un supereroe che combatte la sua guerra a suon di "Fanculo" e sfacciate verità.

Guardatevi "After Life" e godetevi la colonna sonora.

Ars Moriendi lo valuta 4 teschi su 5!

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martedì 12 marzo 2019

Alzando la cresta: Keith Flint

Ho sempre pensato che nei pittoreschi villaggi della campagna inglese vivessero personaggi come Miss Marple o tedesche bionde uscite dai romanzi di Rosamunde Pilcher.
Immaginavo la tranquillità interrotta solo da qualche Aston Martin impazzita guidata da milionari stanchi che si buttavano alle spalle la vecchia vita di città per cominciare a coltivare zucche vicino a qualche anziana megera, che di sicuro amava avvelenare i vicini invitandoli per il tea delle cinque.
Idilliache immagini di gare di giardinaggio, il vicario del posto che fa visita ai membri della comunità, cani da caccia insonnoliti e pub pieni di vecchi signori che commentano Liverpool - Manchester mentre bevono birra e s'immergono nei ricordi.
Ecco, questa è per me la campagna inglese.
L'ultima persona che pensi di trovarci è il cantante dei Prodigy, Keith Flint.

Invece eccolo lì, Keith, con i suoi otto cani a passeggio per le campagne dell'Essex, eccolo che fa jogging e saluta il vicino settantenne, il signor Rye, che sa bene che quando vede Keith correre è perché sta per iniziare un tour e il cantante vuole essere al massimo della sua forma fisica.
Poi c'è la signora Addison che sa che Keith è un grande amante degli animali, oltre ai cani, Jane, sa che casa Flint ospita una voliera con un sacco di uccellini e canarini.
Keith - dicono sempre i suoi amati vicini - salutava sempre, anche solo un rapido cenno con la mano, ma lo faceva, lui salutava tutti e tutti gli volevano bene.

Sembra una bella favola ma, nonostante i cani, gli uccellini e l'amore dei vicini, Keith si è messo una corda attorno al collo e si è impiccato.

Fermiamoci un attimo. Torniamo negli anni 90 in punta di piedi, cerchiamo di guardare il video di "Firestarter" senza cagarci addosso come i bambini vent'anni fa.
Ok, Keith Flint si muove come me dopo aver mangiato un panino col salame di una settimana fa che aveva un colorino giallo poco invitante, pure le espressioni facciali sembrano le mie di quando nel 1996 provavo a truccarmi con abbondante rossetto fucsia Deborah per poi specchiarmi e trovare riflesso Carlo Pistarino. Tutto nella norma, niente di terrificante a parte gli anni che sono passati, che ci hanno impoverito, che ci hanno fatto credere che annegare i propri problemi fosse possibile e fosse possibile farlo tenendogli la testa sotto un mare di birra aspettando che sparissero e smettessero di agitarci.


D'accordo, sono stati anni difficili per tutti, magari lo sono stati per noi giovani disadattati che fumavano mille sigarette fuori da qualche locale dove qualcuno ti aveva appena spezzato il cuore, ma come possono essere stati anni difficili per chi ha otto cani, una villa in campagna, un personal trainer e vicini affettuosi?
Per avere la spiegazione di tutto questo serve un altro come noi, uno che ha preceduto noi e Keith Flint: John Lydon, in arte "Johnny Rotten" voce e anima marcia dei Sex Pistols.

Johnny se ne fotte del personal trainer e di tutte le volte che il signor Rye salutava Keith, figuratevi quello che pensa della signora Jane e i canarini canterini del cazzo. 
Keith aveva il cuore spezzato.
Giuro.

Ho appena letto che Johnny Rotten ha dichiarato che dietro il suicidio di Keith Flint c'è un cuore spezzato.

La decisione della moglie Mayumi di divorziare era nell'aria da molto tempo, già da un anno era tutto finito. La casa di campagna andava venduta, i ricordi sciolti nell'acido delle proprie lacrime. Keith non si era ripreso dalla separazione con Mayumi, dolce May, che lo aveva tenuto alla larga dalle droghe (ma non da un personal trainer, maledizione quanto odio vedere le celebrità devastate che corrono dietro ad un palestrato) che lo aveva salvato, dolce May che adesso lo condannava alla disperazione.

E così Johnny Rotten si fa cicerone in questa storia di solitudine esclamando "Nessuno lo amava ed è stato lasciato solo, era a pezzi. Perché così tante persone sono state lasciate sole in questo settore?".
Già, perché?

Vedi Johnny, i suoi vicini adoravano Flint perché era uno di loro, senza fronzoli, senza pretese, non aveva neanche gli orecchini al naso, era solo un Gascoigne meno chiassoso, un po' bolso magari, ma non era l'anticristo che pensavano.

Era solo un uomo con il cuore rotto. 
Ed è raro che qualcuno se ne accorga, anche se riempi arene o stadi interi.

Allora meglio correre, allevare cani, salutare la gente per strada sperando di sembrare normale quando invece dentro hai un tunnel vuoto e silenzioso che si allarga ogni giorno di più, fino a mangiarti i pezzi di cuore che sono rimasti.

Le lezioni di oggi sono molteplici: mai giudicare un libro dalla copertina, mai giudicare un uomo dalla propria cresta, mai lasciare solo un uomo normale.




martedì 5 marzo 2019

Di tutti, proprio Dylan.

Tutto quello che vorrei scrivere è un laconico quanto arrogante "voi non potete capire".
In un certo senso è proprio così, voi non sapete che ruolo ha avuto Luke Perry nella mia disastratissima vita bucata.

Iniziamo dalla fine: 04 marzo 2019.
Oltre alla leggera nausea che mi accompagna quotidianamente quando mi reco al lavoro, oggi sento anche odore di guai. Sono troppo ottimista, i miei capelli troppo lunghi e morbidi, il sole già alto e spavaldo alle 06:50, qui c'è qualche casino all'orizzonte.
Tutto fila liscio fin quando non becco la mia collega nei corridoi del centro medico.
Mi guarda.
La guardo.
Sorridiamo.
Lei dice: "sai che è morto..."
A me si blocca il cuore
Lei riparte: "... il cantante dei Prodigy?"
Vaffanculo Daniela, vaffanculo. Dire queste cose mentre c'è Luke Perry vicino al baratro... Non si fa.
Somatizzo per un attimo, metabolizzo la notizia, con la mente fumo mille sigarette come facevo mentre nei peggiori posti che io abbia mai frequentato partiva "Breathe" o "Firestarter".
Tutto va bene. 

Capodanno 2000equalcosa, tombolata di fine anno.
Tutti pronti per la tombolata con premi orrendi. Io vinco a ripetizione lo stesso libro di Bill Gates su Bill Gates, vorrei barattare la mia vita in cambio di qualsiasi cosa piuttosto che avere quel maledetto volume tra i miei premi. All'improvviso un'anima pia e meravigliosa mi dona una T-shirt che illumina la mia vita e l'anno che sta per nascere: la maglietta ha sopra la faccia di Luke Perry, viene diretta dal fan club di Los Angeles e dall'anno 1992. Piango. Non me ne separerò mai. Sopravviverà a due traslochi, alle tarme e alle unghie del gatto. Sopravviverà anche a Luke stesso, ma io non potrò saperlo.


Data indefinita, forse 2001, io di ritorno dall'università.
Sono stanca e affamata, sono abbastanza traumatizzata dal fatto che io abbia iniziato un corso sulla conservazione dei beni culturali in quel di Ravenna, che in quanto a vitalità non batte per poco Silent Hill. Sto per raggiungere la cucina, con la punta del piede sinistro mi sono levata la scarpa destra, ho buttato da qualche parte il cappotto e ancor prima di aprire la porta della cucina accendo la tv. Mi appare Luke in una puntata di Beverly Hills 90210, non una di quelle vecchie, no, qui Dylan è all'università: viviamo insieme la sventura di essere matricole, in più lui deve pure sopportare Steve, il che mi sembra eroico in confronto all'ora di treno che mi devo sciroppare ogni mattina. Ed è arrapante come al solito. Dylan non Steve, OVVIAMENTE.
Ecco, non so se fosse la visione celestiale, la fame o la mestizia del pensiero di dover tornare a Ravenna per i prossimi millemila anni, fatto sta che crollo per terra all'istante come una pera cotta, svenuta. In 36 anni di vita ho sempre attribuito questo mio unico svenimento a Luke, a nient'altro. E voglio che rimanga così. Forse fu quello svenimento a farmi capire che Ravenna non faceva per me.

Una mattina qualsiasi, 1993, scuola.
Mi manca solo la testa di quel maledetto secchione con la voce nasale di Brandon e il culone di Andrea Zuckerman per finire l'album di figurine di "Beverly Hills 90210". Di Dylan le ho tutte, mi sono tenuta anche le doppie. Quelle non le darò MAI via, magari alla prima Brandon Lover che capita. Le conservo, le mie teste di Dylan, le guardo. Non mi lasciano nemmeno durante l'adolescenza. Dylan è il primo vero uomo che vedo, che mi piace, di cui mi innamoro. Non è di cartone come André di Lady Oscar, no Dylan è vero e il suo personaggio ha solo poche cadute di stile: farsi Kelly e smettere di bere. Non ho mai trovato il mio Dylan, ma l'ho sempre cercato. In compenso ho collezionato una serie notevole di Brandon e qualche Steve.

Una sera qualsiasi, 1993, casa mia.
Mia sorella si sta preparando per uscire, io sono sul lettone dei miei, sfoglio distratta una copia di "Glamour" ovviamente non mia. Che giornale di merda, solo vestiti, donne, nemmeno una foto di Dylan. Che voglio dire, Dylan è di sicuro il più figo di tutto il 1992 e del 1993, dovrebbe stare su tutti i giornali. Ma su quel cazzo di "Glamour" no. Mentre mia sorella se ne va io sono sovraeccitata: quella sera io e mio padre registriamo una puntata di "Beverly Hills 90210". Non che a lui freghi qualcosa, lui vuole solo capire come usare quell'aggeggio maledetto, io invece voglio fare quello che le ragazzine di 10 anni fanno più spesso: guardare mille volte le cose che amano fino a conoscerle a memoria. E quella è la puntata in cui Kelly e Brenda hanno lo stesso, splendido, vestito. La prima volta di Brenda e Dylan. Quella è LA puntata. E la ricordo a memoria.

Vita di merda, ci stai provando, te ne do atto.
Stai provando a togliermi la mia gioventù e il mio futuro frustandomi nel presente.
Hai portato via Luke, il mio tormentato Dylan, quello che non riusciva ad essere ridicolo recitando la parte di un ragazzo cool, il mio ornitologo gay in "Will e Grace", il mio Fred Andrews in "Riverdale"che mi ha fatto tanta compagnia durante la mia convalescenza post protesi. "Riverdale"... dove ti sparano proprio nell'ultima puntata della prima serie e io a momenti piango come una fontana.
Non ci sei riuscita, vita di merda, e adesso mi hai colpito dove fa più male, nei miei ricordi, nel primo amore ancor prima che sapessi quanto facesse schifo l'amore. Hai colpito nella devozione, nell'affetto esclusivo e impalpabile per qualcuno che non si conosce ma che si ama, hai colpito nel sogno e nell'ideale.

Ma non te la darò vinta nemmeno stavolta. Anche se fa più male.
La lezione di oggi è: ama quello che eri, ama quello che amavi e che non ti ha mai deluso o fatto male. Almeno per un giorno, quando sei triste. Non abbandonare i tuoi sogni, di carne e ossa o di puro spirito.
E ora scusate, ma glielo devo.

"Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono,
fate tacere il cane con un osso succulento,
chiudete i pianoforti e fra un rullio smorzato
portate fuori il feretro, si accostino i dolenti.
Incrocino gli aereoplani lassù
e scrivano sul cielo il messaggio lui è morto,
allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni,
i vigili si mettano i guanti di tela nera.
Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed il mio Ovest,
la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,
il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto;
pensavo che l’amore fosse eterno: avevo torto.
Non servono più le stelle: spegnetele anche tutte;
imballate la luna, smontate pure il sole;
svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco;
perché ormai nulla può giovare."

Addio Luke.

martedì 19 febbraio 2019

In morte del Re Karl

E così è arrivato a romperci le palle anche il 2019.
Eh sì, la mia lunga tradizione di anni imperfetti, sgradevoli e lunghi come i piedi di Paris Hilton continua inesorabile.
Mentre, quindi, nel grafico Foxiano "LAVORO/AMORE/FORTUNA" scendo in picchiata tipo carriera dei Gazosa, si respira un'aria primaverile deliziosa, piena di profumo di fiori e speranze da buttare nel cesso.
Sappiamo benissimo che l'aria bagnata di primavera ci può stordire gli ormoni, farci sentire innamorati e leggeri, artistoidi e ispirati. Ecco il perché di Sanremo e altre menate varie.
E dove sentirsi inebriati di arte e ormoni se non a Parigi?
Forse fu questo pensiero a muovere un quattordicenne di nome Karl Otto Lagerfeld da Amburgo a Parigi benedetto solo di grande spirito e un paio di buone parole d'incoraggiamento da parte dei genitori.

La carriera di Lagerfeld è stata strepitosa, a tratti rivoluzionaria e salvifica.
Dobbiamo a lui se la modernità è entrata a casa Chloé, a lui si deve la resurrezione di Chanel.

Oh Karl, lo abbiamo capito tutti che te ne stavi per andare, le ultime sfilate erano un inno al disperato attaccamento alla vita, sfilavano i colori e la gioia intervallati da lunghezze inconcepibili e abiti di mia Zia Franca, fiori e tristezza, un lungo addio che mi commuove mentre scrivo.

Penso a tutte le tue meravigliose sarte che ti piangeranno discrete e belle come solo le francesi sanno essere. Penso alla tua gatta Choupette che, mannaggia al cazzo, erediterà i tuoi averi. Penso ad un film dove sei interpretato da Rami Malek.

Oh Dio Karl, quanto ci mancheranno i tuoi guanti, i tuoi occhiali schermati e quei tuoi capelli bianchi, quei pantaloni stretti da morire, quelle mille catene, quelle lacrime che non ti abbiamo visto ma che abbiamo sentito nella tua voce.

Anche se sono cicciona come Adele, che hai bacchettato per il suo essere "giusto un po' grassa", non posso non pensarti con affetto. Di sicuro tu e gli altri, (per fare due nomi: Giambattista, Mario, Giorgio (anche se ultimamente si è rincoglionito) e Vivienne) mi avete colorato questi anni, in particolare questi ultimi scampoli di fallimento che ho vissuto e che sono culminati ieri in una surreale "riunione" con alcune teste pensanti che mi hanno detto che dovrei tenere un atteggiamento più "URBANO", manco fossi una scimmia urlante che getta escrementi in faccia ai clienti o un collezione di Diesel.

Ah, che giornate poco di classe, senza stile e grigie ci aspettano.
Ma per poco.
Tornerà la primavera anche da Chanel.
E sì, tornerà pure nella mia vita. Anche se adesso mi sento spurita e piccola come Édith Piaf.

La lezione di oggi è: vivi con stili, vivi per realizzare quello in cui credi semplicemente vivi. Nel modo più parigino possibile.

lunedì 26 novembre 2018

Di gatti, lutti e momenti bui

Novembre quasi agli sgoccioli.
L'ultimo Ars è di gennaio ed è buio come gli ultimi momenti di Dolores O'Riordan.
Spotify mi sta sparando nelle orecchie "Everybody Hurts". 
E' una domenica di merda come le altre mille già passate, in TV la maratona de "La Signora in giallo", il bucato è steso e puzza d'umidità e Lenor alla vaniglia, il te nella tazza è finito.

Ars Moriendi si è preso numerosi mesi di pausa per altrettanti numerosi motivi che ora vi spiego.

Il primo di questi motivi riguarda la mia anca.

Siccome non sono una persona particolarmente veloce per quanto riguarda l'adattarsi agli eventi naturali della vita come le gravidanze, l'organizzazione dei matrimoni o le inumazioni dei parenti, quando il chirurgo a fine gennaio mi ha informato del fatto che dovesse impiantarmi una protesi nell'anca mi sono immobilizzata come quelle capre che si fingono morte e si irrigidiscono e si buttano a terra. Una fottutissima capra immobile, nel corpo e nella mente.

A questo momento caprino si uniscono i motivi due e tre: le visite organizzate con So.Crem e la continua lotta per la sopravvivenza nei Centri Medici MioMiniPony dove lavoro.

Qualcosa e qualcuno doveva per forza essere messo da parte per permettere al mio essere capra di arrivare al giorno della mia operazione e superarlo senza traumi eccessivi.
E se per voi queste sono normali attività, priorità nella vita, per me aver messo in stand by amici e altro è stato complicato: parlando del blog, mi sono sentita come una di quelle madri che affidano il proprio figlio a qualche parente perché sanno che la loro vita va a pezzi e qualcuno devono pure salvare e mentre lo salutano, forse per l'ultima volta, gli dicono "Non preoccuparti, andrà tutto bene". 
Ecco, questa sono io mentre apro e chiudo il laptop con le lacrime perché so cosa scrivere ma non mi viene, non ora che sono così occupata a sopravvivere, che per me una protesi all'anca è invasiva come un triplo bypass coronarico (ho sempre saputo di essere una diva consumata, una Drama Queen con tanto di piume e lustrini).

Il quarto motivo è banale: mi sono comprata casa e per un mese Vodafone e la sua connessione sono state più irreperibili di Ylenia Carrisi. 

Il quinto motivo per cui non mi decidevo a riprendermi il mio bambino, la mia voce, è che il mio rapporto con la morte sta cambiando, io sto cambiando.
E la parola "cambiamento" non è sempre una parola facile da digerire (usiamola in una frase da brivido: "Quanto è bello questo governo del cambiamento!" notate quanto risulti sinistra come parola?) bisogna capire che strada si sta prendendo e puttanate new age varie fino a quando non scatta la voglia di riprenderti quello che hai abbandonato e vederlo crescere, magari diversamente da com'era nato, da quello che avevi pensato, dal suo originario scopo di sollazzo nella disoccupazione nera.

Così, dopo che Ars Moriendi si è sparato un letargo di dieci mesi, eccoci qui pronti a sgranchirci le zampe e tornare a ragionare, ridere e soprattutto piangere come se steste guardando una puntata qualsiasi di "Un medico in famiglia".

Il primo Ars Moriendi di questa nuova, complicatissima, estenuante fase della mia vita è dedicato ad un gatto.

Proprio una settimana fa Gino, gatto elevato a monarca di San Giovanni in Persiceto, meraviglioso paesino della bassa emiliana che amo molto, veniva investito nel buio e nel freddo delle strade novembrine. 
Ora dovete sapere che la pagina Facebook dedicata a Gino e alle sue regali gesta raccoglie quasi 10.000 persone. 
Tra quelle 10.000 persone ci sono anche io, e sabato scorso, mentre stavo rannicchiata sul mio lato del divano, quello vicino al termosifone, vengo fulminata dalla notizia dell'incidente di Gino.
Ho pianto e scritto messaggi a tutti quelli che lo conoscevano, ho messo like ad ogni foto, ad ogni testimonianza d'affetto per quell'adorabile felino. Ho avuto un crollo emotivo incontrollabile su ogni autobus pensando a cosa mai avrei potuto fare senza il mio gatto Vincent, quello a cui, nei momenti di incertezza e solitudine profonda dico "Sei il mio migliore amicooooo", quasi sempre reggendo un bicchiere di vino in mano, con gli occhi pieni di lacrime, mentre lui se ne sta lì a leccarsi le parti intime. Ho tentato anche di stringerlo, ma le sue unghie conficcate nel mio collo mi hanno fatto capire che forse non era il momento adatto per le smancerie.

Gino era uno di quei gatti liberi di vivere la propria città proprio come un re a cui si spalancano luoghi talvolta inaccessibili ai comuni mortali. La città si stringeva attorno al pelo color cipria di un gatto che incantava i bambini e rendeva gli adulti più vivi e compassionevoli. Ormai è passata una settimana e il dolore della gente di San Giovani ancora non si è esaurito.

Anche se speravo di non sentirla o leggerla da nessuna parte, qualcuno ha sussurrato la frase "ma è solo un gatto". 
Gino era un gatto, ma non era solo quello. Era un collante, una storia, una risata sulla faccia di qualcuno che non ride mai. Gino era un gatto che faceva quello che volevamo fare noi: vivere libero e gironzolare per la città amato da tutti, salutato come un vero re (io personalmente gli invidiavo i pisolini nella vetrina della farmacia). Gino era un gatto, era il gatto di qualcuno che lo amava ed era il gatto di tutti, era il paladino dei meno fortunati e il simbolo di una città. 
Gino era solo un gatto ma non un gatto solo.

Bisogna che Ars Moriendi ricominci a vivere e solo un gatto con le sue sette vite può aiutarlo donandogliene una.

La lezione di oggi è che non dovete giudicare la morte dal colore o dal pelo di chi muore, ma da quello che lascia dietro di se.



venerdì 19 gennaio 2018

Sii te stesso lungo la strada - Dolores O'Riordan (1971-2018)

Anno nuovo vita nuova, mi ripeto da lunedì.
Come al solito continuo a ripetermi sempre la stessa bugia.

Lunedì me ne stavo raggomitolata nel mio privatissimo angolo di divano quando, senza nessun tipo di preavviso, un enorme macigno emotivo mi squarcia l'anima . Quel macigno ha le sembianze di Repubblica.it: "Morta Dolores O'Riordan dei Cranberries".
Deglutisco.
Corro su Spotify e cerco "Ordinary Day", non so perché proprio "Ordinary Day", ma so che voglio QUELLA canzone in quel momento preciso della mia vita. Prevedibilmente inizio a piangere come se avessi perso ogni speranza nel mondo. 




E io le speranze le avevo perse tutte nel maggio del 1999.
Il Parma calcio aveva appena vinto Coppa Italia e Coppa Uefa, io avevo festeggiato con i miei compagni di classe a suon di cioccolatini e spumante. Non avevo nemmeno compiuto 17 anni ma ero già in un vortice di solitudine e depressione, ansia e tachicardia. Ma nessuno, nessuno al mondo, avrebbe mai potuto dirlo, nessuno avrebbe mai pensato "Dio santo Federica com'è depressa", mai nessuno avrebbe potuto, io per prima gli avrei vietato di pensarlo.

Sì, prima di qualsiasi fidanzatino eroinomane e violento, prima di qualsiasi relazione contorta e malata, prima di ogni litigio furibondo con amici e presunti tali, prima di ogni disturbo alimentare e compatimento vario, prima c'è stato il mostro nero. Forse c'è ancora, qualche notte.
Tutto iniziò allora, nel 1999, quando mi trovai sola davanti ad un'estate desolata.

Mi ritrovai tra le mani "Bury the Hatchet" quasi per caso. A ripensarci non ricordo nemmeno il perché mi venne mai in mente di comprarmi quello stramaledetto cd, so solo che lo ascoltai talmente tanto da consumarlo, da staccargli la copertina e da buttarlo nel posto più nascosto della mia camera pur di non riascoltare più la mia depressione, il mio mostro nero.

Così lunedì ho pensato a Dolores che mi aveva accompagnato, mano nella mano, in mezzo a quel momento nascosto della mia adolescenza, quando non potevo e non volevo dire a nessuno che dentro mi sentivo divorare da un mostro. 
E mi sono sentita una merda, una vera amica di merda, a non aver mai saputo che anche lei viveva con quell'enorme mostro dentro. Pensavo seriamente che l'unica sfiga seria fosse stato il duetto con Giuliano Sangiorgi dei Negramaro.
Così ho imparato, troppo tardi, della sua depressione, del suo disturbo bipolare che le aveva fatto urlare in un aeroporto irlandese "IO SONO LA FOTTUTA REGINA DI LIMERICK!"e che forse, in un momento diverso, mi avrebbe fatto ridere mentre bevevo una pinta di  Harp alla sua salute.


La verità è che quando convivi con la depressione, ogni cosa che scrivi, che pensi, che canti, anche solo una canzone che pensi per tua figlia, ti esce come se dovessi scongiurare l'abisso e i toni si tingono di blu scuro. 
Prendete "Ordinary Day", la canzone da cui sono partita e che nemmeno era inclusa nello stramaledetto "Bury th Hatchet": la canzone è dedicata alla figlia ma le strofe, anche se semplici e dolci, sono avvolte da una nebbia di paura e angoscia: "i can see that the darkness will erode"ovvero "riesco a vedere che l'oscurità ti divorerà" non è proprio una frase che lascerei a mia figlia.




Mentre le persone si arrovellano a pensare come Dolores sia passata dall'altra parte, io voglio solo citare qualche parola del bell'articolo di Giulio Cavalli sul mostro nero chiamato depressione, apparso su Left (leggetevi l'articolo intero: https://left.it/2018/01/18/come-ci-deprime-scrivere-di-depressione/):

"Il divo fragile da appena morto, come il collega o il famigliare o il vicino di casa, è una storia da negare perché portatrice di sventura e foriera di ingrigiti sentimenti e così la negazione della malattia (che è il primo e più grande errore di chi depresso lo è davvero) viene alimentata ancor di più dalla postura generale [...]
Farebbe bene a tutti, in fondo. Farebbe bene anche a me, che lì in fondo ci sono stato, e ogni volta mi ricordo di chi mi ammonì di non dirlo, di non scriverlo, perché “non porta bene”. E invece sarebbe bellissimo raccontare che poi tornano i colori."

Io non so se poi i colori tornano sul serio, magari torneranno sbiaditi come dopo un lavaggio sbagliato o forse brilleranno molto più di prima. La verità è che molte volte il mostro ci impedisce di vederli bene quei colori, confusi come sono dalle nostre lacrime perennemente appese nell'angolo dei nostri occhi.

"I can see that the sunshine will explode
Far across the desert in the sky
[...]
Life is more intricate that it seems
Always be yourself along the way
Living through the spirit of your dreams
[...]
I'll never let you down, won't let you down"

"Riesco a vedere che lo splendore esploderà 
Lontano attraverso il deserto nel cielo
[...]
La vita è più intricata di quanto sembri
Sii sempre te stessa lungo la strada
Vivendo attraverso lo spirito dei tuoi sogni
[...]
Non ti deluderò mai, non ti deluderò"

Ordinary Day - Dolores O'Riordan