martedì 2 febbraio 2021

Per chi suona la campanella

Gennaio è il mese che, più di tutti gli altri 11 messi insieme, ha il potere manifesto di farti invecchiare alla velocità della luce. Il 1° gennaio sei lì, a letto, mezza nuda, a guardare il concerto di Capodanno con il Maestro Muti che smascella incontrollato a suon di polka e 30 giorni dopo pensi a quanto ti sembra lontano il Natale appena passato e cerchi la prima festa utile sul calendario: 14 febbraio, San Valentino.
Ora, non giudicatemi male, ma la necessità di festeggiare un martire romano del III° secolo mi esaltava da giovane quando, pura e casta, ricevevo in dono tubi di Baci Perugina, rose bianche e bigliettini sdolcinati. Ora mi esalterebbe solo se mi si proponesse un check up cardiologico gratuito o fosse considerata festa rossa da calendario con tanto di giorno di ferie pagato e grigliata selvaggia in balcone.

Sono vecchia e acida, inaridita oserei dire. Immaginate quindi il mio sguardo di terrore quando ho scoperto che Dustin Diamond, il noto "Screech" di Bayside School è morto a 44 anni. "Giovanissimo" sento dire, "Oh mio Dio ma sul serio, così giovane?" leggo. Io sono ancora lì con la mascella che tocca terra: io pensavo che Screech avesse superato i 50 anni da un pezzo, che fosse un pensionato spiaggiato a Palm Springs circondato da tettone in bikini e Mario Lopez a fargli da cameriere. 

44 anni. Giovane, per carità. Ma quando è successo esattamente che io ne avessi quasi 39? Quando ho appoggiato sul tavolo il succo di frutta della merenda del pomeriggio era il 1993 e guardavo Kelly e Zack cercare di pomiciare mentre Screech ne combinava una delle sue e dopo due secondi ecco il 2020, una pandemia, Tinder, e Screech che non riesce a finire un ciclo di chemio. Io e Screech che abbiamo 5 anni di differenza quando pensavo ci passasse in mezzo una vita intera.

Dustin Diamond era il solito attore di sit-com che, una volta finita la sit-com, si ritrova con le braghe rotte e il culo a terra. Ha fatto qualsiasi tipo di nefandezza: reality show di dubbio gusto, stand up comedy venuta male, altri reality, film in ruoli così marginali che nei titoli di coda era tipo "Ex allievo #1", bassista in un gruppo metal e, gradino più baso della discesa agli inferi di un ex attore, lottatore di Wrestling.

Ovunque sia passato ha portato discordia: il gruppo metal si è sciolto per "dissapori interni", in tutti i reality era il portatore di zizzania e non ne ha risparmiate nemmeno ai colleghi di Bayside School grazie al solito libro scandalo dove tutti i protagonisti hanno mille segreti sordidi e droga e sesso girano come lo stinco di maiale alla Sagra del porco di Vetulonia. Manco a dirlo giurò e spergiurò che a scrivere quelle pagine orrende e sconvenienti era stato un ghost writer che aveva estrapolato frasi fuori dal loro contesto. Certo. Certo. CERTO.

E, a proposito di porco, come ciliegina sulla torta ricordiamo il porno di Screech (ne sentivamo il bisogno? Io sinceramente sì): Screeched - Saved by the Smell è esattamente quello che pensate sia se conoscete la pratica del "Dirty Sanchez"(quando lo troverete su Google, non datemi la colpa di nulla).

Nonostante fosse un bugiardo (disse a Oprah che in realtà non era lui nel porno, ma un sosia. Certo. Certo. CERTO.) e un ingaggiatore di risse per cui ebbe pure guai con la giustizia, Dustin Diamond mi fa comunque pena e me la fa per due motivi in particolare.

Il primo è che era un fallito, come tutti noi, come la maggior parte di noi. Lui aveva toccato il successo, l'aveva perso, aveva speso ogni centesimo dei suoi guadagni, si era impelagato in ogni sorta di fallimento solo per non affogare in se stesso. E alla fine è morto come "quello che faceva Screech". Mentre i suoi ex colleghi commentano la sua morte con frasi struggenti dettate di fretta ai loro addetti stampa, il mondo lo ricorda con la faccina furba e pulita del ragazzino di Bayside School e continua a far finta di niente.

Il secondo è che Dustin Diamond aveva 5 anni più di me. 5 cazzo di anni più di me. Solo 5 anni più di me, che ancora penso di averne 25 e non ci trovo nulla di male perché sto bene con quello che sono ma devo fare i conti con quello che sto diventando. 

La lezione di oggi è quella di vivere la vostra vita con l'età che avete dentro, di guardare a quel succo di frutta che avete lasciato sul tavolo nel 1993 e di andare avanti lasciandoci sopra anche i rimpianti e i fallimenti, portandosi in tasca solo i ricordi e le facce di chi non ci ha mai deluso. Ora è il tempo di una birra in compagnia.


martedì 19 gennaio 2021

Sole, Sole... Solange - E siamo solo a gennaio

Spumeggianti questi albori del 2021.

Non dobbiamo negare di esserci arrivati con l'assoluta convinzione che il lockdown e il covid sarebbero spariti dal primo minuto dopo la mezzanotte del 31 dicembre. Anzi, più che "assoluta convinzione" parlerei di "disperata speranza".

E invece, permettete il francesismo, col cazzo. 

Siamo rinchiusi in zone che virano dal giallo al rosso, colori vibranti e accesi che potrebbero precipitare anche in un allegrissimo blu tenebra (ma prima avremmo una leggerissima transizione in viola e viola addobbo funebre mi dicono dalla regia) e siamo tutti irrimediabilmente irritati, scostanti, depressi. Personalmente assisto giornalmente a scenari scoraggianti: gente che si azzuffa per fare il vaccino (e ancora non era entrata a gamba tesa Sua Maestà Letizia Moratti e la distribuzione di brioche al popolo e vaccini all'aristocrazia, ora sì che si respira aria fresca di ancien régime), gente che dovrebbe fare il vaccino ma ha paura di cosa possa contenere perché tanto il covid lo curi con l'idrossiclorochina e quindi non lo fa (gente che di solito berrebbe il Gange. Gente a cui andrebbe servito il caffè di Sindona, francamente), gente che ha paura di respirarti accanto perché hai avuto il covid, gente che vive nel buio dello smart working ormai da un anno e tra poco si darà alle pitture rupestri sulle pareti della cucina.

Siamo a gennaio, la lotta al virus è lenta e impervia, il sole tramonta sempre alle 17 e fa un freddo cane: la depressione è dietro l'angolo.

Ci stiamo riscaldando le mani in questo inverno del nostro discontento, tra Renzi che ci fa vivere il brivido di una crisi di governo e la Meloni che dà del Barbapapà a Conte, stiamo discretamente aspettando il sole come Neffa, ma il nostro vero Sole ormai ci ha lasciati a brancolare nel buio dal 7 gennaio.

Solange, al secolo Paolo Bucinelli, era uno di quei sensitivi svolazzanti e sopra le righe che ci faceva compagnia negli anni '90, era riuscito anche a detronizzare il pesantissimo Divino Otelma che imperversava su Canale 5 quando la Cuccarini era solo una ballerina e non una sovranista e noi ballavamo "VOLA, CON QUANTO FIATO IN GOLAAA" tra un sofficino e una speedy pizza. 

Mentre Otelma si presentava con palandrane pacchiane e anelli rubati a mia nonna, Solange appariva leggero, con i capelli sparati come una delle Hologram, sempre allegro e allusivo. 

Il nostro eroe, dopo aver dato del pagliaccio al Divino O, si è pure battuto per i matrimoni gay lottando contro quel colosso di Angelino Alfano (quanti ricordi, mi è entrato un bruscolino nell'occhio) a colpi di abito bianco. E, a proposito di abito bianco, ricordiamo della profezia che fece alla Boschi, ovvero "ti troverai un marito, ma sarà di destra!" (tranquilli, Matteo Renzi è ancora felicemente sposato).

Ma attivismo a parte, Solange è nei nostri cuori - nel mio piccolo e arido, perlomeno - per un capolavoro della musica italiana: "Sole, Sole... Solange", il suon grande singolo del 2006.


La vostra vena polemica sta per esplodere dopo la visione di "SanPa" su Netflix e vorreste picchiare Red Ronnie con la videocassetta su cui avevate registrato l'apparizione di Britney Spears a "Roxy Bar"? No, cantatevi la strofa "endovene d'amore che ci forano il cuore/se alle volte ti sembro un po' strano/è solamente per fare casino!"

Nostalgia della ressa per entrare su un RyanAir per Tenerife? Vi mancano gli applausi dopo il perfetto atterraggio a Punta Raisi? Intonate fortissimo "Se ci pensi e mi credi/se con gli occhi tuoi vedi/apri il palmo e ti leggo la mano/siamo in volo e ti porto lontano..."

Soffrite per le chiusure delle palestre soprattutto perché avete dovuto abbandonare la storiella con quel meraviglioso manzo sudato che vi "aiutava" a fare gli addominali? Siete ancora runner nostalgici del primo lockdown e ricordate con gioia di quando le vostre performance miglioravano dopo le minacce dai balconi? Chiudete gli occhi e canticchiate "Appiccichiamo al nostro tempo i nostri cuori sudati/Scappiamo via...senza dimenticare/i battiti, i battiti, i battiti, i battiti".

Solange è tramontato il 7 gennaio 2021 e ancora non sappiamo perché, forse il cuore sudato non ha retto tutti quei battiti, chi lo sa.

La lezione di oggi è: aspettando il sole e una nuova alba, godiamoci quello che abbiamo, quello che ci dona gioia e ci rallegra, quello che ci confonde di piacere. 

"Sarà che non c'è il sole, Sarà che tutto sembra resti uguale, Sarà quel che sarà ma sono preso male, Ma nessuno chiama e non so chi chiamare"


giovedì 26 novembre 2020

Il rumore del cuore , la mano di Dio

 Il covid, alla fine, non mi ha ghermito. 

Proprio dal covid nasce questa storia, dalla noia del lockdown, dalle porte chiuse e dal 25 aprile passato a cantare "Bella Ciao" in casa, soli.

Ora, come vi raccontavo al quarto giorno di coronavirus, sono single. 

Ironico, questo blog è nato dalle ceneri di una relazione e ne ha vissuta un'altra durata 7 anni e naufragata in un altrettanto orrendo ottobre, quello 2019, quando il covid era ancora solo un pipistrello che presto sarebbe diventato una zuppa brodosa come quelle della Orogel (vedo dolorosamente sfumare le opportunità come influencer di zuppe).

Da quell'orrendo momento ho affrontato giornate costellate di pianti e rimpianti, ho dovuto imparare a convivere con me stessa e il pensiero di avere un gatto obeso, un lavoro di merda e una vita fallimentare. Tutto nella norma, comprese le sbandate sentimentali per uomini troppo concentrati su loro stessi e il loro piacere, le giornate passate a giustificare il mio fisico, le mie idee, le mie vergognose lacune. Ammettiamolo, impegnarsi a conoscere qualcuno di nuovo dopo quasi 14 anni di relazioni no-stop fa schifo, ci rende vulnerabili e cadiamo davanti al primo esemplare di persona che sa fare buon uso del congiuntivo, non ha strane abitudini feticiste che riguardino l'allattamento e soprattutto che si comporta in maniera normale e non come un debosciato a caso di Badoo.

Ed è qui che Maradona ci mette la mano.

Ad aprile, annoiata e frustrata dal lockdown, conosco online (ma non su Badoo, ci tengo a sottolinearlo, perché quel posto è come la gabbia delle scimmie allo zoo. Quando le scimmie urlano. Quando le scimmie si tirano la cacca. Quando le scimmie TI tirano la cacca) LUI, bello, simpatico, appassionato e partenopeo. Ama la fotografia e il cinema, ama la musica punk e viaggiare, si perde in frasi come "quando tutto questo sarà finito ti porto a Pompei" o peggio "ti porto una bottiglia di limoncello da Sorrento" (MAI prendermi in giro promettendomi alcolici gratis), LUI che abita a soli 7 km da me. E secondo voi cos'ho fatto io, stanca della solitudine ma irremovibile sul non cascare in questi patetici quanto falsissimi tentativi di rimorchio? Esatto, ci sono cascata, ho ceduto come Vittorio Sgarbi cede all'ira e all'essere trascinato fuori dalla Camera per emulare la Deposizione Borghese di Raffaello.

Dopo 6 mesi di corteggiamento telefonico, per non dire di peggio, finalmente consumiamo la nostra passione davanti ad un video di Ceccherini e Paci. E dal giorno dopo solo blandi convenevoli fino alla definitiva scomparsa tra le nebbie di un altro, questa volta freddissimo, lockdown. Pure durante il mio periodo covid il suo interessamento si palesava in faccine, mugugni e emoticon. EMOTICON (inserire bestemmia). Quello che a lui ho taciuto è la grandezza del mio cuore, che in quei 6 mesi aveva triplicato il proprio volume come nel video, mai troppo citato, di "Another Chance" di Roger Sanchez, dove una tipa gira con il suo cuore gigante per le strade di New York. 

Argentina - Inghilterra 1986: Diego Armando Maradona segna il goal del secolo, prima ancora beffa Shilton grazie ad una gelida manina che diventa la mano di Dio.

Io, così inglese nell'animo, così british nell'educazione e nelle scelte di vita, così umoralmente e sarcasticamente suddita di Sua Maestà umiliata da uno scugnizzo di Pompei che, prima di quella sera sul mio divano, mi aveva già dato tante di quelle buche da spezzarmi il cuore fino a sentirne chiaramente il rumore fatto di vetri rotti e singhiozzi da neonato: una volta mi diede buca per festeggiare l'onomastico, una volta si era scordato, un'altra... beh, non ricordo la scusa perché ero impegnata a prendermela sul divano mentre oscillavo televisivamente tra il trench del tenente Colombo e la simpatia di Whitney Houston in "Guardia del corpo" con una Peroni fredda stretta nella mano sinistra e le unghie conficcate nel palmo della destra.

Diego Armando Maradona muore il 25 novembre 2020, 15 anni esatti dopo la morte di George Best, quello che entrava ubriaco in campo, segnava, poi sveniva senza sensi sul campo. Diego dei miracoli, ché solo lui poteva avere una chiesa dedicata, la Chiesa di Maradona, e un altarino a Napoli dove i tifosi baciano un suo capello conservato in una teca. Diego il drogato recidivo amico di Lapo e Diego il rivoluzionario amico di Fidel e Chavez. Diego ammiratore del suo conterraneo Ernesto Guevara, Diego che evade il fisco italiano per 39 milioni di euro.

E ieri, per la prima volta in 6 mesi, ho sentito netto e distinto il rumore di un cuore che si spezzava a 7 km da casa mia. Istintivamente ho riso, ho portato una mano al cielo e ho salutato.

La lezione di oggi è: se non puoi essere Maradona, prova almeno a essere Pelé, altrimenti tornatene nel tuo campionato dilettanti e ricomincia da capo.


lunedì 12 ottobre 2020

Giusto in tempo per il Covid

 Penso sia arrivato il tanto temuto tempo del ritorno. 

Sono seduta a letto, il gatto sonnecchia ai miei piedi, io ho il Covid.

Sono quattro i giorni passati dalla chiamata dell'infermiera "Il tampone è positivo". Mentre mentalmente metabolizzavo la notizia, nelle mie orecchie ronzavano gli ultimi giorni, le ultime settimane, gli ultimi mesi.

Torno indietro a quel giorno di fine febbraio in cui il Nano, uno degli iconici personaggi che sono venuti a movimentare il mio periodo da single (questo è un altro lutto, ne parleremo più avanti che per ora il cuore si regge con un droplet infetto), mi disse che il coronavirus avrebbe fatto posticipare olimpiadi ed europei di calcio. La mia risposta fu corta come la sua statura: "Eh, che ti devo dire".

Da allora panificazione coatta e molesta, canti e urla dai balconi, maratone di film di Harry Potter, quarantene passate a tenersi compagnia fino quasi ad innamorarsi. Saremmo tornati migliori, più forti, più umili e pieni di amore.

Manco per il cazzo, scusate il francesismo.

Siamo tornati livorosi, spaventati, per nulla educati, cattivi e con gli occhi rivolti al fatturato.

Ci siamo scordati i camion pieni di bare, anzi, i peggiori di noi li hanno riempite di corpi di clandestini gridando al complotto mentre si abbassano la mascherina e usano i polmoni per urlare che sono in dittatura sanitaria. Gli auguro che reggano, i polmoni.

Gente che non crede che il coronavirus esista, che sfila in piazza, che tossisce su altra gente e giù di matte risate fin quando non finiscono intubati o da Barbara D'Urso. 

E ora me ne sto qui ad aspettare che mi chiami l'ASL per pianificare gli altri tamponi, non sento odori, non sento sapori, m'informo di come stanno i miei contatti, faccio videochiamate con gli amici che nel frattempo mi portano medicine e cibo e alcool. Non riesco a vedere un film per il troppo mal di testa, scrivere però mi svuota e per questo ho deciso di farvi un regalo nell'era del covid: il ritorno di questo spazio che vi vuole far divertire, riflettere e perché no, discutere.

La lezione di questo post è che si può morire di covid ed è meglio che iniziamo a ficcarcelo in testa prima che lui si ficchi dentro di noi. Io ormai ce l'ho dentro e per ora fa meno male della solitudine.

Appello all'ASL: mi potete chiamare please? Grazie

martedì 2 aprile 2019

Ars Moriendi goes Netflix: "After Life"

Ieri ho capito che i miei ormoni stanno avendo la meglio sul mio cervello, tutto grazie alla visione di "After Life", brillantissima serie con Ricky Gervais.

Innanzitutto fruibilissima a tutti, la trovate su Netflix, sono 6 puntate di quasi 27 minuti l'una e scivolano che è un piacere.
Ci addentriamo nella vita di Tony, vedovo inconsolabile di Lisa, morta di cancro, che lo culla con la sua voce tramite video vari che il poveretto guarda ininterrottamente sul suo portatile.
Intorno a Tony fluttuano Matt, il cognato, che tenta di consolarlo e allontanarlo dai propositi suicidi (che vengono puntualmente sventati dalla cagnetta Brandy) obbligandolo a lavorare per la gazzetta locale che produce articoli al limite del surreale su neonati somiglianti a Hitler o vecchietti che ricevono ben 5 biglietti di auguri simili, il collega Lenny antistress naturale di Tony, Sandy la nuova recluta della Tambury Gazzette che subito si affeziona al suo capo e Kath, collega petulante con una grande quanto inspiegabile passione per Kevin Hart.

Spesso il nostro eroe fugge dal lavoro per far visita al padre malato di alzheimer ospite di una casa di riposo (nei panni del padre di Tony uno splendido Walder Frey redivivo da Game of Thrones) dove incontra l'infermiera Emma (Ashley Jensen la mia "Agatha Raisin" o se preferite Christina di "Ugly Betty"). Altra tappa obbligata è il cimitero dove riposa Lisa: proprio su una panchina incontra Anne, vedova di Stan, di cui diventa subito amico. Sfortunatamente, per cercare sollievo, Tony si reca da uno psichiatra (Thoros di Myr appena tornato dalle terre oltre la Barriera) che umilia la categoria intera spifferando i segreti degli altri pazienti o litigando su Twitter mentre Tony gli apre il cuore.

Sulla strada del lavoro incontra spesso il nipotino George che gioca nel cortile della propria scuola, altre volte incappa nello spacciatore Julian, nella "professionista del sesso" Roxy o nel postino Pat.

Il viaggio di Tony nel dolore per la perdita di Lisa passa attraverso i video pieni di gioia e vita della coppia o quelli di raccomandazioni postmortem che la stessa Lisa lascia al compagno: sono tutti inni alla vita, al futuro e alla gioia ma annaspano nel vischiosissimo pantano dei sentimenti di Tony.
A volte è Anne che lo sprona ad andare avanti mentre gli occhi le si fanno lucidi ricordando il marito, altre volte è la perseveranza dell'affetto di Matt e la paura di perdere George che gli aprono gli occhi su quanto il cinismo stia avvelenando la sua vita, quella che resta dopo la perdita.

Riagguantato il diritto di essere felice, Tony chiede ad Emma di uscire per un caffè. 

Ci sono momenti di "After Life" che ti prendono il cuore, te lo stritolano e te lo buttano nel cestino come tutti i video di Lisa, soprattutto quando suggerisce a Tony di godersi la luce del sole finché può e lo dice mentre abbassa la testa rendendosi conto che per lei la luce sta per spegnersi, ci sono certi personaggi secondari come Julian il tossico che porta dentro un peso più grosso di noi, la rassegnazione, o come Anne che riesce a sempre ad avere la frase giusta per mandare avanti il dolore e spingerlo oltre, che rendono "After Life" un piccolo gioiello.

Ma più di tutti c'è Tony, c'è quel "preferirei essere con lei da nessuna parte che da qualche parte senza di lei", c'è quel senso di profonda tristezza che non può lasciarti indifferente, c'è un supereroe che combatte la sua guerra a suon di "Fanculo" e sfacciate verità.

Guardatevi "After Life" e godetevi la colonna sonora.

Ars Moriendi lo valuta 4 teschi su 5!

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martedì 12 marzo 2019

Alzando la cresta: Keith Flint

Ho sempre pensato che nei pittoreschi villaggi della campagna inglese vivessero personaggi come Miss Marple o tedesche bionde uscite dai romanzi di Rosamunde Pilcher.
Immaginavo la tranquillità interrotta solo da qualche Aston Martin impazzita guidata da milionari stanchi che si buttavano alle spalle la vecchia vita di città per cominciare a coltivare zucche vicino a qualche anziana megera, che di sicuro amava avvelenare i vicini invitandoli per il tea delle cinque.
Idilliache immagini di gare di giardinaggio, il vicario del posto che fa visita ai membri della comunità, cani da caccia insonnoliti e pub pieni di vecchi signori che commentano Liverpool - Manchester mentre bevono birra e s'immergono nei ricordi.
Ecco, questa è per me la campagna inglese.
L'ultima persona che pensi di trovarci è il cantante dei Prodigy, Keith Flint.

Invece eccolo lì, Keith, con i suoi otto cani a passeggio per le campagne dell'Essex, eccolo che fa jogging e saluta il vicino settantenne, il signor Rye, che sa bene che quando vede Keith correre è perché sta per iniziare un tour e il cantante vuole essere al massimo della sua forma fisica.
Poi c'è la signora Addison che sa che Keith è un grande amante degli animali, oltre ai cani, Jane, sa che casa Flint ospita una voliera con un sacco di uccellini e canarini.
Keith - dicono sempre i suoi amati vicini - salutava sempre, anche solo un rapido cenno con la mano, ma lo faceva, lui salutava tutti e tutti gli volevano bene.

Sembra una bella favola ma, nonostante i cani, gli uccellini e l'amore dei vicini, Keith si è messo una corda attorno al collo e si è impiccato.

Fermiamoci un attimo. Torniamo negli anni 90 in punta di piedi, cerchiamo di guardare il video di "Firestarter" senza cagarci addosso come i bambini vent'anni fa.
Ok, Keith Flint si muove come me dopo aver mangiato un panino col salame di una settimana fa che aveva un colorino giallo poco invitante, pure le espressioni facciali sembrano le mie di quando nel 1996 provavo a truccarmi con abbondante rossetto fucsia Deborah per poi specchiarmi e trovare riflesso Carlo Pistarino. Tutto nella norma, niente di terrificante a parte gli anni che sono passati, che ci hanno impoverito, che ci hanno fatto credere che annegare i propri problemi fosse possibile e fosse possibile farlo tenendogli la testa sotto un mare di birra aspettando che sparissero e smettessero di agitarci.


D'accordo, sono stati anni difficili per tutti, magari lo sono stati per noi giovani disadattati che fumavano mille sigarette fuori da qualche locale dove qualcuno ti aveva appena spezzato il cuore, ma come possono essere stati anni difficili per chi ha otto cani, una villa in campagna, un personal trainer e vicini affettuosi?
Per avere la spiegazione di tutto questo serve un altro come noi, uno che ha preceduto noi e Keith Flint: John Lydon, in arte "Johnny Rotten" voce e anima marcia dei Sex Pistols.

Johnny se ne fotte del personal trainer e di tutte le volte che il signor Rye salutava Keith, figuratevi quello che pensa della signora Jane e i canarini canterini del cazzo. 
Keith aveva il cuore spezzato.
Giuro.

Ho appena letto che Johnny Rotten ha dichiarato che dietro il suicidio di Keith Flint c'è un cuore spezzato.

La decisione della moglie Mayumi di divorziare era nell'aria da molto tempo, già da un anno era tutto finito. La casa di campagna andava venduta, i ricordi sciolti nell'acido delle proprie lacrime. Keith non si era ripreso dalla separazione con Mayumi, dolce May, che lo aveva tenuto alla larga dalle droghe (ma non da un personal trainer, maledizione quanto odio vedere le celebrità devastate che corrono dietro ad un palestrato) che lo aveva salvato, dolce May che adesso lo condannava alla disperazione.

E così Johnny Rotten si fa cicerone in questa storia di solitudine esclamando "Nessuno lo amava ed è stato lasciato solo, era a pezzi. Perché così tante persone sono state lasciate sole in questo settore?".
Già, perché?

Vedi Johnny, i suoi vicini adoravano Flint perché era uno di loro, senza fronzoli, senza pretese, non aveva neanche gli orecchini al naso, era solo un Gascoigne meno chiassoso, un po' bolso magari, ma non era l'anticristo che pensavano.

Era solo un uomo con il cuore rotto. 
Ed è raro che qualcuno se ne accorga, anche se riempi arene o stadi interi.

Allora meglio correre, allevare cani, salutare la gente per strada sperando di sembrare normale quando invece dentro hai un tunnel vuoto e silenzioso che si allarga ogni giorno di più, fino a mangiarti i pezzi di cuore che sono rimasti.

Le lezioni di oggi sono molteplici: mai giudicare un libro dalla copertina, mai giudicare un uomo dalla propria cresta, mai lasciare solo un uomo normale.




martedì 5 marzo 2019

Di tutti, proprio Dylan.

Tutto quello che vorrei scrivere è un laconico quanto arrogante "voi non potete capire".
In un certo senso è proprio così, voi non sapete che ruolo ha avuto Luke Perry nella mia disastratissima vita bucata.

Iniziamo dalla fine: 04 marzo 2019.
Oltre alla leggera nausea che mi accompagna quotidianamente quando mi reco al lavoro, oggi sento anche odore di guai. Sono troppo ottimista, i miei capelli troppo lunghi e morbidi, il sole già alto e spavaldo alle 06:50, qui c'è qualche casino all'orizzonte.
Tutto fila liscio fin quando non becco la mia collega nei corridoi del centro medico.
Mi guarda.
La guardo.
Sorridiamo.
Lei dice: "sai che è morto..."
A me si blocca il cuore
Lei riparte: "... il cantante dei Prodigy?"
Vaffanculo Daniela, vaffanculo. Dire queste cose mentre c'è Luke Perry vicino al baratro... Non si fa.
Somatizzo per un attimo, metabolizzo la notizia, con la mente fumo mille sigarette come facevo mentre nei peggiori posti che io abbia mai frequentato partiva "Breathe" o "Firestarter".
Tutto va bene. 

Capodanno 2000equalcosa, tombolata di fine anno.
Tutti pronti per la tombolata con premi orrendi. Io vinco a ripetizione lo stesso libro di Bill Gates su Bill Gates, vorrei barattare la mia vita in cambio di qualsiasi cosa piuttosto che avere quel maledetto volume tra i miei premi. All'improvviso un'anima pia e meravigliosa mi dona una T-shirt che illumina la mia vita e l'anno che sta per nascere: la maglietta ha sopra la faccia di Luke Perry, viene diretta dal fan club di Los Angeles e dall'anno 1992. Piango. Non me ne separerò mai. Sopravviverà a due traslochi, alle tarme e alle unghie del gatto. Sopravviverà anche a Luke stesso, ma io non potrò saperlo.


Data indefinita, forse 2001, io di ritorno dall'università.
Sono stanca e affamata, sono abbastanza traumatizzata dal fatto che io abbia iniziato un corso sulla conservazione dei beni culturali in quel di Ravenna, che in quanto a vitalità non batte per poco Silent Hill. Sto per raggiungere la cucina, con la punta del piede sinistro mi sono levata la scarpa destra, ho buttato da qualche parte il cappotto e ancor prima di aprire la porta della cucina accendo la tv. Mi appare Luke in una puntata di Beverly Hills 90210, non una di quelle vecchie, no, qui Dylan è all'università: viviamo insieme la sventura di essere matricole, in più lui deve pure sopportare Steve, il che mi sembra eroico in confronto all'ora di treno che mi devo sciroppare ogni mattina. Ed è arrapante come al solito. Dylan non Steve, OVVIAMENTE.
Ecco, non so se fosse la visione celestiale, la fame o la mestizia del pensiero di dover tornare a Ravenna per i prossimi millemila anni, fatto sta che crollo per terra all'istante come una pera cotta, svenuta. In 36 anni di vita ho sempre attribuito questo mio unico svenimento a Luke, a nient'altro. E voglio che rimanga così. Forse fu quello svenimento a farmi capire che Ravenna non faceva per me.

Una mattina qualsiasi, 1993, scuola.
Mi manca solo la testa di quel maledetto secchione con la voce nasale di Brandon e il culone di Andrea Zuckerman per finire l'album di figurine di "Beverly Hills 90210". Di Dylan le ho tutte, mi sono tenuta anche le doppie. Quelle non le darò MAI via, magari alla prima Brandon Lover che capita. Le conservo, le mie teste di Dylan, le guardo. Non mi lasciano nemmeno durante l'adolescenza. Dylan è il primo vero uomo che vedo, che mi piace, di cui mi innamoro. Non è di cartone come André di Lady Oscar, no Dylan è vero e il suo personaggio ha solo poche cadute di stile: farsi Kelly e smettere di bere. Non ho mai trovato il mio Dylan, ma l'ho sempre cercato. In compenso ho collezionato una serie notevole di Brandon e qualche Steve.

Una sera qualsiasi, 1993, casa mia.
Mia sorella si sta preparando per uscire, io sono sul lettone dei miei, sfoglio distratta una copia di "Glamour" ovviamente non mia. Che giornale di merda, solo vestiti, donne, nemmeno una foto di Dylan. Che voglio dire, Dylan è di sicuro il più figo di tutto il 1992 e del 1993, dovrebbe stare su tutti i giornali. Ma su quel cazzo di "Glamour" no. Mentre mia sorella se ne va io sono sovraeccitata: quella sera io e mio padre registriamo una puntata di "Beverly Hills 90210". Non che a lui freghi qualcosa, lui vuole solo capire come usare quell'aggeggio maledetto, io invece voglio fare quello che le ragazzine di 10 anni fanno più spesso: guardare mille volte le cose che amano fino a conoscerle a memoria. E quella è la puntata in cui Kelly e Brenda hanno lo stesso, splendido, vestito. La prima volta di Brenda e Dylan. Quella è LA puntata. E la ricordo a memoria.

Vita di merda, ci stai provando, te ne do atto.
Stai provando a togliermi la mia gioventù e il mio futuro frustandomi nel presente.
Hai portato via Luke, il mio tormentato Dylan, quello che non riusciva ad essere ridicolo recitando la parte di un ragazzo cool, il mio ornitologo gay in "Will e Grace", il mio Fred Andrews in "Riverdale"che mi ha fatto tanta compagnia durante la mia convalescenza post protesi. "Riverdale"... dove ti sparano proprio nell'ultima puntata della prima serie e io a momenti piango come una fontana.
Non ci sei riuscita, vita di merda, e adesso mi hai colpito dove fa più male, nei miei ricordi, nel primo amore ancor prima che sapessi quanto facesse schifo l'amore. Hai colpito nella devozione, nell'affetto esclusivo e impalpabile per qualcuno che non si conosce ma che si ama, hai colpito nel sogno e nell'ideale.

Ma non te la darò vinta nemmeno stavolta. Anche se fa più male.
La lezione di oggi è: ama quello che eri, ama quello che amavi e che non ti ha mai deluso o fatto male. Almeno per un giorno, quando sei triste. Non abbandonare i tuoi sogni, di carne e ossa o di puro spirito.
E ora scusate, ma glielo devo.

"Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono,
fate tacere il cane con un osso succulento,
chiudete i pianoforti e fra un rullio smorzato
portate fuori il feretro, si accostino i dolenti.
Incrocino gli aereoplani lassù
e scrivano sul cielo il messaggio lui è morto,
allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni,
i vigili si mettano i guanti di tela nera.
Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed il mio Ovest,
la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,
il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto;
pensavo che l’amore fosse eterno: avevo torto.
Non servono più le stelle: spegnetele anche tutte;
imballate la luna, smontate pure il sole;
svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco;
perché ormai nulla può giovare."

Addio Luke.

martedì 19 febbraio 2019

In morte del Re Karl

E così è arrivato a romperci le palle anche il 2019.
Eh sì, la mia lunga tradizione di anni imperfetti, sgradevoli e lunghi come i piedi di Paris Hilton continua inesorabile.
Mentre, quindi, nel grafico Foxiano "LAVORO/AMORE/FORTUNA" scendo in picchiata tipo carriera dei Gazosa, si respira un'aria primaverile deliziosa, piena di profumo di fiori e speranze da buttare nel cesso.
Sappiamo benissimo che l'aria bagnata di primavera ci può stordire gli ormoni, farci sentire innamorati e leggeri, artistoidi e ispirati. Ecco il perché di Sanremo e altre menate varie.
E dove sentirsi inebriati di arte e ormoni se non a Parigi?
Forse fu questo pensiero a muovere un quattordicenne di nome Karl Otto Lagerfeld da Amburgo a Parigi benedetto solo di grande spirito e un paio di buone parole d'incoraggiamento da parte dei genitori.

La carriera di Lagerfeld è stata strepitosa, a tratti rivoluzionaria e salvifica.
Dobbiamo a lui se la modernità è entrata a casa Chloé, a lui si deve la resurrezione di Chanel.

Oh Karl, lo abbiamo capito tutti che te ne stavi per andare, le ultime sfilate erano un inno al disperato attaccamento alla vita, sfilavano i colori e la gioia intervallati da lunghezze inconcepibili e abiti di mia Zia Franca, fiori e tristezza, un lungo addio che mi commuove mentre scrivo.

Penso a tutte le tue meravigliose sarte che ti piangeranno discrete e belle come solo le francesi sanno essere. Penso alla tua gatta Choupette che, mannaggia al cazzo, erediterà i tuoi averi. Penso ad un film dove sei interpretato da Rami Malek.

Oh Dio Karl, quanto ci mancheranno i tuoi guanti, i tuoi occhiali schermati e quei tuoi capelli bianchi, quei pantaloni stretti da morire, quelle mille catene, quelle lacrime che non ti abbiamo visto ma che abbiamo sentito nella tua voce.

Anche se sono cicciona come Adele, che hai bacchettato per il suo essere "giusto un po' grassa", non posso non pensarti con affetto. Di sicuro tu e gli altri, (per fare due nomi: Giambattista, Mario, Giorgio (anche se ultimamente si è rincoglionito) e Vivienne) mi avete colorato questi anni, in particolare questi ultimi scampoli di fallimento che ho vissuto e che sono culminati ieri in una surreale "riunione" con alcune teste pensanti che mi hanno detto che dovrei tenere un atteggiamento più "URBANO", manco fossi una scimmia urlante che getta escrementi in faccia ai clienti o un collezione di Diesel.

Ah, che giornate poco di classe, senza stile e grigie ci aspettano.
Ma per poco.
Tornerà la primavera anche da Chanel.
E sì, tornerà pure nella mia vita. Anche se adesso mi sento spurita e piccola come Édith Piaf.

La lezione di oggi è: vivi con stili, vivi per realizzare quello in cui credi semplicemente vivi. Nel modo più parigino possibile.

lunedì 26 novembre 2018

Di gatti, lutti e momenti bui

Novembre quasi agli sgoccioli.
L'ultimo Ars è di gennaio ed è buio come gli ultimi momenti di Dolores O'Riordan.
Spotify mi sta sparando nelle orecchie "Everybody Hurts". 
E' una domenica di merda come le altre mille già passate, in TV la maratona de "La Signora in giallo", il bucato è steso e puzza d'umidità e Lenor alla vaniglia, il te nella tazza è finito.

Ars Moriendi si è preso numerosi mesi di pausa per altrettanti numerosi motivi che ora vi spiego.

Il primo di questi motivi riguarda la mia anca.

Siccome non sono una persona particolarmente veloce per quanto riguarda l'adattarsi agli eventi naturali della vita come le gravidanze, l'organizzazione dei matrimoni o le inumazioni dei parenti, quando il chirurgo a fine gennaio mi ha informato del fatto che dovesse impiantarmi una protesi nell'anca mi sono immobilizzata come quelle capre che si fingono morte e si irrigidiscono e si buttano a terra. Una fottutissima capra immobile, nel corpo e nella mente.

A questo momento caprino si uniscono i motivi due e tre: le visite organizzate con So.Crem e la continua lotta per la sopravvivenza nei Centri Medici MioMiniPony dove lavoro.

Qualcosa e qualcuno doveva per forza essere messo da parte per permettere al mio essere capra di arrivare al giorno della mia operazione e superarlo senza traumi eccessivi.
E se per voi queste sono normali attività, priorità nella vita, per me aver messo in stand by amici e altro è stato complicato: parlando del blog, mi sono sentita come una di quelle madri che affidano il proprio figlio a qualche parente perché sanno che la loro vita va a pezzi e qualcuno devono pure salvare e mentre lo salutano, forse per l'ultima volta, gli dicono "Non preoccuparti, andrà tutto bene". 
Ecco, questa sono io mentre apro e chiudo il laptop con le lacrime perché so cosa scrivere ma non mi viene, non ora che sono così occupata a sopravvivere, che per me una protesi all'anca è invasiva come un triplo bypass coronarico (ho sempre saputo di essere una diva consumata, una Drama Queen con tanto di piume e lustrini).

Il quarto motivo è banale: mi sono comprata casa e per un mese Vodafone e la sua connessione sono state più irreperibili di Ylenia Carrisi. 

Il quinto motivo per cui non mi decidevo a riprendermi il mio bambino, la mia voce, è che il mio rapporto con la morte sta cambiando, io sto cambiando.
E la parola "cambiamento" non è sempre una parola facile da digerire (usiamola in una frase da brivido: "Quanto è bello questo governo del cambiamento!" notate quanto risulti sinistra come parola?) bisogna capire che strada si sta prendendo e puttanate new age varie fino a quando non scatta la voglia di riprenderti quello che hai abbandonato e vederlo crescere, magari diversamente da com'era nato, da quello che avevi pensato, dal suo originario scopo di sollazzo nella disoccupazione nera.

Così, dopo che Ars Moriendi si è sparato un letargo di dieci mesi, eccoci qui pronti a sgranchirci le zampe e tornare a ragionare, ridere e soprattutto piangere come se steste guardando una puntata qualsiasi di "Un medico in famiglia".

Il primo Ars Moriendi di questa nuova, complicatissima, estenuante fase della mia vita è dedicato ad un gatto.

Proprio una settimana fa Gino, gatto elevato a monarca di San Giovanni in Persiceto, meraviglioso paesino della bassa emiliana che amo molto, veniva investito nel buio e nel freddo delle strade novembrine. 
Ora dovete sapere che la pagina Facebook dedicata a Gino e alle sue regali gesta raccoglie quasi 10.000 persone. 
Tra quelle 10.000 persone ci sono anche io, e sabato scorso, mentre stavo rannicchiata sul mio lato del divano, quello vicino al termosifone, vengo fulminata dalla notizia dell'incidente di Gino.
Ho pianto e scritto messaggi a tutti quelli che lo conoscevano, ho messo like ad ogni foto, ad ogni testimonianza d'affetto per quell'adorabile felino. Ho avuto un crollo emotivo incontrollabile su ogni autobus pensando a cosa mai avrei potuto fare senza il mio gatto Vincent, quello a cui, nei momenti di incertezza e solitudine profonda dico "Sei il mio migliore amicooooo", quasi sempre reggendo un bicchiere di vino in mano, con gli occhi pieni di lacrime, mentre lui se ne sta lì a leccarsi le parti intime. Ho tentato anche di stringerlo, ma le sue unghie conficcate nel mio collo mi hanno fatto capire che forse non era il momento adatto per le smancerie.

Gino era uno di quei gatti liberi di vivere la propria città proprio come un re a cui si spalancano luoghi talvolta inaccessibili ai comuni mortali. La città si stringeva attorno al pelo color cipria di un gatto che incantava i bambini e rendeva gli adulti più vivi e compassionevoli. Ormai è passata una settimana e il dolore della gente di San Giovani ancora non si è esaurito.

Anche se speravo di non sentirla o leggerla da nessuna parte, qualcuno ha sussurrato la frase "ma è solo un gatto". 
Gino era un gatto, ma non era solo quello. Era un collante, una storia, una risata sulla faccia di qualcuno che non ride mai. Gino era un gatto che faceva quello che volevamo fare noi: vivere libero e gironzolare per la città amato da tutti, salutato come un vero re (io personalmente gli invidiavo i pisolini nella vetrina della farmacia). Gino era un gatto, era il gatto di qualcuno che lo amava ed era il gatto di tutti, era il paladino dei meno fortunati e il simbolo di una città. 
Gino era solo un gatto ma non un gatto solo.

Bisogna che Ars Moriendi ricominci a vivere e solo un gatto con le sue sette vite può aiutarlo donandogliene una.

La lezione di oggi è che non dovete giudicare la morte dal colore o dal pelo di chi muore, ma da quello che lascia dietro di se.



venerdì 19 gennaio 2018

Sii te stesso lungo la strada - Dolores O'Riordan (1971-2018)

Anno nuovo vita nuova, mi ripeto da lunedì.
Come al solito continuo a ripetermi sempre la stessa bugia.

Lunedì me ne stavo raggomitolata nel mio privatissimo angolo di divano quando, senza nessun tipo di preavviso, un enorme macigno emotivo mi squarcia l'anima . Quel macigno ha le sembianze di Repubblica.it: "Morta Dolores O'Riordan dei Cranberries".
Deglutisco.
Corro su Spotify e cerco "Ordinary Day", non so perché proprio "Ordinary Day", ma so che voglio QUELLA canzone in quel momento preciso della mia vita. Prevedibilmente inizio a piangere come se avessi perso ogni speranza nel mondo. 




E io le speranze le avevo perse tutte nel maggio del 1999.
Il Parma calcio aveva appena vinto Coppa Italia e Coppa Uefa, io avevo festeggiato con i miei compagni di classe a suon di cioccolatini e spumante. Non avevo nemmeno compiuto 17 anni ma ero già in un vortice di solitudine e depressione, ansia e tachicardia. Ma nessuno, nessuno al mondo, avrebbe mai potuto dirlo, nessuno avrebbe mai pensato "Dio santo Federica com'è depressa", mai nessuno avrebbe potuto, io per prima gli avrei vietato di pensarlo.

Sì, prima di qualsiasi fidanzatino eroinomane e violento, prima di qualsiasi relazione contorta e malata, prima di ogni litigio furibondo con amici e presunti tali, prima di ogni disturbo alimentare e compatimento vario, prima c'è stato il mostro nero. Forse c'è ancora, qualche notte.
Tutto iniziò allora, nel 1999, quando mi trovai sola davanti ad un'estate desolata.

Mi ritrovai tra le mani "Bury the Hatchet" quasi per caso. A ripensarci non ricordo nemmeno il perché mi venne mai in mente di comprarmi quello stramaledetto cd, so solo che lo ascoltai talmente tanto da consumarlo, da staccargli la copertina e da buttarlo nel posto più nascosto della mia camera pur di non riascoltare più la mia depressione, il mio mostro nero.

Così lunedì ho pensato a Dolores che mi aveva accompagnato, mano nella mano, in mezzo a quel momento nascosto della mia adolescenza, quando non potevo e non volevo dire a nessuno che dentro mi sentivo divorare da un mostro. 
E mi sono sentita una merda, una vera amica di merda, a non aver mai saputo che anche lei viveva con quell'enorme mostro dentro. Pensavo seriamente che l'unica sfiga seria fosse stato il duetto con Giuliano Sangiorgi dei Negramaro.
Così ho imparato, troppo tardi, della sua depressione, del suo disturbo bipolare che le aveva fatto urlare in un aeroporto irlandese "IO SONO LA FOTTUTA REGINA DI LIMERICK!"e che forse, in un momento diverso, mi avrebbe fatto ridere mentre bevevo una pinta di  Harp alla sua salute.


La verità è che quando convivi con la depressione, ogni cosa che scrivi, che pensi, che canti, anche solo una canzone che pensi per tua figlia, ti esce come se dovessi scongiurare l'abisso e i toni si tingono di blu scuro. 
Prendete "Ordinary Day", la canzone da cui sono partita e che nemmeno era inclusa nello stramaledetto "Bury th Hatchet": la canzone è dedicata alla figlia ma le strofe, anche se semplici e dolci, sono avvolte da una nebbia di paura e angoscia: "i can see that the darkness will erode"ovvero "riesco a vedere che l'oscurità ti divorerà" non è proprio una frase che lascerei a mia figlia.




Mentre le persone si arrovellano a pensare come Dolores sia passata dall'altra parte, io voglio solo citare qualche parola del bell'articolo di Giulio Cavalli sul mostro nero chiamato depressione, apparso su Left (leggetevi l'articolo intero: https://left.it/2018/01/18/come-ci-deprime-scrivere-di-depressione/):

"Il divo fragile da appena morto, come il collega o il famigliare o il vicino di casa, è una storia da negare perché portatrice di sventura e foriera di ingrigiti sentimenti e così la negazione della malattia (che è il primo e più grande errore di chi depresso lo è davvero) viene alimentata ancor di più dalla postura generale [...]
Farebbe bene a tutti, in fondo. Farebbe bene anche a me, che lì in fondo ci sono stato, e ogni volta mi ricordo di chi mi ammonì di non dirlo, di non scriverlo, perché “non porta bene”. E invece sarebbe bellissimo raccontare che poi tornano i colori."

Io non so se poi i colori tornano sul serio, magari torneranno sbiaditi come dopo un lavaggio sbagliato o forse brilleranno molto più di prima. La verità è che molte volte il mostro ci impedisce di vederli bene quei colori, confusi come sono dalle nostre lacrime perennemente appese nell'angolo dei nostri occhi.

"I can see that the sunshine will explode
Far across the desert in the sky
[...]
Life is more intricate that it seems
Always be yourself along the way
Living through the spirit of your dreams
[...]
I'll never let you down, won't let you down"

"Riesco a vedere che lo splendore esploderà 
Lontano attraverso il deserto nel cielo
[...]
La vita è più intricata di quanto sembri
Sii sempre te stessa lungo la strada
Vivendo attraverso lo spirito dei tuoi sogni
[...]
Non ti deluderò mai, non ti deluderò"

Ordinary Day - Dolores O'Riordan

mercoledì 20 dicembre 2017

Pillole di morte: il pranzo di Natale

Una donna del Kent, a Natale, mangerà le ceneri della madre.
Stop.

Siete su pillole di morte, short concept di Ars Moriendi, concepito apposta per essere con voi scrivendo poco ma pensandovi un sacco.

Dicevamo, una donna del Kent mangerà le ceneri della madre a Natale.
Sì.
E noi che stiamo ancora a disquisire su agnolotti e tortellini quando il futuro è davanti ai nostri occhi:


La cara Debra del Kent ha perso la mamma a maggio, all'improvviso, e da allora non si è più ripresa. Si è portata a casa le ceneri della mamma e ha meditato sul da farsi. Perché spargerle in un luogo pittoresco quando puoi tenerle dentro una busta di plastica da sandwich vicino al tuo letto? E perché non intingere un dito in quel soffice mucchio di ricordi per assaggiare un po' di nostalgia?

Debra ha annunciato che spargerà quel che rimane di sua madre sul tacchino e sul pudding natalizio, tutto con la complicità del fidanzato (devo ripetere a me stessa che non mi devo più stupire di certe cose) e della sorella, che le ha ceduto la sua parte di "mamma" non appena saputo del vizietto.

Cari voi, qualsiasi lutto abbiate affrontato o stiate affrontando, per quanto grande sarà il vuoto che lascerà nella vostra vita, non mangiate le ceneri di nessuno per nessun motivo.
E, soprattutto, non fatevi fotografare mentre lo fate.

Per l'articolo intero vi rimando a:http://www.mirror.co.uk/news/uk-news/i-eat-mum-christmas-day-11706456 altrimenti domani lo troverete postato nella pagina Facebook di Ars Moriendi.

Buone feste a tutti.
Anche a te Debra del Kent.

giovedì 19 ottobre 2017

Le strade di Pontypridd

Mi sa che ormai l'avrete capito, qui si parla di tutti i tipi di morte, mica solo di funerali, telegrammi di condoglianze o di mia madre che mi spinge a toccare i morti alle veglie funebri.
Oggi, miei cari fans, voglio raccontarvi di quando la tua città decide che per lei sei morto e stramorto.
Voglio parlarvi dei Lostprophets e di Pontypridd.

Solo noi trentacinquenni imbruttiti dal tempo possiamo ricordare con gli occhi lucidi i nostri vent'anni passati tra penosi locali rock di periferia e pub dove bere birra scadente in bicchieri di vetro scheggiato. 
Solo noi ex ragazze ribelli ricordiamo i pantaloni larghi, i capelli piastrati, le cravatte e le linguacce alla Avril Lavigne.
Ricordo una marea di sigarette, il mio DJ preferito, i Linkin Park, le mie amiche che rimorchiano e io che sto in canotta rosa fuori dal locale alle 2 del mattino di un febbraio qualunque di un anno imprecisato tra il 2000 e il 2006, seduta sui gradini di acciaio della scala antincendio a farmi milioni di seghe mentali sul perché l'ennesimo tipo che mi piace sia un fallito psicopatico.
Che meravigliosi anni di merda, quelli.

Comunque all'epoca compravo "Rocksound" (lo so che la mia già scarsa popolarità sta colando a picco, ne sono consapevole) un giornaletto con un sacco di articoli che non ho mai letto veramente su band orribili che suonavano Nu Metal. Ogni mese comunque c'era in allegato l'imperdibile cd con le hit del momento, un concentrato di putridume ad alti livelli con alcuni, rarissimi, diamanti grezzi.
Fu in uno di quei maledetti cd che scovai i Lostprophets.
Ancora adesso non so se classificarli come "putridume" o "diamanti grezzi". Propenderei per la prima.

In quegli anni il Nu Metal devastava le nostre giovani vite trascinandoci sull'orlo della rabbia e dell'insoddisfazione più cupa, testi in cui si sfogava il dolore di essere soli, isolati, reietti, non capiti, falliti in un mondo di vincenti. Tipo un pomeriggio con mia madre o un'estate passata a Vedegheto, per capirci.
I Lostprophets erano uno dei tanti gruppi che giravano in radio e che passava il mio DJ preferito mentre io ingurgitavo vodka tonic guardando in loop le puntate de "La Pantera Rosa" che giravano silenziose sugli schermi di quel locale rockettaro della bassa di San Lazzaro.

Le strade di Pontypridd
Pontypridd è una città del Galles. Ci sono nate un sacco di persone importanti, Tom Jones, ad esempio o anche Phil Campbell dei Mötorhead, per dire. 
E i Lostprophets si sono formati proprio lì, tra quelle strade dove prima schioccava le dita Tom Jones.
A Pontypridd, alla comunità e ad un sacco di gente parve una bella idea lastricare le strade della città con i versi di alcune canzoni dei Lostprophets, roba tipo "everytime i walk these streets i know they're mine"(il fatto che il Nu Metal fosse una roba pretenziosa lo capivi già dal nome. NU. perché NEW è da vecchi matusa.).

Purtroppo però Ian Watkins, cantante e leader dei Lostprophets, non è proprio un cittadino modello.
Ian ha molestato sessualmente un sacco di bambini, alcuni non arrivavano nemmeno ai due anni compiuti. E, a quanto pare, continua a farlo anche dalla cella in cui si trova e dove dovrà restare per altri 30 anni abbondanti, circuendo via posta giovani madri fan del gruppo. Guardando il video di "A town called Hypocrisy" mi vengono i brividi.




Così Pontypridd ha deciso di cancellare il ricordo dei Lostprophets e di sradicare dal pavimento stradale le parole di Watkins, un chiarissimo messaggio, del tipo "tu per noi sei morto, anzi, non sei mai esistito".

Il mio DJ preferito vota 5 stelle.
Il locale rockettaro a San Lazzaro ha cambiato pelle e ora fanno serate con balli latinoamericani.
Le mie amiche sono tutte sistemate.
Nessuna di noi ascolta più Nu Metal.
Anche per noi Ian Watkins è morto e stramorto.

La lezione di oggi è che devi essere sempre all'altezza delle strade su cui cammini, o loro cancelleranno i tuoi passi.



martedì 4 luglio 2017

Lo scemo del Villaggio

Sono una persona con la testa perennemente tra le nuvole. A volte guardo la mia vita con un tale distacco da sentirmi qualcun'altro. M'immagino spesso in luoghi leziosi, rosa, geometrici e spumosi.
Io m'immagino di vivere in un film di Wes Anderson, di essere uno dei suoi personaggi, penso di essere uscita da un libro di favole norvegesi, per dire.
Ma no. Non è proprio così. Prima sento un rumore stridulo di freni, poi apro gli occhi. 
E quando lo faccio mi trovo crocefissa in sala mensa.
Io vivo dentro una costante replica di Fantozzi.
Da sempre.


Non sono solo Fantozzi, io, no, sono anche Paolo Villaggio, a volte. 
Sono Paolo Villaggio che scrive il testo di "Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers" e che dopo deve recitare 100 volte la scena in cui Fantozzi si proclama "Azzurro di sci". 
Sono Paolo Villaggio iscritto al partito comunista e un novello Folagra che si batte a suon di bestemmie smozzicate per il benessere dei colleghi in una ditta dove i Balabam e i Cobram sono insagomati in jeans e camicie strette, sono sempre inattaccabili, inaccessibili, intoccabili, ma adesso hanno il puzzo di un profumo da quatto soldi e vogliono che tu consideri la tua ditta come la tua casa o la tua famiglia, ti vogliono sorridente e sempre, sempre di più, scattante e sportivo.

Sono il Filini che prova ad organizzare feste, ritrovi improbabili districandomi tra obblighi e piaceri; dopo un paio di Brunella Pallor scompaio in un vortice di stanchezza e ombre di bagordi. Ho la sindrome da scema del villaggio: sempre connessa, sempre proattiva, finta ingenua ma che casca prontamente nelle trappole di chi mi vuole disponibile a tutto, sempre.

Appena ho saputo della morte di Paolo Villaggio ho esclamato un "era ora!", probabilmente lo esclamerei ancora mille volte, lì, avviluppata tra le lenzuola, con la testa sprofondata nel cuscino, con il cuore in gola nel sentire "E' morto..."aspettandomi il peggio, aspettandomi di dover indossare un brutto vestito e chiedere un cambio al lavoro.
Invece era tutto lì, è solo morto Paolo Villaggio, uno che sapeva bene che alla fine sarebbe morto, uno che aveva perfino invitato Napolitano al suo funerale.




Soprattutto è morto uno che capiva bene quanto vicina potesse essere la morte.  
Si scherza su tutto, anche sulla morte, soprattutto da ragazzi, soprattutto con gli amici. Ma non  si scherza con la morte, non si scherza con i tuoi amici se con lei ci vivono.
Con Faber non ci poteva più scherzare come facevano da giovani guasconi più simili a Carlo Martello che a Fantozzi e Filini, sempre in piedi, sempre in giro a far cazzate e a vivere.

No, si chiude tutto, ci si saluta in silenzio.

"Era ora!". 
Liberatorio come quel "per me, la Corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca".
Negli ultimi anni Paolo Villaggio era finito a fare la caricatura di Fantozzi in mezzo alle lande umbre, tra Manuela Arcuri e Andrea Roncato che interpretavano le peggiori barzellette sui Carabinieri mai viste o sentite. Lì il caro Paolo era letteralmente lo scemo del villaggio, un po' naif un po' Fantocci, con la sua voce e i suoi modi imbarazzati e vergognosi. Un po' come me ogni giorno da quando lavoro con i Balabam e i Cobram, aspirando sempre ad essere una contessina Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare.

Adesso possiamo smetterla di essere Fantozzi.
Inauguriamo l'era dei Calboni, per cortesia.






martedì 7 marzo 2017

Ho perso tutte le tue foto - AUZ

Non mi sarei mai aspettata di scrivere un pezzo su Leone di Lernia. 
Non mi sarei mai aspettata di scrivere un pezzo d'amore, morte e rimorso sulle note di "Ti si mangiate la banana".
Non mi sarei mai aspettata di avere la stessa pettinatura di Leone.
E invece.



E invece appena ho letto la notizia della morte di Leone ho sentito un fischio lunghissimo.
Un fischio che durava dal 2012, da quando era morto MCA dei Beastie Boys. 
Un sibilo che a tratti affievolisce ma non scompare.
Qualcosa dentro al mio cranio reclamava di uscire. E intanto vorticosamente sibilava dentro alla mia testa.

Leone di Lernia aveva degnamente rovinato le mie orecchie moltissimi anni prima. 
Mi ricordo.
Il fischio diventa rumore, voci, lacrime.

Ero a casa di Federico, era pomeriggio. Una stanza gialla. Non ricordo se fosse estate o inverno, ricordo il legno scuro dell'armadio, non ricordo se fosse pomeriggio tardi o presto. Forse era settembre. O forse prima.
Io ricordo solo la cassetta di Leone di Lernia e "Ti si mangiate la banana".
Federico rideva, rideva tantissimo, nemmeno ascoltava le parole, per lui il testo parlava di pompini. 
Ora, non voglio gettarmi nell'esegesi delle opere di Leone di Lernia, ma mi sembra che il senso del testo fosse che a Maria piacevano le banane, soprattutto Chiquita, e che ne mangiasse in quantità industriali, tutto lì.
Ma Federico rideva tantissimo. Continuava a ripetere "AUZ", lui adorava quella comicità idiota, fatta di cacca e goliardate.
Io no.

Federico adorava Leone di Lernia. Ma i suoi preferiti erano i Beastie Boys.
Li amava così tanto che a casa sua ascoltavamo "Intergalactic" almeno 20 volte a pomeriggio. 
A me piaceva, lui faceva il robot. Io ridevo.
Li amava un casino, quindi posso solo immaginare quanto sia stato difficile decidere di regalarmi la sua copia di "Hello Nasty" senza potersene comprare un'altra. 
Forse amava più me dei Beastie Boys.
Tutto quell'amore però non mi fermò dallo stracciare di fronte ai suoi occhi il bigliettino con scritto "Federico ❤ Federica -  Per sempre insieme".
Lo stracciai inorridita e lo buttai in un cestino.

Federico amava Leone di Lernia, i Beastie Boys, me e l'eroina. Soprattutto l'eroina.
Non eravamo ventenni universitari sulla strada della devastazione con la sola scelta di diventare barboni pieni di pustole che si arrabattono per due spicci, non avevamo nemmeno un'ambizione, certo, ma avevamo solo diciassette anni. Eravamo soli a diciassette anni.

Conoscere qualcuno che si fa di eroina a diciassette anni è ridicolo, amarlo è pure peggio.
Se cinque minuti prima Federico era pieno di energia e trovare un pezzo di stagnola era la sua unica missione, venti minuti dopo eccolo lì, vuoto, nessuno dentro l'involucro di carne e capelli.
Io lo guardavo e non capivo, giuro, non capivo perché si dovesse soffrire così tanto per essere soli. 
Io me ne stavo lì, non toccavo nemmeno le sigarette per paura di stare male, io ero lì, lui no.
Quando ti fai di eroina e ami qualcuno, a volte non sai dosare le emozioni. Nessuna delle tue emozioni. O almeno credo. Altrimenti non capisco perché un pomeriggio Federico mi scagliò un pugno così forte sulla schiena da farmi tossire e lasciarmi senza voce lì, per terra, senza che nei suoi occhi passasse un lampo di vita o un bagliore qualsiasi.
Non capisco perché mi picchiasse, mi chiamasse "cicciona" sebbene pesassi 55 chili, mi denigrasse di fronte agli amici, mi chiedesse soldi. Non capisco perché amasse più l'eroina di me.
Più l'eroina di Leone di Lernia.
Più l'eroina dei Beastie Boys.

Così gli stracciai davanti agli occhi quel bigliettino.
"Federico ❤ Federica - Per sempre insieme".
Gli stracciai davanti agli occhi quella bugia. E lui pianse.
Pianse tutti gli anni di merda, tutti i pugni, tutti i problemi, tutto l'amore. 
Lo lasciai seduto su alcuni gradini di un palazzo vicino a Piazza Roosevelt, lo lasciai piangere, lo consolai per un poco, lo lasciai lì.
Gli presi il cd dei Beastie Boys, gli presi i ricordi, considerai quel cd una ricompensa per le mie cicatrici.



Così persi Federico, ci guadagnai un cd e un sacco di sensi di colpa.
E mentre ci penso piango, perché sono stata cattiva, perché a me Leone di Lernia non mi faceva ridere (tranne i primi tempi allo ZOO di 105), perché non ascolto mai quel cd, perché non so che fine abbia fatto Federico, non so dove cercarlo, ho paura di cercarlo dove so che potrebbe essere finito.
E piango perché dopo di lui ho incontrato un uomo peggiore, e a lui ho dedicato il pezzo su Baglioni (questo pezzo pieno di livore e niente di buono da dire o da rimpiangere).
Soprattutto penso di aver avuto solo un paio di foto di Federico e di averle perse.

Così Leone di Lernia è morto, MCA è morto. Io comincio a fare gli scongiuri. Smetterò di canticchiare sotto la doccia. Per un po' smetterò di leggere i necrologi.

Vabbè, ci tiriamo su con il Fu di Lernia?
AUZ!






lunedì 20 febbraio 2017

Il partito della morte

Tirate fuori i festoni e le candeline, oggi è ufficialmente il quinto compleanno di Ars Moriendi!
Per festeggiare degnamente l'avvenimento dobbiamo prima scrollarci di dosso tutto il rancore e il sudiciume che questo inverno ci ha scaricato addosso.

C'è chi, per festeggiare l'aria frizzantina che si respira negli ultimi giorni, ha deciso di dare una mega festa dove tutti hanno deciso di scindersi da qualcuno o qualcosa, Mentana ci ha piazzato sopra la solita maratona e qualcuno, nel frattempo, ha dato fuoco ad un paio di palme a Milano. Se non un clima infame, di sicuro un clima ostile.

In questo momento storico ho deciso di fare due cose e solo due: rileggere i miei vecchi Poirot e mettermi a dieta.
E credetemi, sulla seconda mi sono venute le lacrime agli occhi e il groppo in gola, della serie "ci risiamo", ma non il "ci risiamo" di Francesca di Spotify, quella della playlist collaborativa con il fratello Giorgio che piazza Skrillex, che lei al massimo dalla taglia 42 deve passare alla 40 perché gli short da Daisy Duke le stringono sulle cosce. No. Io devo cercare di placare i demoni della mia psiche dandogli in pasto germogli di soia e petti di pollo, devo convincermi che se continuo così camminare tra un paio di anni mi sarà impossibile, che lo spettro del diabete è lì, dietro i cereali al cacao e agli snack al sesamo.
Nemmeno fossi uno di quei maxi obesi di "Vite al limite". Quelli pesano 300 chili ma hanno le anche d'acciaio. Maledetti, stramaledetti candidati al bypass gastrico.
Diciamo che anche il mio fegato anela disperatamente alla redenzione e alla purificazione, è così disperato che il solo pensiero di dover dosare le transaminasi mi terrorizza.

Così chiudo gli occhi, metto su "Giallo", faccio partire la maratona di "Law and Order", spingo sul tasto MUTE e attacco Bon Iver. 
L'unica cosa che mi viene in mente associando il mio fegato a questo clima fatto di incertezza e odio è Moana Pozzi, la regina.




Moana Pozzi è, meglio era anche se per qualcuno ancora è, la donna più bella del mondo. 
L'assoluta spontaneità del sorriso, gli occhi di un colore indefinito, un'intelligenza sana e una prontezza di spirito non indifferente.
Sì, lo so, volete far partire i luoghi comuni e le battutine sulla sua carriera. Bene. 
Comincio io: l'unico passo falso che posso riconoscere a Moana è aver condotto quella stramaledetta trasmissione per bambini insieme a BOBBY SOLO. Tutto ciò non poteva che sfociare in due direzioni:

1) una carriera nel porno.
2) sfondare come cane di pezza di nome "Floradora" in un programma RAI con Paolo Limiti.

Saggiamente Moana decise di avventurarsi nel mondo del porno hardcore, diventando insieme a Cicciolina una sorta di idolo femminile alternativo, costituendo un club di donne potenti ed emancipate, molto più vere e reali delle cricche composte dalle varie Naomi o Claudia.

Da tutto questo, forse dopo le esperienze cinematografiche di "Tutte le provocazioni di Moana" e "Buco Profondo", nasce il famoso Partito dell'Amore. Potrei sintetizzarvi questa favolosa esperienza politica in poche parole, che però lascio direttamente a Moana:


Il nesso è che in questi due minuti di video del 1993, che vi prego di guardare, Moana esorta tutti noi a pensare alla società e al bene comune. A parte l'elogio alla sessualità libera (non a caso partito dell'AMORE e non della salsiccia passita) esiste un progetto favoloso nella mente di Moana e degli ideatori del Partito dell'Amore: vivere in case che non siano mostri architettonici grigi e senz'anima, rispettare l'ambiente senza esaurirlo, proteggere i deboli e sconfiggere la criminalità organizzata, tutto questo facendolo rigorosamente INSIEME. 
Una sorta di Movimento 5 Stelle dove Beppe Grillo era in realtà Riccardo Schicchi.
Ma tutto era diverso, c'erano le spalline nei cappotti, le monetine da 100 lire buttate sulla testa di Craxi, Berlusconi ancora stava tranquillo a pettinare Ruud Gullit.
Purtroppo il Partito dell'Amore non ce la fece, Moana esortò a far confluire i voti dei tanti fedeli elettori nelle mani di un giovane capace e rampante: Francesco Rutelli (wikipedia mi conosce, wikipedia sa che io gongolo quando leggo certe cose.).



Moana è morta di cancro al fegato il 15 settembre 1994. Aveva solo 33 anni.
Con lei però non vengono sepolti i dubbi sulla sua salute, sulla sua presunta sieropositività (grazie ad un loquace Paolo Villaggio che negli ultimi anni si ha sviluppato la logorrea di Abe Simpson), sul figlio/fratello segreto Simone.
Tutto rimane lì, negli anni '90, in quella soffice bambagia tra prima e seconda repubblica, dove gli 883 cominciavano a muovere i primi passi, Berlusconi scendeva in campo, le spalline imbottite cominciavano a scendere e i cappotti, i foulard, i vestiti, cominciavano ad avere colori veri, vivi, si vedeva finalmente la sconfitta del color "cammello" per ogni tipo di giubbotto o maglione.

Mi manca Moana, manca la spontaneità e la voglia di sesso di quei tempi, la paura dell'alone viola ma la spensieratezza, manca anche, se vogliamo, il politicamente scorretto, il portare il sesso dove non si può, mentre adesso, in parlamento, al massimo entrano le scie chimiche.

Quindi, se vogliamo, ode a Moana, che nel 2017 non può nemmeno condividere il suo nome con un'eroina Disney, ode a Moana che purtroppo non può combattere contro Adinolfi, anche se forse potrebbe essere l'unica in questo deserto di codardi, a poterlo fare. Ode a Moana, al suo sorriso e alla sua vita.

Ma soprattutto, ode ai film di Moana. 
Sempre e comunque.

(Auguri Ars Moriendi!)