mercoledì 21 settembre 2016

Il lutto del protagonista

Guardo un sacco di tv.
Tv.
Non solo telefilm (che adesso bisogna chiamare "serie tv" se no la gente pensa che tu stia guardando roba tipo "Walker Texas Ranger" o "Melrose Place"), guardo un casino di docureality, soprattutto sui grandi omicidi americani.
Funziona così, si parte con un paio d'inquadrature ad cazzum di casette e alberi/cespugli/fontane e poi bang! il bel cartello della classica cittadina americana tranquilla tipo "MACON - Georgia - Casa della gente perbene che va in chiesa e non va in giro ad ammazzare altra gente".
SEMPRE.
In sottofondo una voce bassa comincia a descrivere l'idilliaco posto che state vedendo.
"La cittadina di Macon, Georgia, è un luogo tranquillo, la gente perbene va in chiesa e nessuno si aspetta che il male si nasconda dietro una di quelle case".
SEMPRE. NESSUNO SI ASPETTA MAI UN CAZZO DI NIENTE. VABBE'.
Dicevamo, nessuno si aspetta che il vicino ad esempio sia un pedofilo assassino, nessuno si aspetta che "il tranquillo adolescente silenzioso" della casa in fondo alla via sia in realtà uno spietato torturatore di marmotte. Nessuno.
Poi però ci scatta il morto, di solito una ragazzina in bici.
Tra una ricostruzione e l'altra ci sono i vari testimoni, sbirri e familiari che parlano della vittima. Una cosa molto triste, soprattutto perché, a detta loro, NESSUNO SI ASPETTAVA CHE IL MALE BLA BLA BLA.
E io li guardo.
Sono stravolti dal dolore. Li vedi. Guardi il loro groppo in gola e ascolti bene le loro pause. Sono lì, anni di unghie conficcate nei palmi delle mani, pugni serrati nascosti nelle tasche dei cappotti, mascelle tirate e occhi assenti. il dolore e la rabbia di chi ha amato e perduto.
Ma sul momento?
Cosa succede quando il dolore è lì? Cosa prova il padre della bambina in bici quando gli dicono che la figlia è stata ritrovata in un cestino dell'immondizia?

Gli attori dei docureality sono di solito solo fantocci che recitano 4 frasi in croce, le bionde di solito fanno facce stranite tipo questa:



Gli uomini si limitano ad avere una birra in mano e allargare le braccia. Stop.
E quando la ferale notizia raggiunge i fantocci, loro scimmiottano facce al limite della decenza, i più scafati si coprono la faccia con le mani. Perché il dolore non è mica roba da tutti. Rendere vero il dolore è come riuscire a far ridere: non basta una cipolla per piangere o una battuta su Jennifer Aniston che esulta sulla fine dei Brangelina per far ridere.

Così, una volta abbandonata Macon in Georgia e i suoi fantocci che si dannano di dolore per la morte della bambina in bici, guardo cosa mi consiglia YouTube.

Ed eccola lì, un'altra roba strana, Julia Louis-Dreyfus che riceve un Emmy.
Non per l'Emmy, figuriamoci, io le darei le mie cornee se solo Julia me lo chiedesse.
E' per il discorso.

Parte in modo splendidamente irriverente, paragonando l'attuale stagione di "Veep", il telefilm in cui interpreta una totale imbecille che combinazione, è anche il vicepresidente degli USA, alla realtà, con chiaro riferimento a Donald Trump e al suo essere un cretino totale.
Poi le mani tremano, la voce si rompe, i singhiozzi partono. Il premio è dedicato al padre, scomparso venerdì.
Cioè, quel venerdì.
La reazione del pubblico è un "OHHHHHHHHH", a metà tra "povera cara..." e "MA CHE CAZZO CI FAI QUI AGLI EMMY CAZZO? IO STAREI ROTOLANDO SUL PAVIMENTO DI CASA BAGNATA DALLE MIE LACRIME!".

Ancora adesso, riguardandolo, non capisco se piango:

A) Per i miei ormoni
B) Per il dolore immenso che guida quelle mani, quegli occhi bassi e quella voce.
C) Per il totale smarrimento, per il mio guardarmi intorno e non capire come si faccia a vivere con quel dolore così grande e riuscire comunque ad essere lucidi e superiori al resto del genere umano (Julia, ti amerò sempre, forse anche di più dopo tutto questo)

Il dolore per la dipartita di un proprio caro forse varia a seconda del modo in cui il caro se ne va.
La mamma del piccolo Tommy (ve lo ricordate? Quel bambino di 18 mesi rapito nel 2006 a Parma e trovato morto dopo qualche mese?) dice in un altro di questi stramaledetti docureality, che non appena qualcuno che non ricordo le disse che avevano trovato suo figlio morto lei aveva perso i sensi, stramazzata al suolo e incapace di ricordare qualsiasi cosa nei giorni seguenti.
Se invece il proprio caro muore dopo una lunga battaglia con un male terribile, allora il dolore si trasforma in agonia del ricordo, per cui due giorni dopo la sua morte fa male il pensiero che ormai sia tutto un ricordo, che il dolore, fisico o mentale, sia volato via, che a far male sia rimasto solo il dover ricordare e non poterlo più vivere.

A scrivere tutto ciò mi sento come Carrie Bradshaw mentre si faceva tutte quelle domande cretine sui single tipo: "Quando le cose sono troppo facili siamo portati a sospettare. Devono diventare complicate prima che possiamo crederle reali? Ci serve il dramma per far funzionare una relazione?o merda del genere.

Una roba tipo "Death and the city".

La lezione del giorno è che gli attori fingono bene, ma la tremarella alle mani ti tradirà sempre, sia nel dolore più profondo sia mentre leggi un discorso al matrimonio del tuo miglior amico. L'emozione fa parlare le mani.
Che è una delle scuse più usate da quelli accusati di aggressione, per dire.

mercoledì 7 settembre 2016

La cassetta di Bon Jovi

Accendo Spotify.
Scopro cosa mi offre la "Discover Weekly".
Mi metto una felpa. Guardo fuori dalla finestra.
Inizio.
Un altro Ars Moriendi sta per vedere la luce.

Mentre parte "Eyes without a face" di Billy Idol mi rendo conto di essere pronta per darvi una grande lezione. L'ennesima sulla vita adulta. L'ennesima sul passaggio da coglioni ventenni a condannati trentenni. 

A otto anni circa la mia preoccupazione maggiore durante l'estate era non fare amicizia con i bambini in spiaggia. Era così, non che avessi problemi nel socializzare o roba del genere, no, semplicemente volevo farmi i cazzi miei. Il mercoledì c'era Topolino in edicola, ogni giorno alle 16 passava il gelataio, un pover'uomo di 90 milioni di anni con un enorme frigo bianco che ciondolava da una bretella blu saldamente ancorata alla sua spalla artritica che procedeva tutto curvo e pendente per chilometri di spiagge bollenti, i vu' cumprà che vendevano musicassette improbabili, occhiali da sole che avranno bucato negli anni milioni di retine, braccialetti portafortuna di ogni tipo di colore che urlavano ESTATE da ogni loro filo per poi portare una sfiga talmente raggelante che avresti preferito tagliarti i polsi piuttosto che averli pieni di quella merda.
Le mie estati erano tutte così, una la fotocopia dell'altra. E io le amavo moltissimo.
Ma un anno vinsi un premio, il ché rese quell'estate la migliore di tutte.

Era l'estate del 1990, quella per intenderci, di "Notti magiche", della Nannini e Bennato che risuonavano in ogni bagno, in ogni bar, sotto ogni ombrellone. Specialmente sotto quello dei miei vicini di ombrellone.
Avevano solo quella cassetta.
Finiva il lato A, subito s'infilava il lato B.
Sempre la stessa fottutissima "Notti magiche". 

Ormai leggere Topolino era difficile, in ogni vignetta s'insinuava un "inseguendo un goooooal" e Basettoni ormai viveva perennemente "sotto un cielo di un'estate italiana". Un vero incubo "non è una favola ma dagli spogliatoio escono i ragazzi e siamo noi", per capirci.

Così una sera, come vi dicevo, vinco un premio.
Mentre sono in cabina telefonica con in mano pochi spiccioli per urlare a mio padre l'ennesima bugia "SIIIII STO FACENDO LA BRAVA", noto un luccichio. Il luccichio tipico dei premi e dei tesori.
Sopra al telefono qualcuno aveva dimenticato un walkman. UN WALKMAN.
E dentro al walkman una cassetta di Bon Jovi. Capisco la delusione, ma finalmente avevo un'arma contro Bennato e la Nannini. A colpi di "Livin' on a prayer"mi godetti il silenzio, il mio silenzio almeno.
Il mio isolamento estivo accelerava, il walkman era stato il mio upgrade definitivo.

Nessuno mi guardava, nessuno mi degnava di uno sguardo attento, nessun bambino veniva a chiedermi di giocare. Io dal canto mio non sentivo, avevo un paio di cuffie e un italo-americano biondo che mi urlava nelle orecchie.



Nel 1989 uscì "See no Evil, Hear no Evil", un bel film con Richard Pryor e Gene Wilder. Nel 1991 il sequel "Another You". Sarebbe stato l'ultimo film di Wilder. Forse fu l'ultimo film figo in cui recitò Richard Pryor.
Erano quelli gli anni croccanti, gli anni in cui il tuo attore preferito era Gene Wilder che sembrava sempre spelacchiato come tuo nonno, in cui Richard Pryor si sposava sette volte e abusava di cocaina, Totò Schillaci era un idolo nazionale e la vita sembrava lontana dalla morte. Le ultime estati leggere.

Poi leggi che Gene Wilder è morto. E pensi "cazzo, sono vecchio, sono vecchio, SONO VECCHIO"
L'estate è la montagna, le ferie in cui devi sempre avere il cellulare acceso, non puoi dormire in macchina ma fare da navigatrice. Tua madre ti chiama solo per sapere se hai fatto le lavatrici.
Nessun ombrellone, nessun vecchio sciancato che ti porta un Cucciolone tre strati, nessun vicino di ombrellone. Infinite foto di un millenario che avevi lasciato quasi sessantenne nel 1990 scorrono sul tuo smartphone, tutto è un furore di hashtag, hashtag per salutare qualcuno per sempre. Non mi ci abituerò mai. 
#AddioGene. Che cazzo è? Uno muore e tac, la lapide grafica è un cancelletto? #RIP. Agghiacciante.
In quell'estate del 1990 il cancelletto non so nemmeno se esistesse già nei telefoni della Sip.

E' arrivato settembre. L'estate 2016 è già stata archiviata. E con lei quella del 1990.

Ora che Gene se n'è andato non rimane che aspettare che il tristo mietitore colga qualche altro simbolo di quegli anni.
Uan.
Mauro Serio.
Luciano Onder.
Totò Schillaci.

E allora sì che potremo salutare con la manina i nostri ricordi infantili, infilarli in un baule insieme ai corpi dei miei vicini di ombrellone di "Estate '90", metterli in soffitta e continuare a camminare inesorabilmente verso gli 'anta, ovvero "quando porteremo i nostri figli fatti grazie al #fertilityday al mare dai nonni e noi dovremmo sorbirci le loro chiamate che alla fine ci spunterà pure la lacrimuccia mordendoci le labbra pensando che sono lontani, ma sono nella loro estate migliore".

#AddioGene
#ilcancellettoveroèquelloSip







lunedì 23 novembre 2015

Il freddo rintocco dell'autunno parigino.

Sono mattinate, queste di metà novembre, molto fredde.
Ho freddo.
Mi metto la sciarpa, infilo i guanti di lana che mi ha regalato mia madre, mi calo la cuffia calda sulle orecchie.
Eppure ho freddo. 
Un freddo che non passa, quello che di solito ti s'infila nelle ossa e ti passa solo dopo ore passate sotto il caldo abbraccio di una coperta mentre ozi sereno.
Ho talmente freddo che alito sulle dita mentre aspetto il bus.
Mi si gela il moccio nel naso.
Ho la temperatura corporea di Peter Falk.

Tutto ciò mi porta a credere che in realtà il mio freddo venga da dentro.
Quella scomoda sensazione di vuoto mischiata al dolore del sentirsi troppo vecchi per qualcosa, troppo stupidi per certi compiti, troppo in gamba rispetto ai cretini e troppo fregati dalla vita in generale.
Come guardare una puntata qualsiasi di "Everwood" dove il dottor Brown deve dare o ricevere una brutta notizia. 
O guardare una puntata di "Everwood" in generale.

Non c'è un modo semplice di parlare di un morto. Nemmeno di uno morto e stramorto. 
Non è facile parlare del faraone Tutankhamon, ad esempio, anche se è talmente morto che la sua memoria è già stata distrutta da una serie tv mediocre (per l'amor di Dio non guardate mai "Tut - il destino di un faraone", piuttosto esalate l'ultimo respiro sulle repliche di "Everwood"). Non è facile spiegarvi nemmeno cosa si prova di fronte alla morte: io, ad esempio, non ho retto l'impatto con la crudele sorte di Oberyn Martell e mi sono rifiutata di vedere "Game of Thrones" per quasi 12 ore.
Se non è facile scrivere di un morto o parlare delle nostre emozioni di fronte alla nera signora, figuratevi prendere l'enorme fagotto di sangue, morte e devastazione con cui abbiamo avuto a che fare dopo venerdì 13 novembre. In tutto questo polverone di emozioni mal gestite e soluzioni politiche alla MacGyver, abbiamo provato a capire e parlare, a confrontarci, soprattutto ad essere solidali con i nostri simili. Con esiti, prevedibilmente, disastrosi.
Abbiamo scelto di affidarci alle bandiere.
Poi, subito dopo, a lamentarci con chi non sceglieva la bandiera di quel paese o di quell'altro.
Abbiamo classificato i morti in "morti di Seria A" e "morti di Serie B".
Abbiamo cominciato ad aver talmente tanta paura da voler fare corsi di primo soccorso per imparare la manovra di Heimlich (pare che in un attacco terroristico la manovra di Heimlich, come difesa, sia inutile. A meno che non si elabori un attacco a base di strangolamento tramite Kebab)
Abbiamo cancellato viaggi di piacere. Anche se la meta fosse San Giorgio di Piano, è comunque pericoloso muoversi.
Abbiamo cancellato concerti. Ballare è pericoloso. Cantare pure. Farlo insieme è da pazzi.
Abbiamo litigato, abbiamo chiesto le bombe, abbiamo preteso scuse dalle persone sbagliate.
Abbiamo postato articoli pro, contro, a favore, in ricordo, di denuncia, anacronistici, con le mappe interattive, con i comici tedeschi.
Abbiamo capito che conosciamo persone che sono state a Parigi.
Abbiamo capito che a Giovanardi non piacciono gli Eagles of Death Metal. Possibilissimo che agli Eagles of Death Metal non piaccia Giovanardi.



Di alcuni di quei 129 morti parigini conosciamo il vuoto che hanno lasciato. Percepiamo il freddo di quel vuoto. Le lacrime del vedovo, del fidanzato, della madre le abbiamo sui nostri schermi insieme ai corpi accatastati e alle virgole di sangue che segnano il Bataclan. Di tutti gli altri ci preoccupiamo delle bandiere senza sapere che per molti paesi è solo un brandello di stoffa che sventola sopra macerie e morti che non ricordiamo perché siamo già stanchi di doverci incazzare per i nostri amici francesi che non possiamo poi farlo per tutti tutti. 

E insomma io non trovo nulla di meglio da scrivervi se non questo triste elenco di reazioni.
Perché è questa la mia reazione a caldo, sentire il freddo del vuoto, cerebrale altrui e di un lutto troppo grande e vicino per essere metabolizzato.
Allora, vi chiedo un favore. Vista la nuova ondata di gelo che ci aspetta all'approssimarsi del funerale della nostra connazionale, dove ogni politico parlerà e criticherà l'avversario di strumentalizzare i morti, dove ognuno di voi esprimerà per forza la propria opinione, dove non saremo immuni dal classico "R.I.P" scritto vicino al classico articolo condiviso, ecco cosa dovreste fare in caso io muoia per mano di un manipolo di disperati (che siano quelli dell'ISIS o i fan di "Everwood"):

- Vi prego scegliete una mia foto decente. Nel caso potrete sceglierne una tra quelle del mio viaggio in Provenza del 2010. Mi raccomando. Se mai finissi come tragedia del giorno da Del Debbio mi piacerebbe avere un bel faccino.
- Al mio funerale mettete in loop i seguenti pezzi: "Non, je ne regrette rien" della Piaf, "Feeling oblivion" dei Turin Brakes e "Brown eyed girl" di Van Morrison.
- Non fate intervistare mia madre.
- Nella risposta alla domanda "Com'era Federica?" evitate i seguenti termini: "lagnosa", "dolce", "simpatica". Piuttosto sostituiteli con "ragionevolmente incazzata", "sensibilona", "piacevole". E aggiungete "cacacazzi".
- Non fate intervistare mia nonna. Anzi, nessuna delle due.
- Non lascio nessun testamento d'intenzioni: odio tutti e lo farò per sempre.
- Dovrete tassativamente piangere. E parlare di "un talento che ci è stato portato via troppo presto" o qualcosa di simile.
- Visto che mi avete sfrantumato i maroni per venire ai vostri matrimoni in cappello o abito lungo ora dovrete ricambiare: cappello con veletta nera per le donne e completo nero per gli uomini.
- Ricordatemi sempre, ricordatemi tutti.
- Portatemi i fiori sulla tomba. E non finti, non fate i tirchi santo cielo.
- Divertitevi e bevete anche per me. Fate un funerale gipsy.
- Nessuna preghiera e nessuna opera di bene.

Vorrei silenzio e musica. Lacrime e risate. Il perfetto funerale di un bipolare.
Io, per l'appunto, che continuo a sentire il freddo di 129 vuoti nonostante sia sotto al caldo vento di un condizionatore e di una vita facile in un mondo che non è fatto per me.

La lezione di oggi è che non siete nessuno per dare lezioni agli altri. 
Se ci proverete sentirete molto, molto freddo.










lunedì 9 novembre 2015

La fregatura dell'aspettativa di vita: benvenuti nell'età adulta.

Partiamo dal fatto che io, in questo momento, potrei benissimo essere morta.
Se fossi vissuta (o meglio, sopravvissuta) nella mia amata Inghilterra medievale, a quest'ora, sarei già bella che defunta.
Una splendida aspettativa di vita di 33 anni.
Appena il tempo di compierli, soffiare sulle candeline, fare una visita oculistica e mettersi ad ascoltare cd esistenziali di Morgan e tac, la luce si spegne.

Ma soprattutto, la mia vita da 33enne, per ora, mi sembra inevitabilmente costellata di responsabilità da persona matura.
E, altrettanto prevedibilmente, non sono pronta ad affrontare nessuna di queste stramaledette incombenze.
Figurati, sono ancora qui che m'inquieto per il mio primo amore ascoltando i Marlene Kuntz.

La prima, schiacciante, responsabilità è quella di procacciarmi il cibo. Che visto che parliamo di aspettativa di vita nei secoli, la mia si avvicina a quella dei nostri avi cavernicoli. Soprattutto quando l'arrivo del mio stipendio non coincide con il periodo fortunoso del volantino Carrefour, quello con gli sconti migliori e i prodotti giusti.
La sintesi è che mi sto nutrendo di scatolette di tonno da sei giorni.
Roba che inizio a bramare le bustine del mio gatto.

La seconda problematica dell'essere adulti è la socialità.
Già mi è difficile rapportarmi con gli altri esseri umani, figurarsi a questa maledetta età. Devi sapere cosa si fa durante un rogito, conoscere gli usi e i costumi della tassa sui rifiuti, perfino essere scafata su tutte le voci della tua busta paga. E' tutto un cerimoniale di regole e cenni segreti che permea ogni aspetto della mia vita adulta.

Parole che entrano nella routine:
- contributi
- gomme da neve (sebbene io non guidi)
- compromesso
- ecografia senologica
- muco cervicale
- permesso
- rata

Parole che escono, trascinandosi via un pezzo di storia personale:
- bongo/bonghi
- cumpaz (compagnia, balotta, regaz. Quella roba lì insomma.)
- limonella
- terza birra media doppio malto
- vodka tonic
- 4 del mattino (Non esistono. Né per tornare a casa né per svegliarsi. Al massimo tornerà nella colonna superiore se avrò figli)
- festa di compleanno
- fuga

Adesso al massimo fai una "cena di compleanno", niente festa, tutti seri come ad un funerale. Pure i miei genitori si scordano del mio compleanno.
Anche per loro è meglio ignorare il tempo passa.




Terzo ostacolo pre-morte: sei troppo vecchio per avere altre chances.
Su tutto. Pure di procrastinare il pagamento dell'abbonamento del bus dal tuo edicolante che conosci da qualcosa come 15 anni.
Stop. Ormai sei adulto.
Il che comprende: smettere di dire parolacce altrimenti sembri una ragazzina volgare, smetterla di andare ai cortei per manifestare contro chi è più vecchio di te e sventola bandiere secessioniste e alza braccia al cielo per salutare vecchie cattive abitudini, smetterla di bere che poi ingrassi e i chili non li perdi più, smetterla di avere disordine e caos nella tua vita e nella tua casa, smetterla di pensare che avrai un lavoro migliore.
L'unica cosa che per ora ho smesso è di crescere di statura. Dal 1998 almeno.

Viviamo fino a 100 anni e a 33 siamo già morti, sepolti da scartoffie, responsabilità che molto spesso non chiediamo, ingiustizie che non possiamo combattere e precarietà.
Adesso e sempre, come a 20 anni.


Il periodo dei 33 anni è facilmente riassumibile con un'immagine.
Tu che sei lì, a fare il morto in acqua, mentre ti godi il sole, la brezza.
Galleggi, vieni sballottolato di qua e di là.
Pensi sempre che prima o poi ti metterai a nuotare ma in realtà, da lì a poco, l'acqua ti arriverà alle narici, poi ti entrerà nelle orecchie e ti sfiorerà le labbra.
In quel momento l'acqua comincia ad invaderti, lembo di pelle su lembo di pelle, fino a farti scomparire sotto, nel buio.
Ecco, l'acqua mi è entrata nelle orecchie.

Per favore, o torno nell'Inghilterra medievale armata di assi di pino e chiodi oppure piantatela di parlarmi di rogiti.



martedì 22 settembre 2015

Sulla morte di un curato di città

Ammetto candidamente che invocare il signore, ultimamente, è stato il mio sport prediletto.
Non mi giudicate troppo duramente, vi porto degli esempi:

es. 1: il gatto piscia sul divano. Due volte. Senza alcun apparente motivo se non l'avversione verso la nuova sabbietta. Pare preferisca la vecchia. Quella, per capirci, più costosa e infestante, nel senso che ogni volta che il suddetto felino esce dalla vaschetta dei bisogni, il mio bagno prende le sembianze del lungomare di Viserba. E non solo il bagno. La sala sembra Torre Pedrera.

es. 2: Adoro il mio nuovo lavoro. Adoro le colleghe, i medici, perfino il pakistano del ritiro campioni di laboratorio mi sta simpatico. Ma. Ma. Non posso minimamente lamentarmi ripensando ai vecchi tempi in cui l'oncologia mi rovinava pause pranzo, week end, ferie, Natali di Gesù, ma la perenne sensazione di sentirsi l'ultima arrivata a quasi 33 anni mi opprime. Ogni minimo errore che faccio è fonte di grande angoscia. Sono a rischio ischemia o bestemmia pesante. E mi sfogo.

es. 3: Sto per compiere 33 anni, la fatidica età di Cristo. L'imprecazione sa quasi di omaggio.

Proprio in questi giorni è venuto a mancare il parroco del mio quartiere, Don Tonino. 
Le campane della messa della domenica pomeriggio non hanno suonato. 
E' morto senza coronare il suo grande sogno: festeggiare i 50 anni cella sua chiesa. Che, ironia della sorte, saranno questa settimana.
Questo è quanto.
A parte il forte richiamo al telefilm anni '90 con Gigi e Andrea per cui impazzivo nonostante me la facessi addosso dalla paura, Don Tonino non è riuscito a rappresentare la spiritualità pura e la ricerca della verità nella mia vita nonostante i miei 10 anni passati in parrocchia tra catechismo e post-cresima.

Sì, potete smetterla di ridere.

L'idea dei miei genitori era quella di crescere una forte, atletica, ragazza cristiana.
Riesco benissimo a sollevare un pacco di 5 chili. Non so se rientri nella categoria "forza" o "atleticità", ma una su tre celo!
Tornando alla visione da hitlerjugend dei miei, io riuscì ad impormi rifiutandomi categoricamente di diventare coccinella scout.
Ma si sa, gli amici che avevo erano quelli del quartiere e l'unico posto vicino a casa di tutti era la chiesa. 
Così, di mia sponte, continuai a frequentare quel cubicolo di cemento consacrato fino a quando non capì di avere una strada diversa davanti. 
Per intenderci quella che mi si parava innanzi era una strada lastricata di punk, sigarette, musica, alcool e crolli di autostima. Ma comunque una strada migliore di tante altre, anche di quella sacra.



Il mio ex, ridentissimo, luogo di culto.


Don Tonino era un burbero curato di città. Un duro, scorbutico, chiuso cristiano. 
Non ricordo una carezza, ricordo i rimproveri.
Non mi viene in mente un dibattito.
Non un insegnamento.
Solo un sacco di cricchi in testa, discutibili foto del battesimo e la stanchezza della vecchiaia.
Ecco cosa mi è rimasto di Don Tonino.

E adesso perdono a pochi, pochissimi, di ricordarlo con amore. Lo permetto solo a coloro per cui lui pianse da amico e non da prete. A loro lo permetto. Ma alla moltitudine ipocrita che stanziava in chiesa, nella sua chiesa, no. Vorrei lo si ricordasse con lucidità e coerenza.
Un curato di città. Burbero e severo. Che apriva a pochi il suo cuore. Di certo non a me.

Così, mentre si avvicinano i miei 33 anni, sento la beatitudine scivolarmi dalle mani, mentre ricordo i miei dodici anni in quella chiesa penso a quanto sognassi libera. 
Ora sogno di dormire. Solo di dormire.

(And I’m holding on for dear life, won’t look down won’t open my eyes
Keep my glass full until morning light, ‘cause I’m just holding on for tonight
Help me, I’m holding on for dear life, won’t look down won’t open my eyes
Keep my glass full until morning light, ‘cause I’m just holding on for tonight
On for tonight)


Ora riguardo la mia strada, quella che fui costretta a prendere dopo essermi resa conto che esisteva un mondo fuori dai binari di una scelta obbligata di periferia.
Mi buttai senza saperlo su un binario costellato di scelte difficili e pianti facili.

Ma io sono quei pianti e quelle scelte, Don Tonino non mi ha spiegato niente in più e niente di meno. Ci siamo solo incontrati a metà strada, salutandoci con rispetto con un cenno del mento.

Quindi eccomi qui, tutta nevrosi e piscio di gatto, mi approccio fiduciosa verso il mio compleanno, l'ennesimo, il 33esimo. Cristo Edition. E no, non riscopro la mia spiritualità. Al massimo continuo a sperare in una vita nell'ennesimo modo sbagliato. 
Con il bicchiere pieno e la morte nella penna e nel cuore. 
La possibilità di una resurrezione e di una pacificazione del mio animo sarà possibile forse dopo la castrazione del mio felino.
Per ora stringo i denti, non mi arrabbio, non urlo, mi colmo come un enorme vaso, piena di rabbia e frustrazione. Piena di un vuoto spirituale che non so colmare.

(I’ve got thick skin and an elastic heart,
But your blade it might be too sharp
I’m like a rubberband until you pull too hard,

I may snap and I move fast
But you won’t see me fall apart
Cause I’ve got an elastic heart)


Lezione di oggi: quello che avete dentro o in testa, nel cuore o nelle viscere, che sia Shiva il distruttore o Gesù Cristo, vi metterà alla prova. Io lo chiamo tutti i giorni ma non risponde. Invidio chi ha la linea diretta. Io ormai lascio messaggi in segreteria, ma voi non demordete.

domenica 6 settembre 2015

Ama il prossimo tuo

(Questo post è uno di quei post intimisti, in punta di piedi e fil di voce.
cercherò di fare piano, anche urlando dentro.)

Ho imparato, da cattiva cristiana, che ho sempre travisato il concetto di "Ama il prossimo tuo come te stesso" o, come sarebbe corretto citarlo, "E il secondo [comandamento] è questo: "Amerai il prossimo tuo come te stesso". Non c'è altro comandamento più importante di questo" (Marco 12,29-31).
Pare infatti che questo splendido passaggio della Bibbia sia riservato ai parenti.
Sì, quelli che a Natale vi regalano calzini. Più raramente, soldi.

Mi spiego. E per farlo bisogna scorrere le giornate appena trascorse.

Stando bolsamente seduta sul divano, scorrevo le migliaia e migliaia di commenti ed opinioni riguardo alla pubblicazione della foto del piccolo Aylan e, giorni prima, per il fattaccio triste di Palagonia. Nemmeno a dirlo, una marea di putredine la cui puzza si avvertiva da Kobane.
Pazienza.
Ogni tanto le mie dita tozze scorrevano sulla tastiera battendo forte il mio disappunto per tutto quel gomitolo di odio, frustrazione ed ignoranza che striscia e sibila libero ed indisturbato per tutti i social network. Eccomi lì, con la testa in preda ad un movimento ondulatorio pieno di disappunto, a leggere in silenzio tutto quello strano odio che mi è sempre stato estraneo.
Perché lo confesso, in vita mia ho sempre odiato cose e persone lontane dal mio abbraccio e dal mio cuore.
O perlomeno ci ho provato.
Per farvi capire, il mio più grande odio è sempre stato verso Mel Gibson. Mel Gibson, l'attore. Immaginatemi come un vecchio che agita il pugno al cielo e aggrotta le sopracciglia.
Ecco, quello per me è ODIO. Il MIO odio.
Già detesto leggere e ripetere la parola odio.
Brr.

Torniamo a me e alle mie dita tozze.
Mai, mai, avrei pensato di imbattermi in una scaramuccia con il sangue del mio sangue.
Mai avrei pensato di pestare una coda di paglia e affetto represso.
Mai averi pensato di beccarmi il risentimento del mio sangue.
Eppure. Eppure è successo.

In pochi minuti mi sono trasformata da sorella a ridondante silos di cultura inutile, un'amica dei migranti, questi stranieri, estranei, sconosciuti, ero, per il mio stesso sangue, solo un tabarro vuoto e privo di amore, come avrebbero dimostrato i post seguenti, frecciatine intrise di veleno e rivalsa.

La foto di Aylan lì sulla battigia era ancora fresca e odorante di pellicola che io mi rotolavo nel senso di colpa e nella consapevolezza di aver sollevato un polverone con qualcuno che un tempo amavo come la mia vita, la cui risata mi riempiva di gioia, di cui ammiravo la costanza e lo studio. 
Ma mentre i primi giornali e i primi social s'intromettevano nella morte fotografica del piccolo Aylan, io venivo di nuovo colpita da un dardo: l'accusa di amare il prossimo mio, estraneo, straniero, sconosciuto, più di quanto mai avessi mai amato il mio stesso sangue.

Il mio rammendatissimo cuore punk e frastornato non c'è stato, no, non poteva sopportare l'arroganza dell'ignoranza.
Perché il mio sangue non può giudicarmi, non può capire perché io sia così sensibile davanti ad Aylan, al loro padre in lacrime, alle persone che lasciano tutto e si affidano al vuoto. Non può capire perché l'estraneo, lo straniero, lo sconosciuto mi stiano così vicini al cuore.



E non lo sa perché il mio sangue non conosce la solitudine della mia adolescenza fatta di silenzi, di isolamento, di cose imparate da sola, sbagliate da sola. 
No, il mio sangue conosce solo i suoi torti, la sua solitudine e il suo crescere sola. Pretende il mio amore e la mia attenzione, ma non sa che non può pretenderli.
Odio Mel Gibson perché odiare qualcuno che ho amato è troppo lacerante.
Amo Robert Bruce perché non mi fa soffrire pensare che possa deludermi o lasciarmi, in quanto mi ha già lasciato 700 anni fa. 

L'estraneo, lo straniero, lo sconosciuto, mi auguro solo non passi la mia solitudine e il mio dolore visto che spesso gli sconosciuti che ho incontrato avevano conosciuto la malattia e l'abbandono e mi avevano donato il loro peso con gli occhi di chi ti è debitore.
L'estraneo, lo straniero, lo sconosciuto conosce il mio presente, ma non sa delle terribili ferite della mia solitudine e del poco amore e dello schernimento che troppo spesso mi veniva inflitto da figlia imperfetta, brutta, grassa, non sa della poca fiducia in me stessa e nella mia voce, non sa delle delusioni che ingenuamente ho subito. Mi conosce per la persona che sono diventata, per l'amore che ho verso la vita e il prossimo, chiunque esso sia. Chiunque a parte Mel Gibson. Il mio passato gli è precluso. 
Mi è impossibile provare amore per il mio prossimo, sangue del mio sangue, se il mio prossimo pretende che lo capisca, lo ami, lo assecondi senza mai aver pensato a quanto scomodi fossero i miei panni quando avevo bisogno io di amore, in quel passato da cui il mio sangue non era escluso e che tacitamente, in silenzio, chiamavo in aiuto.

Così, mentre le mie dita tozze scivolano sulla tastiera, penso che a volte le strade si dividano dal principio della nostra vita.
Mentre io penso a quelle anime sole che si perdono nel mare, il mio prossimo mi richiama all'ordine e, ben poco cristianamente, mi si aggrappa ai calzoni e mi rimprovera di non amarlo.

Aylan e Galip sono morti ed erano bambini. Erano fratelli. Si volevano bene, penso. Magari giocavano insieme, litigavano, gioivano, parlavano e crescevano insieme, certamente insieme sono passati dall'altra parte. Non so nemmeno se mi perdonerebbero mai per averli paragonati a me e te. Ma la loro morte ci ha divisi per sempre. La potenza di un'opinione sulla morte di due bambini, di due fratelli.

Noi che abbiamo avuto la fortuna d'esser vive ci siamo perse. Ci siamo invidiate ed odiate.
E adesso, in silenzio, ci lasciamo.
Perché ti ho già amato abbastanza, odiarti mi lacererebbe.






mercoledì 19 agosto 2015

Il Re e la dieta - Barbiturici e pillole di morte

Nel 1956 uno degli uomini più sexy del mondo era senz'altro Elvis Presley.
Mentre guardo i video in bianco e nero vedo quel viso tondo tendente alla pinguedine, quei capelli neri, perfetti, quella smorfia mentre pronuncia "Money Honey", quelle bellissime labbra carnose che si muovono lente. 
Niente è più lo stesso dopo un video di Elvis.
Basta anche solo un passaggio su Spotify per cambiarmi la giornata. 
Se ascolto "Can't Help Falling in Love" scoppio in lacrime, se passa per caso "Hound Dog" la mia anca scricchiola per il mio dimenarmi isterico e spensierato.
Regolerò questo pillole di morte in base a quello che passa Spotify, siete avvertiti. Per ora passa una pubblicità sul meglio del Rock anni 80. E i TOTO urlano nelle mie orecchie. 
Partiamo malino.

(Jailhouse Rock)

In famiglia nessuno ha mai amato Elvis. 
Mio padre, quell'uomo distinto in giacca e cravatta che divide la sua vita tra lavoro e archivio di stato, segretamente vorrebbe essere Slash dei Gun's N' Roses.
Mia madre ha gusti che definirei "bipolari": Cugini di Campagna, Queen, Mango, Rolling Stones, Antonello Venditti.
Mia sorella a quindici anni amava i Duran Duran. Ora ascolta gli Stadio. Sono cose dure da digerire, ma così è, purtroppo.

Da vera pioniera del passato sono stata la prima in famiglia ad ascoltare Elvis. 
E Chuck Berry.
E i Platters.
E Perry Como.
E il Rat Pack.
E Johnny Cash. Checchè ne dica mio padre.

Una sorta di fuga da quella prigione musicale fatta di cassette mal registrate e idoli di cartapesta. 




(Devil in Desguise)

Elvis mi ricorda quel programma di Real Time che si chiama "Vite al Limite" dove obesi americani di 300 chili tentano di dimagrire grazie all'aiuto di un dottore armeno dal cognome impronunciabile che come unico vizio ha quello di avere la mano pesante con la tinta dei capelli. Livello Paolo Limiti.

Come Val Kilmer o Russel Crowe, Elvis aveva la predisposizione all'obesità e ai film spazzatura.
Mangiava qualsiasi tipo di schifezza potesse trovare o concepire, panini farciti con molteplici strati di carne, salse varie, marmellate e, ovviamente, burro d'arachidi, da lui chiamato "l'oro degli stolti". 
Non mi stupisco quindi dei suoi 158 chili, mi stupisco di come possa essere morto a soli 42 anni.
42 anni, dieci anni mi separano da lui. E anche numerosi chili se è per questo, ma mi spaventa che uno come il re abbia potuto ingozzarsi come un maiale dei Nebrodi senza che nessuno provasse a fermarlo. Nemmeno il suo medico e amico (amico di 'sta ceppa a questo punto) George Nichopoulus, per tutti il Dr Nick, che prescrisse al Re barbiturici, lassativi e ormoni come fossero caramelle, riuscì nell'intento. 
Anzi.
Dopo la morte di Elvis il Dr Nick avanzò l'ipotesi che la causa della morte fosse da ricondurre alla costipazione cronica del cantante, un colon gigante e una pessima motilità intestinale avrebbero fatto stramazzare Elvis inchiodandolo al W.C. come un re al proprio trono.




(Can't Help Falling in Love)

La paranoia, la solitudine, il poco amore legarono indissolubilmente Elvis ai cibi fritti, alla pizza, al letto e alla morte.
Sfogava la rabbia su persone, televisori e macchine.
Era lento, bolso,sospettoso.
Ingoiava pillole, panini, rabbia.

Nonostante tutte le teorie per cui Elvis sarebbe, nell'ordine, ancora vivo o un alieno, ricoverato a Cuba o facente parte del programma protezione testimoni dell' FBI, per me Elvis è morto quando ha cantato la sua ultima canzone, all'alba del 16 agosto 1977.

Dopo di lui, il tutto e il nulla. Soprattutto il nulla visto la cover di "Can't Help" degli UB40.

Donne, questo consiglio è per voi: se avrete mai la fortuna di avere un uomo che vi dedichi frasi come "Take my hand, take my whole life too/ For i can't help falling in love with you" allora tenetelo stretto.
E chiudete  a chiave il frigo.