domenica 7 luglio 2013

L'erba voglio non cresce nemmeno nel giardino di Mark Hughes.

Un tranquillo venerdì leggendo Quit the Doner su Vice (se non sapete di chi io stia parlando allora urge un corso fai-da-te che compirete in totale autonomia: http://www.quitthedoner.com/ )scatta l'illuminazione. Un Ars moriendi già confezionato. Un uomo talmente ridicolo, la cui morte sembra un brutto copione di un film di serie B interpretato da Giuliano Gemma che mi ripeto che no, non posso sfruttare tutto questo ben di Dio solo riportando la sua biografia da Wikipedia.
Intanto, per cultura vostra, vi linko il pezzo che ho letto su Vice. Così avrete una base ed entrerete anche voi nel fantastico mondo di Herbalife e soprattutto nel magico mondo della suburbana Vignola-Bologna: http://www.vice.com/it/read/herbalife-italian-summit-2012 .
 
Il resto, conoscendovi potrei citare nomi e cognomi di ognuno di voi, resterà col culo peso e la mano morta ad aspettare che io compia il mio solito dovere e vi racconti la storia del morto del giorno.
E visto che non posso sottrarmi al mio dovere nemmeno durante il riposo domenicale, allora comincio.
 
Parlo a nome di tutti i grassi del globo. Parlo a nome di coloro che prima agilmente entravano nei soliti jeans e ora comprano tute sformate da Decathlon la domenica mattina. Parlo a nome di coloro che vedendo, e soprattutto sentendo, Gianluca Mech, guru di Tisanoreica, vorrebbero d'istinto divorare la produzione mondiale di burritos. Parlo a nome di tutti gli obesi che non hanno un anno per rinascere, ma magari un bypass per sopravvivere.
Parlo soprattutto per me.
Da agile gazzella appesantita da un filo di pancia dovuto all'abuso smodato di birra fermentata in qualsiasi modo, nazione e botte di rame, a giovane cucciola di lamantino, sformata dalla noia, dalla carenza monetaria e dallo stress che mi ha gonfiato stile palloncino di Spongebob, quello che alla Festa dell'Unità compri dopo esserti scolato 14 Ichnusa e scopri comunque di avere ancora 2 euro nel portafoglio.
Data la mia obesità che mi permette abiti all'ultimo grido provenienti da una  boutique di punta di Kabul, decido di rimettermi in forma a modo mio: tornare dalla mia dietologa, il mio Buddha, la mia signorina Rottermeier e vedere come va'. Cibi sani, attività fisica e meditazione. Di solito funziona.
 
 
 
Ma ci fu qualcuno che anni fa ebbe la cosiddetta "idea geniale".
Mark Reynolds Hughes a 19 anni vede morire la madre a causa di un cocktail di farmaci e droghe usato per perdere qualche chilo (io non c'ho mai pensato pur avendo la casa murata di farmaci e amici dalla fedina penale unta e bisunta). Il poveraccio rimane solo al mondo e comincia a slavoricchiare in qualche azienda, ma pare che la sfiga gli si sia appiccicata addosso perchè le due aziende per cui lavora falliscono in breve tempo. Ma poi, come in una splendida fiaba, spuntano i nonni che mettono mano al portafoglio insieme ad altri volenterosi che credono nelle abilità di venditore di Mark e pouf! nasce HERBALIFE.
Herbalife è una sorta di grande concetto umanitario: con infusi, erbe, pasti, integratori e altre varie minchiate stile pasto da astronauta americano del 1966, puoi liberarti dei chili in eccesso in maniera sana e naturale. Ma, che tutto ciò possa corrispondere al vero o meno, Herbalife è famosa soprattutto per il solito sistema di vendita del tipo "Cari giovani disoccupati, comprate il kit a 130 euro, vendetelo a chiunque conosciate, sognate di diventare ricchi come me, ballate alle convenscion e idolatrate il capo".
Adorare il capo. Il grande Mark Reynolds Hughes. Quello che "la morte della mamma mi ha colpito talmente tanto che insegnerò alla gente ad essere magra con le erbe naturali".
Ecco.
Lui.
Trovato morto per abuso di alcol e antidepressivi.
Forse aveva finito il beverone all'artiglio di drago, banana e mango.
 
Mark ha avuto un'idea geniale. Lo sostengono i suoi milioni di dipendenti. E forse pure Cristiano Ronaldo che campeggia nella pagina ufficiale di Herbalife come testimonial.
Sta di fatto che il lamantino che è in me confida molto di più  nei rotolini di breasola con Philadelfia e un filo d'olio e nella obesità rassicurante di Christina Aguilera piuttosto che in un frullato rosa fluo stile casa di Barbie in acido  di un tizio morto bevendo alla tracanna stile Amy Winehouse e peggio fatto di John Belushi.
 
La storia di Mark è illuminante per molti motivi. Il più lampante è che, come al solito, io non ho capito un cazzo.
Chi me lo fa fare di lavorare 27 milioni di ore in un ospedale, consumare banane, yogurt e fare squat tipo soldato Jane e cercare di avere uno stile di vita, non dico sobrio (parola che per inciso non  mi appartiene più dal 1999) ma normale, quando potrei cambiare stile di vita e girovita bevendo e vendendo frullati? Me lo suggerisce anche il ghigno sornione di Cristiano Ronaldo.
 
La lezione di oggi è che se volete dimagrire, non chiedetemi come fare. Chiedetemi quanto si potrebbe guadagnare.
 
Dedicato a tutti gli obesi in lotta. Pugno in alto e sugna sulla t-shirt. Ce la faremo.
 

giovedì 4 luglio 2013

Pillole di morte: Agatha Miller in Christie in Mallowan.

Pochi sanno che ad un certo punto pure una donna posata, intelligente, curiosa ed acculturata come Agatha Christie sbroccò alla grande.
Era il 1926, dopo aver fatto il giro del mondo nel 1923, cresciuto una figlia e scritto "Poirot a Styles Court", Agatha crolla: il lutto per la morte della madre e la seguente richiesta di divorzo da parte del marito Archie, buttarono la giallista nella più cupa delle spirali.
Agatha Christie prese la macchina e scomparve per dieci giorni. La ritrovarono in un albergo di Harrogate sotto il nome dell'amante del marito. Progettava qualche sordido piano degno di un suo romanzo? Secondo un suo biografo sì. Voleva incolpassero il marito fredifrago della sua morte, forse infastidita dal banale clichè dell'esser stata cornificata con la solita, scialba segretaria. Dopo esser stata scoperta rintanata nell'albergo, la scrittrice si scrollò di dosso i problemi, acchiappò la figlia e se ne andò in vacanza alle Canarie. Il resto si sa: carriera sfavillante, il secondo matrimonio con un affascinante archeologo e la consacrazione eterna. Morì nel 1976, da gran signora.
Della scialba segretaria nemmeno l'ombra
 
 
 
Bella storiella. Già.
La mia cupa spirale invece è farcita di vino bianco frizzante, pizza alla cipolla e maxi divano su cui diminuire le diottrie guardando "Chi l'ha visto?" su un mini schermo. Ancor più probabile che il mio giro del mondo si componga di 5 giorni 5 passati in Trentino in una pensione stile "Shining" ma con baristi dall'accento alla Gustav Thoeni. In compenso l'unico uomo che "non" ho mi chiama "Giorgia".
Insomma, la mia vita, anche nella più misera delle sorti, si avvicina sempre più a quella di una suora comboniana piuttosto che a quella di una giallista sovrappeso degli anni '20 ( e '30, '40, '50, '60 e '70).
Ma almeno io e la mia eroina condividiamo un momento no. E se magari non posso ambire ad un avvenente archeologo, allora mi guarderò intorno al prossimo cantiere stradale.
La cazzuola ha pur sempre il suo fascino.
 

sabato 29 giugno 2013

E quindi uscimmo a riveder le stelle

659 euro.
659 euro di condominio da pagare entro il 10 luglio.
Sarà dura sfangarla questa volta. Soprattutto contando il fatto che ad ora non ho ancora visto il becco di un quattrino materializzarsi nel mio conto in banca, nonostante le 10 ore quotidiane di lavoro che mi smazzo nel reparto "Follia" di un noto ospedale bolognese.
Oggi tra l'altro la mia amata televisione 37 pollici, che da due anni campeggia in salotto, prenderà il volo, se ne andrà sotto l'ascella del mio ex coinquilino/ragazzo/miglior amico, meglio conosciuto come "il lutto", ovvero da quando se n'è andato, il vortice della tristezza, della solitudine e dell'incertezza del futuro sono diventati un lutto da metabolizzare.
Pensandoci, se fino a due anni fa quel 37 pollici proiettava i grandi classici di Real Time in cui speravo di partecipare come "Abito da sposa cercasi" o "Cercasi casa disperatamente", ora potrei candidarmi a "Obesi: un anno per rinascere", probabilmente fallendo.
 
 
 
E oggi mi muore pure la Hack.
Margherita, Margherita. Eri una donna che non si sarebbe mai fatta scoraggiare da 659 euro. Non avresti bestemmiato leggendo l'estratto conto della banca come invece ho fatto io. Non l'avresti fatto soprattutto perchè non avrebbe avuto senso per te insultare qualcuno di cui negavi pervicacemente l'esistenza. Eri tosta, cazzuta, una di quelle che non si ferma mai, che lotta per chi non può farlo. E mi vengono in mente due frasi.
 
"Per aspera sic itur ad astra", attraverso le asperità alle stelle. Scorticandoci, cercando di sopravvivere una settimana in più, possiamo andare avanti, possiamo sperare di comprare una televisione nuova, possiamo sperare di pagare i nuovi condizionatori montati da tua madre con un tempismo diabolico (ora i 4 gradi e mezzo di fine giugno sono a prova di ogni scalmana). Sperare, alzare il mento e guardar le stelle cercando di non affogare. Sperando di arrivarci a quelle stelle.
 
E poi quella splendida frase di Confucio "le stelle sono buchi nel cielo da cui filtra la luce dell'infinito". La lessi per la prima volta su Dylan Dog. E la trovai bellissima. Inquietante, romantica e diversa. Le stelle così belle, disegnate con le punte e colorate di giallo da tutti i bimbi del mondo, in realtà sarebbero buchi.
Buchi da cui filtra luce, un velo traforato che svela qualcosa che non conosciamo.
Chissà cosa c'è dietro, dentro e attorno alle stelle. Forse la Hack, tra una litigata con Pippo Baudo e Berlusconi, lo sapeva. E lo sapeva talmente bene da aver stampato sul viso il sorriso del saggio, di colui o colei che tutto sa e tace sorridendo.
 
Allora vai Margherita, vola in quei cieli bucati sfiorando l'asteroide col tuo nome, l'8558 Hack.
Io non ambisco a dare il mio nome ad un asteroide, conoscendo la mia sorte potrei attirarlo con la mia negatività a passare la serata sul mio divano a guardare mesti ciccioni americani fare  spesa su una carrozzella con un paio di dozzine di coupon su un misero  22 pollici.
 
E allora affrontiamo le asperità.
Eddaje.
Aspettando uno stipendio.
 
La lezione di oggi è che le stelle son difficili da raggiungere, mi accontento di guardarle. Ma da sola sta diventando difficile.
Resti qui sdraiato a guardarle con me?
 

domenica 23 giugno 2013

Un anno in ballo.

Sabato ho preso armi e bagagli e son partita.
Ho deciso di seguire il consiglio della mia psicologa: fare quello che mi fa stare bene.
Così arrivo alla decisione di prendere un treno per Camposanto. Decisamente particolare, lo so.
Un bel vestito, un cambio per la notte, un biglietto d'auguri e la macchina fotografica.
Sono andata a Cavezzo. Sì. Cavezzo. Paese completamente stravolto dal terremoto dell'anno scorso. Sono andata a Cavezzo pensando di trovarmi a Dresda post bombardamento. Roba del tipo "ma vedrò campi e container?" "Devo portare viveri?" "Cosa farebbe Bossari?". Tutto questo dopo la scossa di venerdì.
Comunque, sono andata a Cavezzo.
Per il compleanno della mia amica Giuly.
La mia splendida amica Giuly che quel giorno di maggio dell'anno scorso ha percorso col cuore in gola la sua via sperando di vedere la sua casa in piedi. La stessa Giuly che per il suo paese ha scritto un semplice striscione colorato. Questo.
 
 
 
Io pensavo di vedere luoghi devastati. Disperazione. Ho visto bar aperti, edifici transennati, striscioni pieni d'orgoglio e tanta vita. Moldavi che suonavano in una balera come se non avessero un domani, vecchi che giocavano a briscola, gente che ruba alla COOP con il Salvatempo. Tutto normale, tutto liscio.Detto da una che è scesa a Camposanto.
Racconti di terremoto, di progetti spezzati, di ragazzi che han dovuto reinventarsi una vita. Ma anche di nuovi fidanzati, di ubriacature moleste e cantanti di nicchia. 
Ma anche di annunci mortuari che riportano frasi del tipo "Paolo, da tempo ricoverato presso la casa di cura XY, dopo il sisma dello scorso anno aveva visto il suo corpo indebolirsi e ha lasciato i suoi cari dopo anni di lotte". Il povero Amedeo invece non è nemmeno arrivato ai 100.
 
 
 
La mia amica Giuly lavora come un mulo e intanto scrive la sua tesi di Archeologia. Oggi lavorava al concerto dei Rio a Mirandola, altro luogo disastrato, il cui castello sembra un drago ferito appoggiato al suolo che tremando ha sfasciato la mia Emilia. Anche se quello che mi devasta è l'aver scoperto l'esistenza dei Rio. E il fatto che abbiano delle groupies.
 
 
Si trema quando si ha freddo, quando si piange di dolore puro, quando si è superato uno schock come sfuggire ad una calamità naturale o ad un incendio, quando si esce dal mare dopo un bagno. Noi, io almeno, non voglio tremare. Nemmeno Giuly. Nemmeno Frankie, la mia amica che scampando ad un incendio adesso stressa hipster/snob/chicconi con Vasco (dev'essere lo sgomento dell'impatto con la morte).
 
Basta tremare.Siamo in ballo e allora balliamo.
 
La lezione di oggi è che la tua vita la devi spendere bene, non sai se sarà la tua casa a crollare o quella dei vicini a prendere fuoco: le scale per la stazione che tremano e tu che pensi a casa, le scale che percorri col fumo negli occhi e il cuore che rimbalza nella testa.
Prima di rimanere schiacciati dalla vita, e dalla morte, alziamo la testa, solleviamo il nostro bicchiere e sorridiamo.
 
Io, finalmento, l'ho fatto.
Grazie Cavezzo.
 

mercoledì 12 giugno 2013

Ragazzi col ciuffo e col califfo.

A volte Ritornano.

Un anno fa uscivo dall'ospedale.
E ora, in un ospedale, ci lavoro.
Possiamo considerare questa fase della vita in modo infinito. Mi spiego. Prendete il numero 8, giratelo di 90 gradi e otterrete il simbolo dell'infinito. Partite dal centro e seguite la sinuosità della curva. Un sorta di parabola della sfiga che tende non solo a ripetersi, ma a girare da una parte all'altra, in modo ciclico e infinito, appunto.
Ecco, in questo momento sto arrivando al centro dell'infinito per poi tornare a curvare. Dal letto d'ospedale alla scrivania d'ospedale. L'umore è uguale, lo slancio simile e soprattutto mi sento ancora come se avessi un tubo che esce dal mio rene e mi costringe a fare pochi passi e ben misurati.
La verità è che parlare di morte tutti i giorni mi sta facendo salire una sorta di nausea incontrollata, un po' come tutte le stagioni di Grey's Anatomy in rotazione su ogni canale raggiungibile dal mio digitale.

A me piace un "Ragazzo col ciuffo".
Avete presente la canzone di Little Tony, "Ragazzo col ciuffo"? Beh, il ragazzo che piace a me adora questa canzone. Me la canta ogni tanto. Socchiude gli occhietti, ancheggia alla Elvis e intona un paio di strofe. E io ridacchio. Lo guardo trasognata. Gongolo quando mi canta "Ragazzo col ciuffo".
Ma sta di fatto che Little Tony è morto. E a parte le prevedibili battute sulle vendite in picchiata del Danacol, a me fa venire in mente che una parte del mio Cuore Matto ha smesso di battere.
Quella parte che non mi faceva dubitare delle mie capacità. Quella parte che mi ha sempre fatto dire "Oh, non sarò la cazzo di Megan Fox ma almeno non sembro Siusy Bladi". Quella parte che mi faceva prendere la vita con ironia e sarcasmo. Quella parte di cuore che regola il concetto di "orgoglio di se stessi". Nel mio caso era inattiva causa scarsa affettività genitoriale in età pre - adolescenziale, ma negli anni mi ero costruita un'identità precisa e un pezzo di cuore nuovo.
Adesso nessuno canta "Ragazzo col ciuffo".
 
Little se n'è andato. E mi ha portato via un pezzo del mio ragazzo col ciuffo.
La morte è bastarda. Perché mi ha lasciata senza ciuffo e senza Califfo.
 
 
 
Franco Califano è stato spesso protagonista dei miei sogni, ma non come sperava. Niente sesso o derivati, solo il Califfo che a Porta Portese, con la scusa di tastarmi le chiappe, mi ruba il portafoglio. Lui che mischiava vodka con acqua tonica, che raffreddava le tisane con un ventilatore tascabile da anziano ma che anziano non era. Lui e la sua noia.
Solo un genio poteva scrivere sulla lapide "Non escludo il ritorno".
E non lo escludo nemmeno io.
 
Datemi tempo. La ciclicità non mi è mai piaciuta.
 
La lezione di oggi è che un Cuore Matto e una Mente Scema hanno bisogno di Noia. Se non mi credete, guardatevi i grafici di vendita del Danacol.

lunedì 13 maggio 2013

Il potere di un bacio.

Quando stamattina ero seduta in una buia biblioteca ad aspettare il mio turno per essere esaminata ad un concorso, gestivo e calmavo i picchi di angoscia e colite nervosa pensando al potere di un bacio.
Una cosa che mette di buonumore, ti fa brillare gli occhi e ti convince di avere il mondo in mano. Un semplicissimo ed innocuo bacetto.
Son fortunata, in questi giorni mi sto umettando le labbra incollandole a quelle di un bellissimo bolognese oversize e la vita mi sorride. Aldilà della sgradevole sensazione di paresi, me la sto godendo più che posso dopo i giorni che mi hanno devastato l'anima.
E un bacio cos'è se non il famoso apostrofo rosa tra le parole "T'azzomperei addosso"?
Bisognerebbe chiederlo a chi di baci ne sa ben più di me, il baciatore più noto della storia, il latin lover di Piazza Firenze.
Giulietto Andreotti.
Me l'avete chiesto in tanti un Ars Moriendi dedicato al gobbo romano che ha infestato le nostre sacrissime istituzioni per quasi 70 anni e io vi rispondo così, alla francese.
 
Poco importa della sua carriera lunghissima, delle sue emicranie, del medico che lo visitò da giovane e ne predisse la morte in giovane età (lungimiranza: tipo mia nonna che mi fece il corredo di nozze quando ero ancora un embrione), chissenefrega della gobba: quello che di Giulio m'interessa è l'ars amatoria. E, scansando il matrimonio con la signora Livia, il bacio più bello, dice qualche pentito, è stato quello tra lui e Totuccio Riina.
Ora, non ho mai pensato a Giulio Andreotti come ad un gran beccapassere, mica aveva il fascino delle labbra di Craxi o la chioma unta ma tremendamente sexy di De Michelis, ma sinceramente non avrei mai pensato a certe sue tendenze, soprattutto essendo un fervente cattolico.
M'immagino quel bacio proibito, la musica in sottofondo come nel film di Sorrentino, gli occhi che si chiudono un po' per la vergogna e un po' per il desiderio. Zam! Una scossa, una scintilla, il suggello su un patto d'amore stato-mafia.
In 94 anni Andreotti ha fatto e vissuto cose straordinarie. Sette volte Presidente del Consiglio, otto volte ministro della Difesa, padre di quattro figli, nonno di "diversi" nipoti (nemmeno a Wikipedia è dato di sapere esattamente "quanti" nipoti avesse Andreotti), un processo durato 11 anni con ben 286 udienze, un fratello e una sorella, un bacio omosessuale e molte frasi celebri tra cui "A pensar male si fa peccato ma s'indovina".
Ecco Giulio, proprio per questo penso male.
 
 
 
E se Biagi diceva "Andreotti per non compromettersi non ha mai baciato neppure sua moglie", io scommetto che sotto sotto un pelo di verità ci sia anche in questa frase sardonica. La povera signora Livia che per anni ha sopportato l'assenza del marito, le accuse, il peso dell'educazione dei figli (tra l'altro 'sta cosa che anche Andreotti si sia riprodotto mi da un certo senso di vuoto del concetto di "la gravidanza come grande dono") ora dovrà rassegnarsi anche ad essere la moglie tradita. Al suo posto, Giulio, ha preferito la faccia rugosa di un anziano siciliano. Non è stata abbandonata a favore dell'abnegazione al lavoro o alla lotta al malcostume, no, ma per la gioia pura di un intrallazzo proibito.
 
La lezione di oggi è questa: mai scrivere post quando l'ispirazione mi viene dettata dal bassisimo e flaccido ventre corroso da una sana ventata di ormoni primaverili. E, se volete, anche che le cosiddette acque chete oltre a tirare giù i ponti li ricostruiscono con appalti mafiosi.

martedì 23 aprile 2013

Doo be doo be doo: ovvero come resistere agli urti della vita essendo Frank Sinatra.

Partendo dal fatto che non ho gli occhi blu, quindi già parto svantaggiata, avrei sempre voluto essere Frank Sinatra.
Sempre. Sin da quella volta, a 7 anni, chiusa dentro l'ascensore con mia madre, al buio, intrappolata, in cui mi misi a cantare "Strengers in the naaaaaaait memparinenscionsee". Sapendo solo quel pezzo lo cantai all'infinito, lacerando il cuore della mia povera mamma e dei poveri operai che si prodigavano nell'impresa di estrarci da quel maledetto aggeggio di latta che ancora oggi, intatto, continua a fare su e giù nel mio palazzo. Giurai di non prenderlo mai più se ne fossi uscita.
 
Sorvolando sul fatto che nemmeno costretta da Satana in persona farei mai 5 piani di scale e che quindi l'aggeggio di latta mi salva dall'enfisema tra le due e le quattro volte al giorno, io, quella sera buia illuminata dalle torce, pensavo di essere Frank a Las Vegas.
E d'altronde come non pensarlo? L'Italia degli anni '80, Bettino Craxi e Ezio Greggio, gli "yuppies" e il muro di Berlino, gli anni '90 alle porte, l'adolescenza che sarebbe esplosa.
E basta riguardare l'aggeggio di latta ora, 23 anni dopo. Solo la pulsantiera è stata cambiata. Del resto tutto, graffiti, vetri incisi, "Maresca stronzo" scritto sul muro tra un piano e l'altro.
Le grandi promesse di prosperità e amore sono lì, intrappolate tra "Maresca stronzo" e la pulsantiera nuova. E chiaramente non possiedo nemmeno l'alluce del figlio di Frank Sinatra.
 
 
 
Lui era scintillante, attento ai problemi razziali, colluso con poteri oscuri, ammaliante, seducente, intelligente e soprattutto il miglior amico che si potesse avere.
4 mogli, 3 figli, 2 Oscar e milioni di dischi venduti.
E io che pensavo di emularlo cantando "Strangers in the night" in ascensore. La mia attuale vita non mi permetterebbe nemmeno di avere tempo per essere "attenta ai problemi razziali". E soprattutto non ho il cuore di Frank. Non flirto con Ava Gardner o Mia Farrow, non ammalio nemmeno il pakistano che mi vende a prezzo pieno i braccialetti di stoffa anni '90. E l'unico potere oscuro con cui sono collusa attualmente è la macchinetta mangiasoldi che eroga caffè al primo piano del padiglione B dell'ospedale in cui lavoro.
In questo momento mi duole anche pensare che come amica non sfioro nemmeno la giacca di Frank. Al massimo potrei essere Dean Martin, anche come quantità di alcool ingerite.
Ma due Oscar me li merito. L'Oscar per la straordinaria forza di volontà nel non buttarsi sotto ad un camion di provole guidato da un pugliese avvinazzato e l'Oscar per la stupida persistenza a farmi mettere i piedi in testa da chiunque pensi di poterlo fare senza pagarne alcuna conseguenza.
 
Ma è l'onestà che ci rimette in piedi. E io voglio essere onesta: le ultime parole di Frank furono "I'm losing", "Sto perdendo" e guardacaso sono anche le mie.
Sta di fatto però che ora, in questo preciso momento, l'unica scelta obbligata è di lasciare quelle parole dentro l'ascensore che mi/ci intrappola e pensare alla frase sulla semplice, piccola, lapide di Frank :
"The best is yet to come"