venerdì 7 dicembre 2012

Morto Show: la macchina del divertimorto.

Una cosa fissa da due anni nella mia vita da squallida precaria, disoccupata, "difetto sociale", è il lavoro al Centro Accrediti Stampa del Motor Show di Bologna. 
Il lavoro consiste, banalmente, nel far perdere tempo a giornalisti imbufaliti col sistema e a me imbufalita con i giornalisti nel tentativo di mercanteggiare un'entrata alla fiera dei motori targata Italia.


I giornalisti sono animali strani. Alcuni cercano d'infilare i propri nipotini di 6 anni facendoli passare come operatori di ripresa, altri che, cito, "mai e poi mai mi piegherò al sistema facendo la Tessera dell'Ordine!". Questo "sistema" dev'essere terribile. Roba che se fai la tessera diventi un burattino senz'anima.
Ci sono quelli che ti sommergono di domande "Allora? Come va' quest'anno? Bene? Pubblico ce n'è? E gli stand? Quante case automobilistiche ci sono?". Beh, già che ci siamo mi vuol chiedere come sta la mia zia di Cuneo o, già che siamo in tema, quanti elefanti riescono ad entrare in una Panda?.
Un altro tipo è quello sincero, magari implume, che schietto ti dice "Io l'articolo non so se lo faccio, è che devo comprare la macchina nuova.".
Poi ci sono i furbi. Tipo quello che ho di fianco che sta parlando con la ragazza degli accrediti Mercedes (un'adepta di Scientology che crede nel vero amore) vendendole strane storie di coliche renali e Medici Chirurghi di Fama Internazionale che han perso i loro biglietti e ne chiede altri 50 dicendo la magica frase "Oh, ma poi te li ridò! Magari lasciami anche il tuo numero!".
E' come essere un domatore di bestie in un enorme circo motoristico.

Parlando di morti e morte, il giornalista supera ogni stereotipo di vita terrena diventando uno "Zombie da Sala Stampa". 
Lo ZdSS arriva di buona lena alle 8 e 30 del mattino quando ancora le giovani e belle ragazze dell'Ufficio Stampa sorseggiano i loro caffè al Ginseng, si siedono davanti al computer sfregandosi le mani e dopo qualche chiamata degna di uno spot della vecchia Sip (Mi ami? Ma quanto mi ami? Dove sei? In Kamchatka? Machemmefrega paga BolognaFiere Trottolina mia!) vagano meditabondi per ore tra gli stand, arraffano qualche gadget, scrutano ogni novità Opel e ogni ragazza languidamente spalmata sopra di essa. Poi, a mezzogiorno, il buco nello stomaco creato dal vagabondaggio assistito, li spinge a procacciarsi cibo, facendogli risalire le scale del Blocco B dedicato alla loro sopravvivenza. Dopo pranzo lo ZdSS, se ha fortuna, si fa timbrare il prezioso pass da giornalista, infila al volo una pettorina, e sguiscia in Area 48 a vedersi qualche gara di velocità targata Ferrari o Red Bull, sgomitando per avere la foto migliore con il pilota del giorno. Galvanizzato da cotanta meraviglia, lo ZdSS si approccia al computer per scrivere il miglior articolo della sua vita. Ci pensa ore. Talvolta giorni. Si trascina in bagno con i capelli arruffati e il volto corrucciato. Il colorito volge al verde Trabant.
Trafitto da un'idea illuminante come San Paolo sulla via di Damasco, torna al pc accartocciando fogli di bloc notes, battendo come un forsennato sui tasti del suo Toshiba del 2003. Ancora in caccia d'informazioni, lo ZdSS intercetta l'addetto al bancone della Sala Stampa e gli chiede tutte le rassegne stampa della settimana. Vuole farsi un'idea di quello che hanno scritto i colleghi.
Stremato, verso le 21 - 21 e 30, lo ZdSS abbandona mestamente la sala, vorrebbe restare ancora, ma le occhiatacce dell'addetto al bancone lo fanno desistere.

In sostanza qui al Motor Show si affianca un altro evento: il Morto Show. Campionari di giornalisti bizzarri, anteprime inedite di reporter giovani e rampanti, Icon Cronisti dalle età improponibili tenuti sotto formaldeide, Luxury Inviati, ovvero quelli targati TG 5 o Sky e infine le gare all'Area 90 mortocheparla per l'ultimo posto in Sala Stampa. Una valanga di zombie muniti di pass.

La lezione di oggi è: vieni al Motor Show che ti diverti e adotta uno Zombie da Sala Stampa. Basta un gadget firmato Motor Show e sarà tuo PER SEMPRE.







venerdì 30 novembre 2012

Un collage di morti per una rinascita.

Ebbene sì, comincio a vedere uno spiraglio di luce dalla grotta di melma in cui son sprofondata da giugno.
Ebbene sì, i miei reni funzionano. Evviva. Non che io ora possa bere come un bavarese qualsiasi in un lunedì qualsiasi, però sto bene. La lotta alla ritenzione idrica può avere inizio.
Ebbene sì, posso cominciare a fare ordine in questa mia disastratissima vita.
E parto da qui, da questo mio personalissimo angolo di discussione, dal mio sontuoso boudoir dalle pesanti tende di velluto cremisi e luci fioche. Dal mio discutere sulla morte.
 
Non è che possa star qui a raccontarvi tutte le mie angosce o paranoie momentanee. Passo momenti in cui mi sento carica di responsabilità verso le persone che amo e mi carico come un mulo per renderle felici. Un po' come Giorgio VI, re del Regno Unito nei terribili anni della seconda guerra mondiale, che dovette mettere una pezza alle follie d'amore del fratello Edoardo che abdicò e abbandonò le sue responsabilità per sposare una miliardaria americana di nome Wallis Simpson. Giorgio VI era un uomo buono, balbuziente, timido. Capitò sul trono per caso e ne subì le conseguenze. Si caricò addosso una guerra mondiale, schivò le bombe che piovevano su Londra, passeggiava tra le macerie della sua città fumando come un turco e rassicurando gli abitanti. Il fratello Edoardo, in tutto ciò, si era andato a godere il sole e il mare a Biarritz, complottando allegramente con i tedeschi finchè qualcuno in un buio ufficietto amministrativo del Regno Unito lo nominò Governatore delle Bahamas. No, davvero, non è tipo "collaudatore di materassi", esiste davvero il Governatore delle Bahamas.
Giorgio VI morì nel 1952. Lo stress fu la principale causa della sua morte. E anche le 12.000 sigarette che fumava in un giorno. Senza un polmone, con la mobilità di una mummia e contro il parere dei medici, il 31 gennaio del '52 GiorgioVI volle recarsi all'aeroporto a salutare la figlia Elisabetta in partenza per il Kenya.
Non la rivide più. Giorgio morì il 6 febbraio.
 
 
 
Oltre alle responsabilità e alle angosce verso chi amo e chi non mi ama più, mi son trovata a combattere contro un fisico ribelle, pieno zeppo di cisti pronte a scoppiare stile mine antiuomo.
Stile Elizabeth Taylor. La cara Beth ricevette il primo Oscar nel 1961 dopo esser quasi morta a causa di una bruttissima polmonite. Le dovettero praticare una tracheotomia d'urgenza che in effetti è più affascinante da raccontare della mia aspirazione di pus dalla ciste infetta nel rene destro. Ma del resto io non ho gli occhi viola (qui però potrei citare l'impiegata del comune che etichettò i miei occhi come "castani screziati di un bel verde chiaro". Finezze da bureau casalecchiese).
La buona Beth si rialzò da quella polmonite che le aveva minato il fisico e girò il colossal "Cleopatra". E io che sto qui a lagnarmi.
Beth morì dopo 7 matrimoni e 2 cani maltesi nel marzo del 2011 per un problema cardiaco. Cuore spezzato da 6 uomini, 2 cani maltesi e 2 amici gay morti troppo presto. 3 se ci mettiamo Michael Jackson.
 
 
 
Ma poi so che il mondo mi sorride, che ci sono persone fantastiche al mio fianco, anche loro con le mie stesse paure e angosce, con paranoie condivisibili e altre un pelo meno, armate di coraggio e con il freezer pieno di crocchette di patate per festeggiare insieme la rinascita. La mia e la loro.
E allora vorrei esser spensierata e farmi un bagnetto nel fiume Reno.
Un po' come pensò bene di fare Jeff Buckley una sera come tante in un fiume placido e tranquillo come il Wolf River, affluente del Mississippi. Se ne andò cantando Whole Lotta Love degli Zeppelin, inghiottito da un gorgo formatosi al passaggio di un battello. Dall'autopsia non emerse nulla: non era drogato, non aveva bevuto. Voleva solo farsi un bagno in una bella notte di maggio del 1997. Così, in scioltezza.
 
 
 
La lezione di oggi è questa: dobbiamo essere forti. Dobbiamo reggere lo stress delle responsabilità e dell'amore per gli altri che c'impedisce di deluderli. Dobbiamo rialzarci più forti anche del nostro stesso fisico. Dobbiamo farlo, magari con un pizzico di follia che ci rende leggeri.
Magari lontano da gorghi e simili.
 

venerdì 23 novembre 2012

Papà Freddie e i cuori spezzati.

La mia vita, peggio di così, suppongo, non potrebbe andare.
E non tiratemi fuori i bambini del Biafra o altre sciagure mondiali che oggi non ho proprio voglia di mandarvi a spalare melma.
Dicevo, la mia vita raggiunge picchi alti d'insoddisfazione, frustrazione e ritenzione idrica che non vi dico.
Ci vorrebbe mio padre.
Mio padre è uno che non tollera lamentele. Uno di quegli uomini tutti d'un pezzo, sempre in giacca e cravatta, sportivo all'occorrenza, fasciato nei suoi maglioncini color pastello e calzini a losanghe Burlington, baffi spavaldi e criniera folta. Dilaniato nel suo intimo più profondo dal dilemma: ascoltare Handel con moderato trasporto o far finta di suonare la batteria su "Paradise city" dei Gun's?
Il bello è che mio padre è il re indiscusso della lamentela. Non lo batterebbe nemmeno uno di quei mille bambini del Biafra di cui tanto mi han parlato. Davanti agli occhioni di mio padre stile Gatto con gli stivali non si resiste. E se non gli dai corda, allora giù improperi e bestemmie come un bimbo capriccioso a S.O.S. Tata.
 
Ma, come ogni figlia femmina, il mio papà è il più belone del mondo. Concedetemi questi orrori grammaticali.
E da piccola era come vederlo in continuazione.
Sì, perchè la generazione Mtv siamo noi. Più o meno. E io son cresciuta saltando sul letto ascoltando "Kind of magic" dei Queen o ciondolandomi sulla cassapanca davanti a "Take on me" degli A-ha.
Ma se il cantante degli A-ha non mi diceva niente (avevo nemmeno 10 anni e i biondi scandinavi col sorriso perfetto mi fanno sincero orrore) il cantante dei Queen, porca vacca, ero sicura di averlo già visto. Poi giravo la testolina verso mio padre intento a dipingere vicino alla finestra e dicevo, porca vacca, a chi assomiglia quel baluba finto Rembrandt di mio padre?
Mia madre vestendomi alla mattina mi chiamava Freddie. "Dai Freddie Mercury infila la gamba nei pantaloni... brava!". Freddie Mercury. "Mamma chi è Freddie Mercury?" e lei con un bel sorriso "Un giocatore di baseball!". Ignoro il perchè di questa risposta, sulla pazzia di mia madre son stati scritti manuali stile Treccani e francamente penso non sappia nemmeno cosa sia il baseball, ma quella, giuro, fu la sua risposta.
 
 
 
Freddie Mercury era, e sarà sempre, il mio cantante preferito.
Ci sono amici che possono testimoniare di avermi visto piangere davanti ad un suo video non più tardi del 2008, con altri ho condiviso il dolore della sua perdita a suon di amari e grappe. E vomito conseguente. Era quel meraviglioso signore con i baffi che somigliava al mio papà.
Freddie Mercury era una splendida persona. Da quel che si dice in giro. Amava il giappone, spendeva follie in cristalli e mobili, adorava i gatti e i gatti lo adoravano, a parte quando gli cagavano dentro il tostapane. Era un perfezionista, puntiglioso, professionale ma anche dissoluto, divertente e divertito, solare, snob. Un uomo generoso e particolare. Fragile.
 
Leggere la sua biografia non mi ha fatto conoscere lati migliori o peggiori. No. Mi ha fatto ridere, sì, mi ha affascinato e mi ha fatto piangere. Quando si parla della sua morte, della lenta agonia che lo rese cieco e impossibilitato a camminare, io istintivamente vorrei smettere di leggere. O di parlarne.
Una persona nasce, se è fortunata cresce abbastanza da assaporare il bello e il brutto della vita, poi, muore. Lo sappiamo e siam qua a parlarne da febbraio, facendoci beffe un po' di tutti.
Muori e vieni sepolto. Ma nel mezzo c'è un passaggio. Quando muori qualcuno prende il tuo corpo e si prende cura di lui prima di calarlo nel buio. E il corpo di Freddie, quei 40 chili, quel fascio di  muscoli intorpiditi, un tempo temprato dalla boxe e dall'atletica, fu sollevato dal suo letto e riposto dentro un sacco nero su cui lentamente, come in un film, veniva chiusa una zip.
Zip. Chiuso.
 
La sua morte mi ha fatto male. Per motivi facilmente intuibili: è ingiusto che una fan dei Negramaro possa vederli in concerto ogni volta che vuole (farsi del male mi dicono sia gratuito, il concerto non so) e io non possa vedere Freddie. Non parlatemi dei Queen + Paul Rodgers che divento una bestia.
Così ogni tanto, quando sono incazzata come un facocero e triste come un lama che ha appena partorito (maledetti documentari di Focus, preferivo quelli sui nazisti), metto su un suo cd e mi deprimo un po'.
 
Così, oggi che son depressa e ho il solito cuore a pezzi, tenuto su dallo scotch da pacchi e sputo, mi ascolto "Made in Heaven". Andrà meglio, lo so. Ci vuole tempo. Me lo ha detto anche il mio papà al telefono. Per aggiustare il cuore o il corpo o la mente ci vuol tempo. E io ho bisogno di ere geologiche per curare tutti e tre.
 
La lezione di oggi è difficile. Sembra strano, ma quando vi sentite soli al mondo cercate la carezza o l'abbraccio di vostro padre o vostra madre.
Se siete soli al mondo... rubate manichini al centro commerciale e abbracciateli. Se li chiamate mamma o papà mica si offendono. Se lo fate con gli anziani in autobus vi beccate una denuncia.
 
 
 

lunedì 19 novembre 2012

Duro a morire. Rasputin e la nostra vita.

Se scrivo "Duro a morire" la gente pensa a Bruce Willis con la canottiera sporca e i modi da pirla americano qualsiasi. No, il vero duro a morire fu un tale Rasputin.
Eddai, mica devo star qui a spiegare chi fosse Rasputin, dai. Basta una foto per farvi capire il terrore fobico che quest'uomo emanava. Quegl'occhi ipnotici, gelidi, magnetici. Mi ricordano, strano, quelli di mia nonna Satana. Strano, no strano davvero. Se non fosse per la barba giuro che scorgo qualche somiglianza.
 
 
 
Rasputin aveva la pellaccia dura.
Forse l'aveva temprato la sua inospitale terra natìa, la Siberia. O forse fu quel piccolo incidente nel fiume Tjura dove cadde insieme al fratello Misha, che dopo una settimana morì di polminite, forse invece fu il suo importantissimo percorso religioso (un mix di misticismo e orge attraverso cui si raggiungeva la purificazione della catarsi. Cosa non si dice per trombarsi la qualunque. La "catarsi". Sì). Una cosa è certa: Rasputin sembrava immortale.
Ammazzarlo fu un'impresa epica, sdrenante, alla pari del mattutino tentativo di entrare dentro ai miei jeans senza strappare il tessuto. Soprattutto quello muscolare.
 
Rasputin venne accolto a casa del principe Jusupov con la promessa di un buon Madera e di tanto sesso. Come non partecipare alla serata. Voglio dire. E' una settimana che ti avvertono del fatto che c'è gente che complotta per ucciderti, ma vuoi mettere? Madera e sesso. Mica la tombola da Don Tonino che tutte le volte finisce che chiami Ambo insieme alla signora Marchetti e il premio se lo prende lei. Eh.
Il buon principe offre a Rasputin pasticcini al cianuro e, per esser sicuro, Madera al cianuro. Rasputin mangia come Galeazzi ad una cresima a Torvaianica e rimane lì, leggermente stordito. Pallido come un cencio, Jusupov decide con gli altri complottanti di abbattere Rasputin a suon di proiettili. Bam! Un proiettile centra al cuore il laido religioso. Mentre i complottanti decidono di come sbarazzarsi del corpo, Rasputin si alza e se ne va'. Peccato, bella serata. Il vino sapeva un po' di tappo...
 
Jusupov si accorge che il monaco è fuggito, allora tutti si lanciano al suo inseguimento, gli sparano un colpo alla schiena, lo randellano di legnate e infine gli sparano in testa. Fatica ragazzi (e mentre lo scrivo mi viene in mente la voce di Bersani "Fatica ragazzi, siam mica qui a smacchiare i giaguari, mugiko maledetto!"). Stremati i complottanti avvolgono il corpo di Rasputin in un tappeto e lo buttano nel canale Malaja Mojka. Quando qualche giorno dopo troveranno il cadavere e ne faranno l'autopsia, si scoprirà che il monaco nei polmoni aveva acqua. Il bastardo era ancora vivo.
 
Tutto ciò per dirvi che il male che facciamo o che incarniamo, resiste cento o mille volte di più di tutto il bene che ci prodighiamo di fare. Che vi credevate? Che avrei parlato dell'incredibile bagaglio a mano di 33 cm che Rasputin aveva come pene? Per quello dovrei aprire un blog stile Ars Scopandi.
 
No qui si cerca di dare un significato, anche sbagliato per carità, non assolutistico ma personale e critico a morti che altrimenti non insegnerebbero nulla. E la morte insegna la vita. Rasputin beveva come un maiale, scopava come un maiale, si era fatto strada nei gangli della società con mezzucci squallidi e malati. Mi scende quasi una lacrima per l'ammirazione.
 
La lezione di oggi è a scelta: potete pensare che il male sia duro a morire oppure che vivere come un porco abbia i suoi vantaggi.
Io sinceramente sto ancora pensando a quei 33 cm di gioia e spensieratezza.
 

 
 

giovedì 15 novembre 2012

Thelma e Louise, ovvero l'amicizia dura per sempre.

Abbiamo 30 anni. Più o meno. Mi perdonino le lettrici e i lettori di 20 anni e smettano di gongolare quelli di 40.
Abbiamo 30 anni. Abbiamo un lavoro talmente brutto da farci vomitare ogni notte durante i nostri sogni migliori(sì, come no), abbiamo fidanzati o fidanzate esigenti, lagnosi/e, sessualmente frigidi/e (sì, come no), abbiamo una casa con altri coinquilini che ci mortificano, ci minacciano o barano a Monopoli (sì, dolorosamente, sì), abbiamo genitori che ci considerano bambini scemi quando si tratta di lavoro/pulizie di casa/generale conduzione dei rapporti umani o geni indiscussi quando hanno problemi al pc o parlano con la vicina (dialoghi del tipo "Allora suo/a figlio/a si è laureato/a?" "Ma certo! Ora è dottore/essa presso il Ginevra Institute of Economics e prende 16.000 euro all'ora!". Ovviamente sei laureato in Storia Medievale e stai languendo sul divano Ekbr dell'Ikea da almeno 4 mesi).
 
E ci dimentichiamo di un aspetto, a mio avviso, fondamentale. Gli amici. O se preferite "quelle persone tendenzialmente sbronze che mi raccolgono quando sono devastato di alcool/tristezza/sushi".
Da bambina mi chiedevo come mai i miei genitori non avessero amici. Sempre in casa, con me. Anche quando a casa non ci stavo più nemmeno io, tipo a 17 anni dispersa tra l'Estragon e qualche pub a caso. Ora che hanno 60 anni folleggiano e se ne vanno in gita a Medjugorie come se andassero a bere e cantare all'Oktoberfest.
Pure mia sorella rimase senza amici a 30 anni. Sposata, incinta, felice. Le amiche l'avevano abbandonata per non sposarsi, non figliare e continuare a sbronzarsi felici.
 
Ma io no. Non ci penso nemmeno. Sola, in una casa troppo grande, con il cuore spaccato stile "Ti giuro, è un Picasso, ma non capisco da che parte si guardi", me ne sto qui a pensare ai rapporti tra adulti. Siamo capaci di essere amici di qualcuno oltre l'età della spensieratezza o ci facciamo risucchiare dalla vita, dall'obbligo di diventare adulti e dalla stanchezza?
 
Secondo Ridley Scott sì. Ad un livello un po' estremo, ma sì.
E parlo di Thelma e Louise, che lasciano un marito violento e misogino e una vita vuota e priva di emozioni per un week end rilassante che diventerà una fuga verso la libertà. E dopo questa recensione degna di una Anna Praderio ispirata ai massimi livelli, vi spiego cosa c'entrano Thelma e Louise con noi 30enni del 2012.
Le due trucide attraversano l'America spargendo morte e distruzione sempre spalleggiandosi convinte che un marito e una vita da moglie sottomessa e un lavoro da cameriera e un uomo dolce ma remissivo non siano proprio quello che speravano di avere nella vita. E allora via, due amiche più sui 40 che sui 30, scoprono che forse la loro amicizia, il loro rapporto unico,  era quella svolta che le avrebbe salvate da quel grigiore e da quella povera vita omologata e comoda.
E così, braccate dalla polizia manco fossero Bin Laden e il Mullah Omar su un Ciao, decidono di farla finita, di non tornare indietro ma di andare avanti. Giù per il Canyon.
 
 
 
Noi ci diamo per scontati. E diamo per scontate le persone che ci stanno accanto. Che ci offrono panini alle olive e cipolle senza chiederti un euro ben sapendo che sei in bolletta, che ci convincono che siamo brave persone nonostante gli errori, che ancora a 30 anni ci redarguiscono sui tipi da non frequentare, che ci porgono uno spritz o una Moretti da 66 quando siamo tristi e ce li tolgono quando siamo sbronzi in modo molesto.
E quando le strade della vita si dividono e bisogna separarsi da un amico che se ne va' in un altro paese, con cui magari siamo cresciuti e che metti caso si senta obbligato a diventare "grande", la tristezza ci piomba addosso. Oltre che vecchi ci sentiamo vulnerabili, piccoli adolescenti. Oltre al danno, la beffa.
 
La lezione del giorno è: se un vostro caro amico che avete perso nelle maglie del tempo e degli obblighi da adulti vi sta per lasciare, prendetelo e portatelo a fare un bel week end. Possibilmente lontano da Canyon o burroni vari.

lunedì 12 novembre 2012

Empatia portami via: Kurt Cobain e la gente.

Sopportare se stessi a volte è problematico. Se a questo aggiungiamo, a meno che non si viva in un eremo a Marotta Mondolfo, che ogni giorno dobbiamo confrontarci con "gli altri" e i "loro problemi e le loro esigenze", allora perdere la ragione è molto meno improbabile di quanto sembri. Soprattutto se si è empatici come me e il vecchio Kurt.
 
Essere empatici vuol dire riempirsi di emozioni e sensazioni a livelli molto pericolosi.
Vuol dire piangere ad ogni reality lacrimoso sulla solita Famiglia Povera, tendenzialmente con 6 figli, 5 con problemi gravi e con una casa che cade letteralmente a pezzi. A differenza dalle persone normali, noi empatici continuiamo a piangere anche ore dopo la fine del reality, a letto prima di dormire o a cena mentre si mangia l'arrosto, quell'arrosto che ha reso ingiustamente celiaca la quarta figlia della Famiglia Povera. E giù lacrime.
Vuol dire preoccuparsi 5 o 10 volte più del normale per l'esame clinico dell'Amica x o dei problemi di figa dell'Amico y.
Portare i sentimenti degli altri sul nostro groppone come se fossero i nostri. Sì, tendenzialmente un comportamento masochistico ma che interpreta perfettamente il "non fare al tuo vicino quello che ti offenderebbe se fatto da lui" portato a livelli altissimi.
 
Questo non mi rende migliore di che tendenzialmente se ne frega, no. Questo mi rende più vulnerabile semmai. E, nel 90% dei casi, gli empatici son tali per imparare a gestire se stessi e le proprie emozioni, fregasega degli altri, che si arrangino loro e i loro problemi da High School americana.  Poi c'è chi esagera e sbrocca.
 
Se Kurt Cobain avesse visto uno di quei reality sulla classica Famiglia Povera, probabilmente avrebbe cominciato a dondolare impaurito in un angolo per giorni, dilaniato da un lato da un potente "CHISSENEFREGA" e dall'altro dall'incredibile sensibilità che lo pervadeva. Kurt Cobain ci provava ad essere empatico, ma era un po' come quella vignetta dei Peanuts dove Linus dice di non odiare l'umanità ma di non sopportare la gente. Kurt, la gente l'amava troppo  "C'è del buono in ognuno di noi e penso che io amo troppo la gente, così tanto che mi sento troppo fottutamente triste. Il piccolo triste, sensibile...!"scriveva nella sua lettera d'addio. Kurt era dilaniato dal difendere se stesso dall'emozioni altrui e dalle sue che ad un certo punto, forse, non riuscì più a provarne alcuna. E, sempre forse, si sparò.
 
 
 
Chiariamoci. Essere sposato a Courtney Love porterebbe alla saturazione anche Andrea Bocelli.
Chiariamoci. Strafarsi di roba e al tempo stesso sentirsi un sensibilone non ti porta certo a pensare di campare fino a cent'anni.
Chiariamoci. Kurt era fatto così. Era più facile spararsi in bocca che continuare a sentirsi una merda incapace di provare amore come fanno tutti gli altri. Come fanno tutti gli altri.
 
"[...]Solo perché a tutti sembra così facile tirare avanti ed essere empatici. Penso sia solo perché io amo troppo e mi rammarico troppo per la gente."
Certe persone sono più sensibili di altre. Queste persone amano illimitatamente il prossimo fino a che non ne vengono nauseate. E cominciano ad odiare.
 
Io, per inciso, amo essere empatica. Amo amarvi e cullare le vostre ansie.
Ma non sono un cestino dove gettare le vostre frustrazioni. O nemmeno un soldatino ai vostri ordini. O la vostra àncora di slavezza. Sono empatica al punto giusto.
Se per caso mi trovaste per terra a dondolare con gli occhi cerchiati da occhiaie viola, sappiate che può anche avermi chiamato mia madre 5 minuti prima e allora è normale.
No, non è facile essere empatici e tirare avanti in maniera semplice. Verrebbe quasi voglia di rinchiudersi nell'eremo a Marotta Mondolfo, che d'estate poi si sta bene e si va al mare con Fra Pleudonio. Ma a differenza di Kurt, io non ho milioni di fans, una moglie nevrastenica e droga. Per me è più facile essere ignorata.
 
La lezione di oggi è che al mondo esistono persone che hanno un cuore più grande degli altri, fatto di vetro sottilissimo. Di solito queste persone si accoppiano con individui dal cuore delle dimensioni una nocciola. Una nocciola di Kevlar.
 
"I miei testi sono un gran mucchio di contraddizioni. Sono spaccati esattamente a metà tra opinioni estremamente sincere e sentimenti che nutro e confutazioni sarcastiche e spero umoristiche di ideali stereotipati da bohèmien superati da anni. Insomma, è come se per le personalità di chi scrive canzoni non ci fossero due scelte possibili. O quella di visionari tristi e tragici come Morrisey, Michael Stipe o Robert Smith, oppure il ragazzino bianco sgraziato e un po' fuori di testa da "Ehi, facciamo festa e dimentichiamoci di tutto" tipo i Van Halen o tutta quell'altra merda di heavy metal. Quello che voglio dire è che provare passione ed essere sincero mi piace, ma mi piace anche divertirmi e fare il cretino."
Kurt Cobain

venerdì 9 novembre 2012

Pillole di Morte: Jacques Futrelle

Da oggi inauguro la sezione "Pillole di Morte", una morte flash per allietarvi la giornata e permettere a me di stirare e ascoltare le psicosi mistiche di mia madre.
 
Il nostro primo morto flash è Jacques Futrelle, giallista americano che morì a bordo del Titanic in quella fredda serata del 1912.
 
Jacques Futrelle fu autore di numerosi gialli con protagonista Augustus S.F.X Van Dusen detto "La macchina pensante". Personalmente vi consiglio di leggere il suo racconto "La casa fantasma", un po' di suspense vecchia maniera.
La notte del 15 aprile 1912 Futrelle si assicurò che la moglie Lily May si accomodasse su una scialuppa di salvataggio dopodichè si fermò a fumare con un altro grande personaggio del Titanic, John J. Astor IV. Il suo corpo, a differenza di quello di Astor, non fu mai ritrovato.
 
Piccola curiosità: in seguito la moglie disse che se la sera prima del viaggio, che passarono a casa di amici a far baldoria, Jacques si fosse ubriacato allora forse non sarebbero mai partiti. Quello che lo fregò fu la sua morigeratezza nel bere. Cosa che, manco a dirlo, non fregherà mai me: al massimo potrei imbarcarmi su un cargo diretto a Panama pieno di omaccioni nerboruti o, più probabilmente, ritrovarmi al deposito A.T.C di Via Battindarno sul 20 barrato.

Lezione flash di oggi: cosa ve lo dico a fare.. Bevete.