mercoledì 16 novembre 2016

Un caffè pieno di morte

(Questa volta è un fallimento.
La Discover Weekly di Spotify ha toppato.
Come faccio a scrivere un pezzo con il mood alla "Love will tear us apart" dei Joy Division se poi mi parte "Non abbiamo bisogno di parole" di Ron?
Passi Jimmy Fontana, ma Francesco Renga? Ma chi ha mai ascoltato FRANCESCO RENGA?

Comunque, the show must go on, diceva quello.)

Oggi ho un po' l'umore à la Ned Stark, del tipo "l'inverno sta arrivando", non tanto per il freddo, ma per tutto questo gelo politico che riveste il nostro quotidiano. Tutto questo antitrumpismo, protrumpismo, prohillarismo, antihillarismo mi sta lentamente uccidendo. Nelle vetrine niente balocchi e ghirlande, solo poster per il NO e simpatiche faccine che dicono "basta un sì". Renzi è il Grinch che mi sta rubando il Natale. (nel frattempo mi sdraio a terra rotolando su me stessa, tappandomi le orecchie: FAUSTO LEALI  e MINA che cantano A CHI MI DICE dei BLUE nella MIA playlist. Comincio a pensare che ci sia qualcuno in casa mia che di nascosto ascolti roba di merda solo per poter confondere Spotify sui miei gusti.)

Io sono un animale politico, sono una pasionaria pigra ma infuocata, sono la sindacalista di me stessa, ma tutta questa aria pesante da dibattito politico tra sordi mi sta lentamente facendo scivolare nella classica apatia invernale condita da serie TV e totale isolamento dal genere umano. Così mi viene in mente il mio primo Death Cafe.

Il Death Cafe è un'occasione in cui perfetti sconosciuti, o quasi, s'incontrano per parlare di morte. 
Puro, semplice e con tanto di pasticcini.
Nessun tabù. Solo la voglia di confrontarsi su qualcosa che non siano le sorelle Kardashian, Trump e Killary o le nuove puntate di "Westworld".




Trovarsi in un circolo di persone che non la pensano come te su un argomento così vivo e reale ti fa sentire spesso fuori luogo. Prendiamo solo una delle domande di quella sera: vorreste essere immortali?

Ecco.

"Io mi sono sempre sentita immortale" dice l'infermiera con crocefisso al collo. "Mai stata incerta su questo aspetto, io SONO immortale. Attraverso la mia fede".

Ecco. La mia mente disegna istantaneamente Duncan McLeod che va a messa. Per l'eternità. 

"Io vorrei essere immortale, ma poi i miei cari morirebbero e io mi sentirei così male!"dice Morticia Cupiello, una signora napoletana che EVIDENTEMENTE ama i suoi cari, protagonisti indiscussi di tutti i suoi interventi serali.

"Beh, ma non è detto che sia immortale solo tu! Potresti vivere in una società d'immortali" interviene il moderatore, il professor Francesco Campione, psicologo, tanatologo e padrone di casa.
Silenzio.

Io provo ad immaginare un mondo del genere.

Infiniti post su Facebook delle stesse persone con cadenza regolare, ogni 10 minuti la bacheca piena di selfie con hashtag tipo #ByeByemorte!, pipponi politici di società che collassano scritti da cantanti disoccupati e hipster annoiati, quarantenni immortali.
QUARANTENNI IMMORTALI.
Tutto immobile, tutto in continuo cambiamento e disfacimento, psicosi dilagante, le stesse facce che si guardano per secoli. Ligabue che continua a fare concerti. Grillo che arringa folle sempre più immobili, "The Walking Dead" che passa le 200 stagioni consecutive. Tutti zombie che camminano.
Capodanni sempre più tristi, Carlo Conti che cambia mille vestiti da gran sera, trenini sempre più lenti.
Tutti affollati, uno spalla a spalla con l'altro, il divieto di fare figli (il che comunque ci risparmierebbe tutti i meme delle madri del tipo "Trovo così divertente ripensare a quando dicevo di essere stanca prima di avere figli". Sul serio, la fine di tutte le foto di bambini con appiccicato sulla faccia un emoticon sorridente per proteggere la loro baby privacy, la fine dei gruppi whatsapp sui gruppi preparto di cui le tue amiche non ne possono più, la fine dei battesimi. Che pace), un popolo di adulti annoiati da guerre che non fanno morti.
La vita eterna è sulla terra, e allora facciamola saltare in aria!
Milioni di testate nucleari cariche per farci esalare l'ultimo respiro radioattivo, il mondo che esplode e noi che galleggiamo nello spazio, condannati all'immortalità. 
Inseme a noi Biagio Antonacci.

Sudo, sudo tantissimo quando la domanda fa il giro e arriva a me.

"E tu? Tu vorresti essere immortale?"la domanda arriva liscia e tutti sorridono.
"No. Ma no. Da quando sono bambina so che c'è un inizio e una fine. Fin da quando guardavo gli alberi genealogici che tracciava mio padre, tutte le famiglie hanno un inizio e una fine. Alcune finiscono in un punto e continuano in altro. Alcuni rami si seccano, altri continuano ad intrecciarsi per secoli, ma tutto ha una fine. Non ho sorprese, tutti gli uomini e le donne del passato che ho studiato sono morti in una pagina o nell'altra. E va bene così, devo avere un inizio e devo avere una fine, nel mezzo farò quel che posso, lascerò un segno se avrò tempo altrimenti pazienza, arriverà la fine, e sarà bellissimo così. Io sono mortale, è l'unica certezza su cui baso la vita".

Sguardi di comprensioni, sorrisi, si va avanti a parlare.
Io sorseggio il mio bicchiere pieno di cola e ascolto.
Mangio un biscotto.
Scuoto la testa.
Vedo un ragazzo che prende appunti.
Non vorrei che finisse. 
Vorrei altri Death Cafe.

Intanto qui a casa mi avvolgo nel piumone e scrivo. 
Intanto su Spotify è arrivato Jimmy Fontana che canta "il Mondo". 
Vale la pena essere mortale e potersela godere solo un numero preciso di volte.

mercoledì 19 ottobre 2016

Pillole di morte: L'assaggio di quello che verrà

Questa sera parteciperò al mio primo Death Cafe.
Devo dire la verità, sono un po' emozionata.
Chissà cosa salterà fuori tra un pasticcino e un caffè, tra un singhiozzare di ricordi ed esperienze, chissà che ne sarà di me, come direbbe Muccino.

Beh, ovviamente preparerò un pezzo degno dell'esperienza, non come questo che vi propino oggi giusto per fidelizzarvi.

In tema di assaggi, cafè e quant'altro oggi vorrei parlarvi di quanto ancora mi stia drogando di serie TV di bassa qualità e quanto mi sia affezionata a "I Borgia", produzione di qualche anno fa con Jeremy Irons nella parte di papa Alessandro VI Borgia.
La cosa più presente oltre a tette, donne nude, tette, uomini nudi, gente che fa sesso, gente che spera di fare sesso, threesome con il papa e ancora una valanga di tette, è il veleno.
Tutti o quasi muoiono avvelenati e ancora Lucrezia Borgia non ha iniziato la sua tanto chiacchierata carriera da avvelenatrice: tutti bevono, mangiano, cominciano a tossire e cadono. Alcuni squirtano sangue dalle orbite. Una completa orgia di bava alla bocca, sudore e morte.

Quelli erano anni  croccanti dal punto di vista velenoso. Lasciate che vi racconti la storia del re Ladislao I di Napoli e del suo presunto avvelenamento.
Questo personaggio spettacolare, detto "il magnanimo" fu un vero e proprio condottiero destinato alla gloria. Ma ovviamente qualcuno non voleva proprio che Lady riuscisse nelle numerose imprese che lo vedevano affaccendato (rincorreva il sogno di unificare l'Italia sotto la sua corona, roba da nulla per un tipetto vissuto nel 1400) si decise quindi di avvelenarlo, una roba pulita secondo gli usi di quei tempi.
Siccome però parliamo di un re, parliamo di uno con uno stuolo di assaggiatori, guardie del corpo, cibi e bevande controllate, insomma, mica facile.
Ma per fortuna dei suoi nemici Ladislao amava una cosa che non divideva con nessuno: la figa.
Quindi voi cosa avreste fatto? Avreste per caso spalmato l'organo genitale di una ragazza con del veleno per poi buttarla tra le braccia del re? Eh? Vi sembra un'idea idiota? Beh, secondo le leggende andò proprio così.
Lady banchettò con il fiorellino della ragazza fino a stare male e a morirne, letteralmente.
Al ritorno a Napoli il giovane re morì. 
Ma noi storici lo sappiamo, mica morì avvelenato, probabilmente morì di una malattia infettiva alla prostata. Comunque se l'era beccata allo stesso modo, è che a noi aridi topi di biblioteca piace fantasticarci un po' sopra.




La pillola di oggi è: diventati abbastanza ricchi da noleggiare un assaggiatore e abbastanza timorati di Dio da non rischiare. Io sono povera e atea, vivrò di rischi.

mercoledì 21 settembre 2016

Il lutto del protagonista

Guardo un sacco di tv.
Tv.
Non solo telefilm (che adesso bisogna chiamare "serie tv" se no la gente pensa che tu stia guardando roba tipo "Walker Texas Ranger" o "Melrose Place"), guardo un casino di docureality, soprattutto sui grandi omicidi americani.
Funziona così, si parte con un paio d'inquadrature ad cazzum di casette e alberi/cespugli/fontane e poi bang! il bel cartello della classica cittadina americana tranquilla tipo "MACON - Georgia - Casa della gente perbene che va in chiesa e non va in giro ad ammazzare altra gente".
SEMPRE.
In sottofondo una voce bassa comincia a descrivere l'idilliaco posto che state vedendo.
"La cittadina di Macon, Georgia, è un luogo tranquillo, la gente perbene va in chiesa e nessuno si aspetta che il male si nasconda dietro una di quelle case".
SEMPRE. NESSUNO SI ASPETTA MAI UN CAZZO DI NIENTE. VABBE'.
Dicevamo, nessuno si aspetta che il vicino ad esempio sia un pedofilo assassino, nessuno si aspetta che "il tranquillo adolescente silenzioso" della casa in fondo alla via sia in realtà uno spietato torturatore di marmotte. Nessuno.
Poi però ci scatta il morto, di solito una ragazzina in bici.
Tra una ricostruzione e l'altra ci sono i vari testimoni, sbirri e familiari che parlano della vittima. Una cosa molto triste, soprattutto perché, a detta loro, NESSUNO SI ASPETTAVA CHE IL MALE BLA BLA BLA.
E io li guardo.
Sono stravolti dal dolore. Li vedi. Guardi il loro groppo in gola e ascolti bene le loro pause. Sono lì, anni di unghie conficcate nei palmi delle mani, pugni serrati nascosti nelle tasche dei cappotti, mascelle tirate e occhi assenti. il dolore e la rabbia di chi ha amato e perduto.
Ma sul momento?
Cosa succede quando il dolore è lì? Cosa prova il padre della bambina in bici quando gli dicono che la figlia è stata ritrovata in un cestino dell'immondizia?

Gli attori dei docureality sono di solito solo fantocci che recitano 4 frasi in croce, le bionde di solito fanno facce stranite tipo questa:



Gli uomini si limitano ad avere una birra in mano e allargare le braccia. Stop.
E quando la ferale notizia raggiunge i fantocci, loro scimmiottano facce al limite della decenza, i più scafati si coprono la faccia con le mani. Perché il dolore non è mica roba da tutti. Rendere vero il dolore è come riuscire a far ridere: non basta una cipolla per piangere o una battuta su Jennifer Aniston che esulta sulla fine dei Brangelina per far ridere.

Così, una volta abbandonata Macon in Georgia e i suoi fantocci che si dannano di dolore per la morte della bambina in bici, guardo cosa mi consiglia YouTube.

Ed eccola lì, un'altra roba strana, Julia Louis-Dreyfus che riceve un Emmy.
Non per l'Emmy, figuriamoci, io le darei le mie cornee se solo Julia me lo chiedesse.
E' per il discorso.

Parte in modo splendidamente irriverente, paragonando l'attuale stagione di "Veep", il telefilm in cui interpreta una totale imbecille che combinazione, è anche il vicepresidente degli USA, alla realtà, con chiaro riferimento a Donald Trump e al suo essere un cretino totale.
Poi le mani tremano, la voce si rompe, i singhiozzi partono. Il premio è dedicato al padre, scomparso venerdì.
Cioè, quel venerdì.
La reazione del pubblico è un "OHHHHHHHHH", a metà tra "povera cara..." e "MA CHE CAZZO CI FAI QUI AGLI EMMY CAZZO? IO STAREI ROTOLANDO SUL PAVIMENTO DI CASA BAGNATA DALLE MIE LACRIME!".

Ancora adesso, riguardandolo, non capisco se piango:

A) Per i miei ormoni
B) Per il dolore immenso che guida quelle mani, quegli occhi bassi e quella voce.
C) Per il totale smarrimento, per il mio guardarmi intorno e non capire come si faccia a vivere con quel dolore così grande e riuscire comunque ad essere lucidi e superiori al resto del genere umano (Julia, ti amerò sempre, forse anche di più dopo tutto questo)

Il dolore per la dipartita di un proprio caro forse varia a seconda del modo in cui il caro se ne va.
La mamma del piccolo Tommy (ve lo ricordate? Quel bambino di 18 mesi rapito nel 2006 a Parma e trovato morto dopo qualche mese?) dice in un altro di questi stramaledetti docureality, che non appena qualcuno che non ricordo le disse che avevano trovato suo figlio morto lei aveva perso i sensi, stramazzata al suolo e incapace di ricordare qualsiasi cosa nei giorni seguenti.
Se invece il proprio caro muore dopo una lunga battaglia con un male terribile, allora il dolore si trasforma in agonia del ricordo, per cui due giorni dopo la sua morte fa male il pensiero che ormai sia tutto un ricordo, che il dolore, fisico o mentale, sia volato via, che a far male sia rimasto solo il dover ricordare e non poterlo più vivere.

A scrivere tutto ciò mi sento come Carrie Bradshaw mentre si faceva tutte quelle domande cretine sui single tipo: "Quando le cose sono troppo facili siamo portati a sospettare. Devono diventare complicate prima che possiamo crederle reali? Ci serve il dramma per far funzionare una relazione?o merda del genere.

Una roba tipo "Death and the city".

La lezione del giorno è che gli attori fingono bene, ma la tremarella alle mani ti tradirà sempre, sia nel dolore più profondo sia mentre leggi un discorso al matrimonio del tuo miglior amico. L'emozione fa parlare le mani.
Che è una delle scuse più usate da quelli accusati di aggressione, per dire.

mercoledì 7 settembre 2016

La cassetta di Bon Jovi

Accendo Spotify.
Scopro cosa mi offre la "Discover Weekly".
Mi metto una felpa. Guardo fuori dalla finestra.
Inizio.
Un altro Ars Moriendi sta per vedere la luce.

Mentre parte "Eyes without a face" di Billy Idol mi rendo conto di essere pronta per darvi una grande lezione. L'ennesima sulla vita adulta. L'ennesima sul passaggio da coglioni ventenni a condannati trentenni. 

A otto anni circa la mia preoccupazione maggiore durante l'estate era non fare amicizia con i bambini in spiaggia. Era così, non che avessi problemi nel socializzare o roba del genere, no, semplicemente volevo farmi i cazzi miei. Il mercoledì c'era Topolino in edicola, ogni giorno alle 16 passava il gelataio, un pover'uomo di 90 milioni di anni con un enorme frigo bianco che ciondolava da una bretella blu saldamente ancorata alla sua spalla artritica che procedeva tutto curvo e pendente per chilometri di spiagge bollenti, i vu' cumprà che vendevano musicassette improbabili, occhiali da sole che avranno bucato negli anni milioni di retine, braccialetti portafortuna di ogni tipo di colore che urlavano ESTATE da ogni loro filo per poi portare una sfiga talmente raggelante che avresti preferito tagliarti i polsi piuttosto che averli pieni di quella merda.
Le mie estati erano tutte così, una la fotocopia dell'altra. E io le amavo moltissimo.
Ma un anno vinsi un premio, il ché rese quell'estate la migliore di tutte.

Era l'estate del 1990, quella per intenderci, di "Notti magiche", della Nannini e Bennato che risuonavano in ogni bagno, in ogni bar, sotto ogni ombrellone. Specialmente sotto quello dei miei vicini di ombrellone.
Avevano solo quella cassetta.
Finiva il lato A, subito s'infilava il lato B.
Sempre la stessa fottutissima "Notti magiche". 

Ormai leggere Topolino era difficile, in ogni vignetta s'insinuava un "inseguendo un goooooal" e Basettoni ormai viveva perennemente "sotto un cielo di un'estate italiana". Un vero incubo "non è una favola ma dagli spogliatoio escono i ragazzi e siamo noi", per capirci.

Così una sera, come vi dicevo, vinco un premio.
Mentre sono in cabina telefonica con in mano pochi spiccioli per urlare a mio padre l'ennesima bugia "SIIIII STO FACENDO LA BRAVA", noto un luccichio. Il luccichio tipico dei premi e dei tesori.
Sopra al telefono qualcuno aveva dimenticato un walkman. UN WALKMAN.
E dentro al walkman una cassetta di Bon Jovi. Capisco la delusione, ma finalmente avevo un'arma contro Bennato e la Nannini. A colpi di "Livin' on a prayer"mi godetti il silenzio, il mio silenzio almeno.
Il mio isolamento estivo accelerava, il walkman era stato il mio upgrade definitivo.

Nessuno mi guardava, nessuno mi degnava di uno sguardo attento, nessun bambino veniva a chiedermi di giocare. Io dal canto mio non sentivo, avevo un paio di cuffie e un italo-americano biondo che mi urlava nelle orecchie.



Nel 1989 uscì "See no Evil, Hear no Evil", un bel film con Richard Pryor e Gene Wilder. Nel 1991 il sequel "Another You". Sarebbe stato l'ultimo film di Wilder. Forse fu l'ultimo film figo in cui recitò Richard Pryor.
Erano quelli gli anni croccanti, gli anni in cui il tuo attore preferito era Gene Wilder che sembrava sempre spelacchiato come tuo nonno, in cui Richard Pryor si sposava sette volte e abusava di cocaina, Totò Schillaci era un idolo nazionale e la vita sembrava lontana dalla morte. Le ultime estati leggere.

Poi leggi che Gene Wilder è morto. E pensi "cazzo, sono vecchio, sono vecchio, SONO VECCHIO"
L'estate è la montagna, le ferie in cui devi sempre avere il cellulare acceso, non puoi dormire in macchina ma fare da navigatrice. Tua madre ti chiama solo per sapere se hai fatto le lavatrici.
Nessun ombrellone, nessun vecchio sciancato che ti porta un Cucciolone tre strati, nessun vicino di ombrellone. Infinite foto di un millenario che avevi lasciato quasi sessantenne nel 1990 scorrono sul tuo smartphone, tutto è un furore di hashtag, hashtag per salutare qualcuno per sempre. Non mi ci abituerò mai. 
#AddioGene. Che cazzo è? Uno muore e tac, la lapide grafica è un cancelletto? #RIP. Agghiacciante.
In quell'estate del 1990 il cancelletto non so nemmeno se esistesse già nei telefoni della Sip.

E' arrivato settembre. L'estate 2016 è già stata archiviata. E con lei quella del 1990.

Ora che Gene se n'è andato non rimane che aspettare che il tristo mietitore colga qualche altro simbolo di quegli anni.
Uan.
Mauro Serio.
Luciano Onder.
Totò Schillaci.

E allora sì che potremo salutare con la manina i nostri ricordi infantili, infilarli in un baule insieme ai corpi dei miei vicini di ombrellone di "Estate '90", metterli in soffitta e continuare a camminare inesorabilmente verso gli 'anta, ovvero "quando porteremo i nostri figli fatti grazie al #fertilityday al mare dai nonni e noi dovremmo sorbirci le loro chiamate che alla fine ci spunterà pure la lacrimuccia mordendoci le labbra pensando che sono lontani, ma sono nella loro estate migliore".

#AddioGene
#ilcancellettoveroèquelloSip







lunedì 23 novembre 2015

Il freddo rintocco dell'autunno parigino.

Sono mattinate, queste di metà novembre, molto fredde.
Ho freddo.
Mi metto la sciarpa, infilo i guanti di lana che mi ha regalato mia madre, mi calo la cuffia calda sulle orecchie.
Eppure ho freddo. 
Un freddo che non passa, quello che di solito ti s'infila nelle ossa e ti passa solo dopo ore passate sotto il caldo abbraccio di una coperta mentre ozi sereno.
Ho talmente freddo che alito sulle dita mentre aspetto il bus.
Mi si gela il moccio nel naso.
Ho la temperatura corporea di Peter Falk.

Tutto ciò mi porta a credere che in realtà il mio freddo venga da dentro.
Quella scomoda sensazione di vuoto mischiata al dolore del sentirsi troppo vecchi per qualcosa, troppo stupidi per certi compiti, troppo in gamba rispetto ai cretini e troppo fregati dalla vita in generale.
Come guardare una puntata qualsiasi di "Everwood" dove il dottor Brown deve dare o ricevere una brutta notizia. 
O guardare una puntata di "Everwood" in generale.

Non c'è un modo semplice di parlare di un morto. Nemmeno di uno morto e stramorto. 
Non è facile parlare del faraone Tutankhamon, ad esempio, anche se è talmente morto che la sua memoria è già stata distrutta da una serie tv mediocre (per l'amor di Dio non guardate mai "Tut - il destino di un faraone", piuttosto esalate l'ultimo respiro sulle repliche di "Everwood"). Non è facile spiegarvi nemmeno cosa si prova di fronte alla morte: io, ad esempio, non ho retto l'impatto con la crudele sorte di Oberyn Martell e mi sono rifiutata di vedere "Game of Thrones" per quasi 12 ore.
Se non è facile scrivere di un morto o parlare delle nostre emozioni di fronte alla nera signora, figuratevi prendere l'enorme fagotto di sangue, morte e devastazione con cui abbiamo avuto a che fare dopo venerdì 13 novembre. In tutto questo polverone di emozioni mal gestite e soluzioni politiche alla MacGyver, abbiamo provato a capire e parlare, a confrontarci, soprattutto ad essere solidali con i nostri simili. Con esiti, prevedibilmente, disastrosi.
Abbiamo scelto di affidarci alle bandiere.
Poi, subito dopo, a lamentarci con chi non sceglieva la bandiera di quel paese o di quell'altro.
Abbiamo classificato i morti in "morti di Seria A" e "morti di Serie B".
Abbiamo cominciato ad aver talmente tanta paura da voler fare corsi di primo soccorso per imparare la manovra di Heimlich (pare che in un attacco terroristico la manovra di Heimlich, come difesa, sia inutile. A meno che non si elabori un attacco a base di strangolamento tramite Kebab)
Abbiamo cancellato viaggi di piacere. Anche se la meta fosse San Giorgio di Piano, è comunque pericoloso muoversi.
Abbiamo cancellato concerti. Ballare è pericoloso. Cantare pure. Farlo insieme è da pazzi.
Abbiamo litigato, abbiamo chiesto le bombe, abbiamo preteso scuse dalle persone sbagliate.
Abbiamo postato articoli pro, contro, a favore, in ricordo, di denuncia, anacronistici, con le mappe interattive, con i comici tedeschi.
Abbiamo capito che conosciamo persone che sono state a Parigi.
Abbiamo capito che a Giovanardi non piacciono gli Eagles of Death Metal. Possibilissimo che agli Eagles of Death Metal non piaccia Giovanardi.



Di alcuni di quei 129 morti parigini conosciamo il vuoto che hanno lasciato. Percepiamo il freddo di quel vuoto. Le lacrime del vedovo, del fidanzato, della madre le abbiamo sui nostri schermi insieme ai corpi accatastati e alle virgole di sangue che segnano il Bataclan. Di tutti gli altri ci preoccupiamo delle bandiere senza sapere che per molti paesi è solo un brandello di stoffa che sventola sopra macerie e morti che non ricordiamo perché siamo già stanchi di doverci incazzare per i nostri amici francesi che non possiamo poi farlo per tutti tutti. 

E insomma io non trovo nulla di meglio da scrivervi se non questo triste elenco di reazioni.
Perché è questa la mia reazione a caldo, sentire il freddo del vuoto, cerebrale altrui e di un lutto troppo grande e vicino per essere metabolizzato.
Allora, vi chiedo un favore. Vista la nuova ondata di gelo che ci aspetta all'approssimarsi del funerale della nostra connazionale, dove ogni politico parlerà e criticherà l'avversario di strumentalizzare i morti, dove ognuno di voi esprimerà per forza la propria opinione, dove non saremo immuni dal classico "R.I.P" scritto vicino al classico articolo condiviso, ecco cosa dovreste fare in caso io muoia per mano di un manipolo di disperati (che siano quelli dell'ISIS o i fan di "Everwood"):

- Vi prego scegliete una mia foto decente. Nel caso potrete sceglierne una tra quelle del mio viaggio in Provenza del 2010. Mi raccomando. Se mai finissi come tragedia del giorno da Del Debbio mi piacerebbe avere un bel faccino.
- Al mio funerale mettete in loop i seguenti pezzi: "Non, je ne regrette rien" della Piaf, "Feeling oblivion" dei Turin Brakes e "Brown eyed girl" di Van Morrison.
- Non fate intervistare mia madre.
- Nella risposta alla domanda "Com'era Federica?" evitate i seguenti termini: "lagnosa", "dolce", "simpatica". Piuttosto sostituiteli con "ragionevolmente incazzata", "sensibilona", "piacevole". E aggiungete "cacacazzi".
- Non fate intervistare mia nonna. Anzi, nessuna delle due.
- Non lascio nessun testamento d'intenzioni: odio tutti e lo farò per sempre.
- Dovrete tassativamente piangere. E parlare di "un talento che ci è stato portato via troppo presto" o qualcosa di simile.
- Visto che mi avete sfrantumato i maroni per venire ai vostri matrimoni in cappello o abito lungo ora dovrete ricambiare: cappello con veletta nera per le donne e completo nero per gli uomini.
- Ricordatemi sempre, ricordatemi tutti.
- Portatemi i fiori sulla tomba. E non finti, non fate i tirchi santo cielo.
- Divertitevi e bevete anche per me. Fate un funerale gipsy.
- Nessuna preghiera e nessuna opera di bene.

Vorrei silenzio e musica. Lacrime e risate. Il perfetto funerale di un bipolare.
Io, per l'appunto, che continuo a sentire il freddo di 129 vuoti nonostante sia sotto al caldo vento di un condizionatore e di una vita facile in un mondo che non è fatto per me.

La lezione di oggi è che non siete nessuno per dare lezioni agli altri. 
Se ci proverete sentirete molto, molto freddo.










lunedì 9 novembre 2015

La fregatura dell'aspettativa di vita: benvenuti nell'età adulta.

Partiamo dal fatto che io, in questo momento, potrei benissimo essere morta.
Se fossi vissuta (o meglio, sopravvissuta) nella mia amata Inghilterra medievale, a quest'ora, sarei già bella che defunta.
Una splendida aspettativa di vita di 33 anni.
Appena il tempo di compierli, soffiare sulle candeline, fare una visita oculistica e mettersi ad ascoltare cd esistenziali di Morgan e tac, la luce si spegne.

Ma soprattutto, la mia vita da 33enne, per ora, mi sembra inevitabilmente costellata di responsabilità da persona matura.
E, altrettanto prevedibilmente, non sono pronta ad affrontare nessuna di queste stramaledette incombenze.
Figurati, sono ancora qui che m'inquieto per il mio primo amore ascoltando i Marlene Kuntz.

La prima, schiacciante, responsabilità è quella di procacciarmi il cibo. Che visto che parliamo di aspettativa di vita nei secoli, la mia si avvicina a quella dei nostri avi cavernicoli. Soprattutto quando l'arrivo del mio stipendio non coincide con il periodo fortunoso del volantino Carrefour, quello con gli sconti migliori e i prodotti giusti.
La sintesi è che mi sto nutrendo di scatolette di tonno da sei giorni.
Roba che inizio a bramare le bustine del mio gatto.

La seconda problematica dell'essere adulti è la socialità.
Già mi è difficile rapportarmi con gli altri esseri umani, figurarsi a questa maledetta età. Devi sapere cosa si fa durante un rogito, conoscere gli usi e i costumi della tassa sui rifiuti, perfino essere scafata su tutte le voci della tua busta paga. E' tutto un cerimoniale di regole e cenni segreti che permea ogni aspetto della mia vita adulta.

Parole che entrano nella routine:
- contributi
- gomme da neve (sebbene io non guidi)
- compromesso
- ecografia senologica
- muco cervicale
- permesso
- rata

Parole che escono, trascinandosi via un pezzo di storia personale:
- bongo/bonghi
- cumpaz (compagnia, balotta, regaz. Quella roba lì insomma.)
- limonella
- terza birra media doppio malto
- vodka tonic
- 4 del mattino (Non esistono. Né per tornare a casa né per svegliarsi. Al massimo tornerà nella colonna superiore se avrò figli)
- festa di compleanno
- fuga

Adesso al massimo fai una "cena di compleanno", niente festa, tutti seri come ad un funerale. Pure i miei genitori si scordano del mio compleanno.
Anche per loro è meglio ignorare il tempo passa.




Terzo ostacolo pre-morte: sei troppo vecchio per avere altre chances.
Su tutto. Pure di procrastinare il pagamento dell'abbonamento del bus dal tuo edicolante che conosci da qualcosa come 15 anni.
Stop. Ormai sei adulto.
Il che comprende: smettere di dire parolacce altrimenti sembri una ragazzina volgare, smetterla di andare ai cortei per manifestare contro chi è più vecchio di te e sventola bandiere secessioniste e alza braccia al cielo per salutare vecchie cattive abitudini, smetterla di bere che poi ingrassi e i chili non li perdi più, smetterla di avere disordine e caos nella tua vita e nella tua casa, smetterla di pensare che avrai un lavoro migliore.
L'unica cosa che per ora ho smesso è di crescere di statura. Dal 1998 almeno.

Viviamo fino a 100 anni e a 33 siamo già morti, sepolti da scartoffie, responsabilità che molto spesso non chiediamo, ingiustizie che non possiamo combattere e precarietà.
Adesso e sempre, come a 20 anni.


Il periodo dei 33 anni è facilmente riassumibile con un'immagine.
Tu che sei lì, a fare il morto in acqua, mentre ti godi il sole, la brezza.
Galleggi, vieni sballottolato di qua e di là.
Pensi sempre che prima o poi ti metterai a nuotare ma in realtà, da lì a poco, l'acqua ti arriverà alle narici, poi ti entrerà nelle orecchie e ti sfiorerà le labbra.
In quel momento l'acqua comincia ad invaderti, lembo di pelle su lembo di pelle, fino a farti scomparire sotto, nel buio.
Ecco, l'acqua mi è entrata nelle orecchie.

Per favore, o torno nell'Inghilterra medievale armata di assi di pino e chiodi oppure piantatela di parlarmi di rogiti.



martedì 22 settembre 2015

Sulla morte di un curato di città

Ammetto candidamente che invocare il signore, ultimamente, è stato il mio sport prediletto.
Non mi giudicate troppo duramente, vi porto degli esempi:

es. 1: il gatto piscia sul divano. Due volte. Senza alcun apparente motivo se non l'avversione verso la nuova sabbietta. Pare preferisca la vecchia. Quella, per capirci, più costosa e infestante, nel senso che ogni volta che il suddetto felino esce dalla vaschetta dei bisogni, il mio bagno prende le sembianze del lungomare di Viserba. E non solo il bagno. La sala sembra Torre Pedrera.

es. 2: Adoro il mio nuovo lavoro. Adoro le colleghe, i medici, perfino il pakistano del ritiro campioni di laboratorio mi sta simpatico. Ma. Ma. Non posso minimamente lamentarmi ripensando ai vecchi tempi in cui l'oncologia mi rovinava pause pranzo, week end, ferie, Natali di Gesù, ma la perenne sensazione di sentirsi l'ultima arrivata a quasi 33 anni mi opprime. Ogni minimo errore che faccio è fonte di grande angoscia. Sono a rischio ischemia o bestemmia pesante. E mi sfogo.

es. 3: Sto per compiere 33 anni, la fatidica età di Cristo. L'imprecazione sa quasi di omaggio.

Proprio in questi giorni è venuto a mancare il parroco del mio quartiere, Don Tonino. 
Le campane della messa della domenica pomeriggio non hanno suonato. 
E' morto senza coronare il suo grande sogno: festeggiare i 50 anni cella sua chiesa. Che, ironia della sorte, saranno questa settimana.
Questo è quanto.
A parte il forte richiamo al telefilm anni '90 con Gigi e Andrea per cui impazzivo nonostante me la facessi addosso dalla paura, Don Tonino non è riuscito a rappresentare la spiritualità pura e la ricerca della verità nella mia vita nonostante i miei 10 anni passati in parrocchia tra catechismo e post-cresima.

Sì, potete smetterla di ridere.

L'idea dei miei genitori era quella di crescere una forte, atletica, ragazza cristiana.
Riesco benissimo a sollevare un pacco di 5 chili. Non so se rientri nella categoria "forza" o "atleticità", ma una su tre celo!
Tornando alla visione da hitlerjugend dei miei, io riuscì ad impormi rifiutandomi categoricamente di diventare coccinella scout.
Ma si sa, gli amici che avevo erano quelli del quartiere e l'unico posto vicino a casa di tutti era la chiesa. 
Così, di mia sponte, continuai a frequentare quel cubicolo di cemento consacrato fino a quando non capì di avere una strada diversa davanti. 
Per intenderci quella che mi si parava innanzi era una strada lastricata di punk, sigarette, musica, alcool e crolli di autostima. Ma comunque una strada migliore di tante altre, anche di quella sacra.



Il mio ex, ridentissimo, luogo di culto.


Don Tonino era un burbero curato di città. Un duro, scorbutico, chiuso cristiano. 
Non ricordo una carezza, ricordo i rimproveri.
Non mi viene in mente un dibattito.
Non un insegnamento.
Solo un sacco di cricchi in testa, discutibili foto del battesimo e la stanchezza della vecchiaia.
Ecco cosa mi è rimasto di Don Tonino.

E adesso perdono a pochi, pochissimi, di ricordarlo con amore. Lo permetto solo a coloro per cui lui pianse da amico e non da prete. A loro lo permetto. Ma alla moltitudine ipocrita che stanziava in chiesa, nella sua chiesa, no. Vorrei lo si ricordasse con lucidità e coerenza.
Un curato di città. Burbero e severo. Che apriva a pochi il suo cuore. Di certo non a me.

Così, mentre si avvicinano i miei 33 anni, sento la beatitudine scivolarmi dalle mani, mentre ricordo i miei dodici anni in quella chiesa penso a quanto sognassi libera. 
Ora sogno di dormire. Solo di dormire.

(And I’m holding on for dear life, won’t look down won’t open my eyes
Keep my glass full until morning light, ‘cause I’m just holding on for tonight
Help me, I’m holding on for dear life, won’t look down won’t open my eyes
Keep my glass full until morning light, ‘cause I’m just holding on for tonight
On for tonight)


Ora riguardo la mia strada, quella che fui costretta a prendere dopo essermi resa conto che esisteva un mondo fuori dai binari di una scelta obbligata di periferia.
Mi buttai senza saperlo su un binario costellato di scelte difficili e pianti facili.

Ma io sono quei pianti e quelle scelte, Don Tonino non mi ha spiegato niente in più e niente di meno. Ci siamo solo incontrati a metà strada, salutandoci con rispetto con un cenno del mento.

Quindi eccomi qui, tutta nevrosi e piscio di gatto, mi approccio fiduciosa verso il mio compleanno, l'ennesimo, il 33esimo. Cristo Edition. E no, non riscopro la mia spiritualità. Al massimo continuo a sperare in una vita nell'ennesimo modo sbagliato. 
Con il bicchiere pieno e la morte nella penna e nel cuore. 
La possibilità di una resurrezione e di una pacificazione del mio animo sarà possibile forse dopo la castrazione del mio felino.
Per ora stringo i denti, non mi arrabbio, non urlo, mi colmo come un enorme vaso, piena di rabbia e frustrazione. Piena di un vuoto spirituale che non so colmare.

(I’ve got thick skin and an elastic heart,
But your blade it might be too sharp
I’m like a rubberband until you pull too hard,

I may snap and I move fast
But you won’t see me fall apart
Cause I’ve got an elastic heart)


Lezione di oggi: quello che avete dentro o in testa, nel cuore o nelle viscere, che sia Shiva il distruttore o Gesù Cristo, vi metterà alla prova. Io lo chiamo tutti i giorni ma non risponde. Invidio chi ha la linea diretta. Io ormai lascio messaggi in segreteria, ma voi non demordete.