giovedì 18 ottobre 2012

La morte del mio primo Grande Amore

Ho deciso di andare alla radice di questa mia sofferenza emotivo/sentimentale/ritenzione idrica che predomina i miei stati d'animo e mi fa essere gioviale come un disastro aereo.
Qual è stato il mio primo grosso trauma sentimentale? Ovvio. La morte del mio amato.

Da bambina adoravo i cartoni animati. E fin qui, direi, tutto nella norma.
Guardavo "Holly e Benji" preparandomi alla catapulta infernale mentre mio padre imprecava contro Bruce Harper che s'inerpicava senza logica sulla traversa. Mi facevo pere su pere di puntate de "Il mistero della pietra azzurra" senza capirci un cacchio e gongolavo guardando il "Conte Dacula".
Ma poi, il dramma. Anzi, i drammi.
Cartoni strappalacrime stile "Milly un giorno dopo l'altro", dove la protagonista mezza orfana preda di sorellastre cattive passava un giorno di merda dopo l'altro. "Alfred il papero" che girava per il mondo trascinandosi il fardello emotivo della tragica perdita della sua famiglia: la signora mamma di Alfred aveva intelligentemente pensato di attraversare la Salerno-Reggio Calabria con al seguito 6 o 7 anatroccoli finendo sotto le ruote di una Fiat Ritmo guidata da suore.
E sorvoliamo su "Candy Candy".
Un giorno, sempre quel sant'uomo di mio padre, tornando a casa vede mia sorella in lacrime. Costernato le chiede che succede e lei risponde triste "E' morto Anthonyyyyyyyyyyyyyyyyy". Mio padre rimane a bocca aperta. Un compagno di classe? Un amichetto del parco? Qualcuno che dovrei conoscere?
"Nooooo" risponde mia sorella quasi seccata, "quello di Candy Candy!!!!!".
Immaginatevi l'espressione di disappunto mista a  schifo farsi strada sui baffi di mio padre, un incrocio tra Ned Flanders e Stalin.
 
Ma io la capisco mia sorella.
A me successe quando morì il mio primo Grande Amore.
André Grandier.
 
Ore passate ad immaginarmi alla corte di Francia, vestita e agghindata come Maria Antonietta, volteggiare nelle sale di Versailles mano nella mano, occhi negli occhi, con André Grandier, il migliore amico di Lady Oscar (approfondisco il concetto di "migliore amico": uno che per anni spera che una lesbica straordinariamente somigliante a Paris Hilton gliela molli in preda alla più profonda e disperata pietà).
Bello André. Bellissimo. Per tutta una vita vive accanto ad una donna che lo ignora, salvo poi scoprire di amarlo alla follia. Già. Peccato che il giorno dopo questa meravigliosa scoperta il povero André muoia, come si direbbe a Scampia, sparato. Il che non è tanto strano essendo un soldato nel bel mezzo della rivoluzione francese.
 
 
 
Calde, caldissime lacrime. Il mio André, il mio tesoro, quel piccolo remissivo bastardo. Eccomi lì, una bambina povera di 8 anni che se ne sta con il musetto incollato alla tv a piangere. Mia madre pensò mi mancassero delle diottrie e mi mandò dall'oculista (mia madre e il mondo dei sentimenti, due mondi distanti anni luce).
Persi il mio primo Grande Amore durante la rivoluzione francese.
Gli altri se ne andarono abbandonandomi di notte in un parco di Cervia o il giorno prima di San Valentino. Ma quelli non li rimpiansi nemmeno per un minuto.
 
La lezione di morte che vi do è una e una soltanto: non morite per amore. Anche perché scoprirete da soli che nel 99% dei casi morireste d'amore per la persona sbagliata.
 

martedì 16 ottobre 2012

Sparire come Houdini.

Ci sono giorni in cui si vuol sparire dall'intero universo.
Io passo ere geologiche a desiderare di eclissarmi sul mio divano nella più totale commiserazione della mia triste vita.
Sogno spesso di liberarmi di tutte queste catene emotive che negli ultimi mesi mi fanno sentire ancorata al terreno come la mela di Newton.
E allo stesso tempo fantastico su un'ipotetica fuga verso lidi pacifici e pieni di venditori ambulanti di burritos.
Con questo inizio scoppiettante degno dei migliori film di Amedeo Nazzari, introduco un personaggio che sapeva fuggire con più maestria di un ragazzo padre.
 
 
 
Harry Houdini era un escapologo. Cioè uno che riusciva a liberarsi da catene, camicie di forza, bauli sigillati o che riusciva a fuggire da celle, gabbie e stanze chiuse.
Harry Houdini era un pioniere dei "Ghostbusters": benché la sua vita si basasse sull'illusione, egli era un fermo combattente dei cosìdetti spiritisti e medium. S'intrufolava nelle varie sedute spiritiche insieme ad un poliziotto e smascherava il parapsicologo furfante di turno. TipoVanna Marchi.
Harry Houdini sposò dopo 3 settimane di corteggiamento ostinato sposò l'amore della sua vita, Bess Rahner.
Harry Houdini aveva una diatriba con Arthur Conan Doyle. Sì, Conan Doyle credeva negli spiriti, pensa un po'. Uno crea un personaggio come Sherlock Holmes e poi si perde dietro le gonnelle delle maghe. Tipo Vanna Marchi. Ma magari più sexy.
Herry Houdini morì la sera di Halloween del 1926 a causa di una peritonite. Le sue ultime parole furono "Se è veramente possibile a qualcuno tornare dall'aldilà, Harry Houdini lo farà". Giusto un pochino pretenzioso. Tipo i rossetti della figlia di Vanna Marchi.
Herry Houdini che non credeva agli spiritisti e pur di smascherarli chiese alla moglie Bess di fare sedute spiritiche dopo la sua morte, lasciandole un messaggio in codice. Se fosse davvero riemerso, lei lo avrebbe capito.
Harry Houdini non tornò mai. Dopo dieci anni, Bess spense la candela dandogli la buonanotte.
 
Caro Harry, ti lascio un messaggio dal mondo dei vivi.
Qui io non riesco nemmeno ad entrare in casa senza spezzare una chiave dentro la serratura del cancello.
E sì, io ci credo nei fantasmi. Ne vedo uno o due al giorno. Fantasmi o gente che si lascia vivere, stessa cosa.
E no, i ciarlatani non vengono puniti, se ne vanno in giro puliti e lindi. Tipo Vanna Marchi.
 
La lezione di oggi: Non tutti siamo come Houdini. Non tutti riusciamo a lasciarci i problemi alle spalle. Puf! Spariti. Ci vuole tempo. E credere ai fantasmi, aggrapparsi ad una speranza, ogni tanto, fa bene.
E poi pure Harry Houdini aveva i suoi trucchi.
 
 

giovedì 11 ottobre 2012

Anche i reali piangono. E le massaie no.

Un giovedì mattina qualunque a stirare. La terza stagione dei Tudors nel lettore dvd. Il mio mal di schiena dovuto a 13 gradini che venerdì sera mi hanno grattugiato vertebre e coccige tenuto a bada dal paracetamolo. Le premesse, signori, erano ottime.
 
Ma come capita sovente, la delusione arriva cocente tra un pantalone elasticizzato e un lenzuolo.
I primi 3 episodi del telefilm sono conditi da zero sesso, zero intrighi ed errori storici notevoli. Ma soprattutto zero sesso, che accompagnato dalla totale mancanza di sesso rendono tutto meno sessuale. Fosse stato per me, ci avrei messo più sesso.
Detto ciò, l'unica parte godevole (e nemmeno tanto sessualmente) è il matrimonio tra Enrico VIII e Jane Seymour. Pensavo, armata di Kleenex, che la dipartita dell'amata consorte proprio dopo aver partorito l'amato figlio maschio mi avrebbe fatto piangere fiumi di calde lacrime. Pregustavo già la faccia devastata ma sexy di Jonathan Rhys Meyers che urla "perchèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèè" mentre la bellissima mugliera si spegne di febbre puerperale.
 
Niente.
Il vuoto.
 
Mi siedo sul divano incredula. M'interrogo. Cosa può esser andato storto? Perché un'anima sensibile e incline al pianto come la mia è rimasta di sasso davanti a scene così struggenti da far piangere perfino Giuliano Ferrara ad una cresima?
 
 
 
La sceneggiatura. E' sicuramente la sceneggiatura. O la colonna sonora. Troppo poco struggente. Forse...La recitazione! Rhys Meyers sarà pure un'apparizione della Madonna di Fatima, ma ha i suoi limiti recitativi. Oppure, vuoi che siano le inesattezze storiche che da professionista mi urtano e mi desensibilizzano?
 
Credetemi, alla morte di Jane Seymour pianse pure il marito Enrico VIII, che di lacrime per le sue mogli ne ha versate più per la disperazione che per il tenero e sincero amore. Addirittura non si sposò per due anni dopo il lutto. Il tutto condito dal desiderio, esaudito, di essere con lei sepolto. Per Sempre.
 
Alla fine ho capito perché non ho versato nemmeno una lacrima.
Stavo facendo troppe cose alla volta.
Stirare, concentrarmi sui Tudors, allietare la vita delle persone a cui si vuol bene, rifare il letto, salvare la propria esistenza dal declino, pulire i vetri, farsi umiliare, preparare il pranzo, seguire menu su internet... etc.
E così mi sono distratta. E ho perso una cosa che volevo non perdere per nulla al mondo.
 
La lezione di oggi è che sì, anche un re autoritario, sanguinario, preoccupato e tendente all'obesità può piangere per amore e che sì, una massaia disoccupata, con cerotti per la schiena, malumore e tendente all'obesità può stancarsi di esser triste.
 
Massaie di tutto il mondo, UNIAMOCI!
 
 

mercoledì 19 settembre 2012

Bevo e scrivo. Scrivo e bevo.

"Dovresti scrivere un libro" è la frase che mi sento dire più spesso negli ultimi mesi. E' il nuovo slogan del 2012, che ha rimpiazzato l'obsoleto "Dovresti fare teatro" che andava avanti dal 2000.
 
Signore e signori, lasciate che vi spieghi come funziona la mia cosiddetta "diarrea creativa".
 
Il motore propulsivo del mio scrivere è la noia. O il bisogno di comunicare l'incomunicabile. A seconda delle giornate, delle sensazioni, dell'irrimediabile scazzo con me stessa prevale una o l'altra.
Forse, e questa è seriamente l'ultima spinta al mio scrivere compulsivo, è anche la mia tragica incapacità a farmi capire parlando, semplicemente coniugando suoni ed emozioni a farmi scrivere. Roba che dovrei girare con dei post it per fare determinati discorsi.
Sono una scrittrice. Mi sento di poterlo tranquillamente affermare. Anche perchè sono nata lo stesso giorno di un altro grande scrittore con cui condivido un'altra passione, oltre all'imbrattare carte.

Francis Scott Fitzgerald nacque il 24 settembre del 1896. Ed era un alcolizzato. E ha scritto il "Grande Gatsby". Io sono nata il 24 settembre 1982. Sono una sbronzona. E scrivo questo blog.
Io e Francis per ora abbiamo un sacco di cose in comune. Compreso il rapporto disastroso con le donne (per lui) e con gli uomini (per me) e la nevrosi costante. Inoltre entrambi siamo ottimi ballerini. Fino a poco tempo fa portavamo tutti e due una spavalda riga in mezzo.
Francis aveva una moglie schizofrenica di nome Zelda (curiosità, vi ricordate il giochino della Nintendo "La leggenda di Zelda"? Beh, il nome della principessa  Zelda viene proprio da lei), erano la coppia più "In" dei ruggenti anni '20, furoreggiavano e facevano sconquassi ovunque andassero. Poi la noia, gli scandali, Zelda che si dava da fare con un sacco di gente e Francis che menava tassisti per hobby. Si arrivò alla fine rapidamente: Zelda ricoverata per squilibri mentali e Francis che si attacca alla boccia. Le nevrosi lo ammazzarono il 21 dicembre del 1940. Zelda morì 8 anni dopo nell'incendio della casa di cura dov'era ricoverata.
L'amica di Francis, Dorothy Parker, si accommiatò da lui con un tenero e sincero "Povero, vecchio bastardo". La dice lunga sul personaggio.



Per quanto mi riguarda non sono ancora arrivata a scrivere capolavori come il caro Francis, ma sulla strada dell'alcolismo siamo pari. Io però spero di arrivare almeno a Natale. E spero che la mia Zelda non prenda fuoco. D'altronde, usando le sue parole, "A volte è più difficile privarsi di un dolore che di un piacere".
La lezione di oggi non c'è. Poveri, vecchi bastardi.

venerdì 14 settembre 2012

Tu riga dritto.

Vi avverto. Questa mattina il mio corpo è per l'80% composto di Jagermeister. 
Tuttavia oggi vi voglio parlare dell'amore. E della morte, ovviamente.
Sul primo argomento sono una chiavica, lo ammetto. Ma siccome sul secondo sono praticamente una maestra, ho scelto di parlarvi di una coppia inossidabile che parlasse d'amore al posto mio.
 
 
 
Un giorno come tanti sono sdraiata sul divano di casa che guardo una puntata de "La signora del west", un patetico telefilm western anni '90 su una donna medico. Appassionante come le finali di tresette del Centro Anziani sotto casa mia (che oh, quando Bertoni c'ha l'asso di denara vedi come cambia il clima). Beh, insomma, son lì a seguire l'ennesimo pneumotorace fatto in casa quando si palesa uno strano personaggio sullo sfondo. Un cowboy misterioso, sui 60/70 anni, tutto vestito di nero. Lo guardo bene. Salto sulla sedia.
Ma quello è Johnny Cash, Cristo!
Cosa diamine ci facesse Johnny Cash in un telefilm da 4 soldi non so, so solo che subito dopo appare una donnina dimessa, una specie di suorina laica.
E crocefiggimi Gesù se quella non è la moglie di Johnny, June Carter Cash!
 
Johnny Cash e June Carter si sono amati per 35 anni. E anche di più. Lei reduce da 2 matrimoni falliti, lui da uno. Lui fradicio di alcool, lei una fatina dalla voce dolce. Loro che insieme riscoprono il sovracitato Gesù. Lui che riga dritto. Che poi, volgarmente, è la traduzione del mio pezzo preferito, "Walk the line". Sì, perchè Johnny era un grosso paranoico alcolizzato. Uno di quelli che ingaggiava rissa e si chiudeva in se stesso a commiserarsi ogni volta che aveva due minuti liberi. Poi è arrivata June, calma serafica, sorriso tranquillo e due occhi chiari e sinceri. Un amore salvifico, un amore che per 35 anni ha unito due geni musicali fino al maggio del 2003 quando June ci ha lasciati. Lo ha lasciato. A settembre dello stesso anno anche Johnny ha deciso di abbandonare questo mondo lurido.
 
Io, ripeto, non ci capisco nulla d'amore. E a giudicare da ieri sera, dove 7 persone attorno ad un tavolo han parlato in scioltezza di sesso per ore ma arrivati all'argomento "amore" a momenti si scatena una rissa, siamo in molti a non capirci nulla.
Ma di morte me ne intendo, modestamente. Se per 35 anni hai vissuto nel cuore di un altro alla fine non puoi reggere alla sua morte. E così è stato per Johnny e June. Hanno attraversato dipendenze da alcool, matrimoni e divorzi, dolori e gioie. La morte li ha presi insieme.
Li invidio? Sì. Spero in un grande amore come il loro? Non posso permettermelo. Non sono June Carter Cash e sinceramente per addomesticare un Johnny Cash dovrei quantomeno avere di fronte un cuore grande che mi accolga dentro.
 
La lezione di oggi è lunga: l'amore fa schifo. E fin qui tutti d'accordo. Ma se per ogni Johnny, sperduto solo e alcolizzato, c'è una June, allora il mondo è salvo. Si risparmia anche sulle esequie.
 
 
 

giovedì 13 settembre 2012

Un morto in comune

E' vero, è vero, chiedo scusa. Faccio ammenda. Mi metto in ginocchio sui ceci.
Avevo cominciato questo blog con il precisissimo scopo di sollazzare la gente parlando di morte. E ci sono riuscita, credo. Nello specifico, parlando di gente la cui morte può essere definita "divertente".
E rinnovo le scuse perché da ora in avanti, questo blog, sarà più "introspettivo".
Lo so. Lo so. Quando qualcuno scrive la parola "introspettivo" rispetto a qualcosa, la reazione più comune è la voglia immediata di urlare e farsi prendere dall'isterismo sperando in repliche di "Grandi Magazzini" in tv.
Sono comunque sicura che apprezzerete.

La prima introspezione riguarda un morto che abbiamo in comune tutti. E' il cosiddetto "cadavere del nostro nemico".
Ho sempre adorato l'immagine di me seduta sulle rive di un fiume, in piena Val Padana, divorata dalle zanzare, che impassibile aspetto che passi il cadavere del mio nemico. O I cadaveri.
Non diciamoci balle, noi tutti speriamo che prima o poi davanti al nostro naso passi il cadavere del nostro primo amore, quello che ci ha lasciato con uno squarcio nel cuore e uno nel portafoglio, il cadavere della nostra maestra delle elementari con le sue paranoie cattoliche e le preghiere da recitare o quello del bulletto delle medie che alle superiori, se ti va bene, continua a fare l'ignorante altrimenti diventa il sindacalista molesto che ti fa sentire stupido e inadeguato. E continuerà a picchiarti comunque.

Ripensandoci però la maggior parte dei cadaveri che ho visto passare in questi anni sono, diciamo, "risorti". Può capitare che l'amico che avevi messo in guardia da un fantomatico pericolo decida di andarsene per i fatti suoi lasciandoti solo ed impotente. Può capitare che lo stesso amico s'infanghi in quel fantomatico pericolo. E tu, seduto sull'argine, lo vedi passare. Come fosse una regata del "Te l'avevo detto". Aspetti la conferma dei tuoi sospetti. Aspetti che quel cadavere venga verso di te e ammetta di aver sbagliato.  Una specie di rivincita karmica, ma non voglio infognarmi in discorsi karmici, ci sono istituti e religioni che lo fanno egregiamente al posto mio. Penso semplicemente che a volte il nostro miglior amico, fratello, compagno di università etc. possa trasformarsi di diritto nel nostro più tenace nemico, il più difficile da contrastare. Quando l'affetto si trasforma in mal sopportazione il passo verso il fiume è breve.



E allora ecco quel morto che tutti abbiamo in comune, quello che aspettiamo per anni, quello che magari passa quando noi siamo ancora in piedi. Il cadavere che si alza, ti mette una mano sulla spalla e ti chiede scusa. Noi, se non siamo scemi, sorridiamo ed accondiscendiamo. Basta con i musi lunghi o le facce ingrugnite alla Gabriel Garko.
Se la ferita del nostro nemico ancora fa male, allora, bisogna ributtarlo nel fiume. E tenergli la testa sotto. Maledetti nemici zombie.

La lezione di oggi è che aspettare sulle rive di un fiume, pazienti e granitici, il più delle volte ripaga. Ma se sulla riva opposta vedete il vostro nemico che aspetta, attenti a non finire nel fiume.
E ora scusate, mi alzo che a forza di star sull'argine ho il culo tutto bagnato. Vado a fare il cadavare per qualcun'altro.



 

mercoledì 12 settembre 2012

Sei morta un sabato mattina.

Il post, ieri alle 16 e 39, era già pronto ed impacchettato. Fatto. Parlava della morte di Jenny in Forrest Gump. Un bella coincidenza visto che ieri sera, facendo zapping, becco il film su Rete 4. Ma guarda un po'.
Ora, la visione di Forrest Gump da parte della sottoscritta è stata metabolizzata a dovere anni fa. Basta versare lacrime per Buba e i suoi gamberi, stop ai facili  isterismi davanti al povero Forrest che corre per schivare i bulli.
Ma più guardavo il film più pensavo al post che avevo scritto. Galvanizzata da alcuni commenti positivi e commossa dalla piaggeria di taluni, avevo cominciato a scrivere compulsivamente, stile schiacciasassi. Il risultato era divertente. Ma se la persona che scrive non ride da svariati mesi allora quello che ha scritto è falso, forzato. Detto tra noi, ho voglia di essere divertente come di sentire le lamentele di mia nonna sul suo pollicione in cancrena e sua mia cugina Gesica (sarebbe Gessica, ma mia nonna lo pronuncia alla francese. Credo) che è disoccupata, poverina (Già. Io invece mi ammazzo di lavoro). Scherzare sulla realtà, che ci vuole. Schernire la morte: diciamo che per farlo paradossalmente serve una dose di spensieratezza livello "Lino Banfi - allenatore nel pallone". Ora sono a livello "Luigi Tenco".

Così ho cancellato tutto. La morte non è divertente adesso. Oddio, almeno non nel caso di Jenny.
Personalmente considero una crudeltà verso il genere umano la scena del povero Forrest Gump davanti alla tomba della sua amatissima Jenny. Quel "Sei morta un sabato mattina" è come una fucilata che ti fa esplodere il petto in milioni di minuscoli pezzi.
 
 
 
La morte di Jenny è la morte più drammatica che io abbia mai vissuto cinematograficamente parlando. Sono sopravvissuta all'urlo di William Wallace, ho pianto senza fine per la morte del drago di "Dragonheart" (derisa da tutto il cinema, tra l'altro), ho affrontato tutti gli Harry Potter e ho imparato a convivere con la morte di Boromir ne "Il Signore degli anelli" solo dopo anni di terapia nerd.
Ma Jenny. Cristo santo, Jenny.
 
Forrest Gump affronta la vita con Jenny dentro al cuore guardando il cielo fondersi con la terra, dentro ai muscoli mentre corre per sopravvivere,  dentro la mente mentre pensa o parla. La sua vita E' Jenny.
Una mia amica una volta, tra le lacrime, mi disse "Quella puttana di Jenny gli spezza sempre il cuore!". Io, impassibile e granitica, la pensavo diversamente. Forrest Gump non ha avuto il cuore spezzato fino a quel sabato mattina, quando Jenny se ne va per sempre.
Perché, penso, non si può spezzare il cuore di qualcuno che ama in modo così assoluto e innocente.

Impassibile e granitica poi fino al momento in cui Jenny se ne va. Lì la mia esistenza vacilla in uno stato catatonico di stupidità adolescenziale.
E' il concetto di perdita che strazia il cuore. Un conto è se la persona che ami se ne va da te, si trasferisce, corre in Uganda ad aprire birrerie, veleggia verso città strapiene di opportunità lasciandoti solo come un verme. Puoi startene lì alla finestra ad aspettare che torni fino alla fine dei tempi o annegare la tua tristezza in galloni alcool. Un altro conto se la persona che aspetti non tornerà perché, biologicamente parlando, se n'è andata. E' un discorso semplicistico, avvolto in un semplicistico cattivo umore che m' impedisce di scrivere tomi sulla filosofia della morte e della perdita e mi fa affidare questa semplice riflessione a Robert Zemeckis e Tom Hanks.
 
La lezione di oggi non è semplice. Se ami qualcuno e hai la forza di aspettarlo per mesi, anni, ere geologiche allora fallo. Se hai fortuna tornerà da te. Altrimenti ci pensa la morte.